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Il capitalismo globale e la sinistra

Jamie Stern-Weiner intervista Leo Panitch

sole fumoIn quale senso il capitalismo è un sistema ‘globale’?

Il nostro mondo è tuttora in gran parte costituito da stati nazione con economie e strutture di classe e sociali molto diverse.

Detto questo, molte delle economie sono integrate nelle reti di produzione delle imprese multinazionali (MNC) che producono, esternalizzano o appaltano in molti paesi diversi. Molti stati sono oggi altamente dipendenti, per una percentuale elevata del loro PIL, dalle esportazioni e dagli scambi che, a loro volta, sono inestricabilmente collegati a sistema bancario internazionale (attraverso i crediti al commercio, i derivati del mercato delle divise, e così via). Le banche commerciali e d’investimento sono diventate interamente internazionalizzate. Da questo punto di vista si può dire che ciò di cui parlava Marx intorno al 1850 – del capitalismo come sistema con tendenze globalizzanti – si è più o meno avverato.


Quale ruolo svolgono gli stati nel sostenere questo ordine capitalista globale?

Il nostro libro inizia con due citazioni. Una è di David Held, già della London School of Economics, che nei primi anni ’90 parlò di una crescente economia mondiale transnazionale che scavalcava anche gli stati più potenti. La seconda è di Eric Hobsbawm, nel suo magnifico ‘Age of Extremes’ [L’epoca degli estremi], e afferma che le MNC preferirebbero un mondo ‘popolato da stati nani o da nessuno stato del tutto’.

Il libro è un tentativo di correggere queste tremende idee errate.

Le MNC hanno bisogno degli stati. Quando si muovono in giro per il mondo, atterrano in così tanti stati. Lungi dal volere che tali stati siano nani, hanno necessità di stati con la capacità di proteggere la proprietà, di gestire dispute contrattuali mediante sistemi giuridici e legali relativamente efficienti e competenti, costruire infrastrutture e garantire una manodopera stabile. L’idea che le MNC, gli investimenti stranieri diretti e le banche transnazionali operino all’esterno dei sistemi statali, o che non dipendano dagli stati assolutamente quanto il capitalismo è dipeso dagli stati per emergere, tanto per cominciare, è semplicemente fuori dal mondo.


Ma è corretto affermare che la globalizzazione economica, anche se non fa a meno della necessità di uno stato, restringe molto le opzioni della politica economica (controllo dei capitali, programmi di assistenza sociale) che uno stato può perseguire, rendendone molto proibitivamente costose?

Sì. Ma gli stati non sono stati mai in una posizione in cui i controlli sui capitali, nella misura in cui interferivano con l’accesso all’accumulazione capitalista, non erano costosi. Le politiche socialdemocratiche di assistenza sociale e i tipi di controllo sui capitali che esistevano in tempo di guerra e dopo la seconda guerra mondiale (anche se gli statunitensi li hanno adottati solo temporaneamente) erano intesi ad agevolare la ricostruzione del capitalismo.

Durante la seconda guerra mondiale i controlli sui capitali erano mirati ad assicurare un tipo di capitalismo che fosse orientato al libero scambio e alla transnazionalità (e, di certo, alla liberaldemocrazia) perché combattevano un tipo di capitalismo che fosse economicamente nazionalista. I controlli sui capitali dopo la seconda guerra mondiale furono esplicitamente organizzati, da ciascuna parte, per dare agli stati dell’Europa occidentale e al Giappone uno spazio di manovra, in modo che tutti i loro capitali non affluissero immediatamente a New York. Ma sono sempre stati progettati come temporanei. Il tipo di controlli sui capitali adottato, allora, facilitò lo sviluppo del capitalismo e dei mercati finanziari nell’ambito dei paesi che li trattenevano.

Lo stesso vale per le politiche dell’assistenza sociale del ventesimo secolo. E’ indubbio che lo stato assistenziale è stato un prodotto di riforme reali. Ma se introdotte dall’alto o come risultato di pressioni dal basso della classe lavoratrice, sono state per la maggior parte strutturate in modo da non compromettere le relazioni sociali capitaliste. Persino l’assicurazione universale contro la disoccupazione è stata strutturata in modo da evitare di minare i mercati del lavoro: si ricevevano contributi per la disoccupazione solo dopo aver partecipato al mercato del lavoro e se ne beneficiava per il periodo consentito dai contributi, per i quali si era pagato. Dunque è importante evitare di ricavare una distinzione netta tra i controlli sui capitali e le riforme dello stato assistenziale e la riproduzione delle relazioni sociali capitaliste.

Ciò detto, io penso che il modo di porre la questione sia corretto. Occorre effettivamente guardare al modo in cui l’internazionalizzazione del capitalismo ha spostato i costi di certi compromessi politici raggiunti quando il mondo del lavoro era forte. Più in generale, si dovrebbe esaminare come gli effetti della globalizzazione influiscono sul rapporto di forze di classe all’interno di ciascuno stato, e viceversa.


Come dovremmo interpretare l’interazione delle forze politiche nazionali e di quelle economiche internazionali? Le forze economiche internazionali sono da interpretare meglio come pressioni interstatali che assumono forme economiche? Dovremmo guardare principalmente a come le
pressioni economiche internazionali accrescono o minano il potere di particolari gruppi nazionali?

Di nuovo, penso che la dicotomia sia errata. Innanzitutto quando le MNC o le banche internazionali si localizzano in certi stati nazione – e non sono mai situate altrove – diventano forze classiste all’interno di tali società. Ciò già influenza la questione interno/esterno. In secondo luogo, quando gli stati del Terzo Mondo hanno cominciato a introdurre politiche neoliberali negli anni ’80 e ’90, esse sono state interpretate da molti come imposizioni del FMI. Ma in tutti quei casi ci sono state anche forze borghesi nazionali all’interno di ciascuno stato che premevano per tali riforme. Dover andare con il cappello in mano dal FMI ha consentito ai governi di dire alle proprie società: “Beh, in realtà non volevamo fare questo, ma il FMI ci ha costretti”. Ma in realtà quello che ha fatto il FMI è stato rafforzare le forze politiche ed economiche interne a tali stati che già premevano per una rimozione dei controlli sui capitali, la loro possibilità di essere appaltatrici delle MNC e così via. Quella cui si è dunque assistito è stata un’azione comune di pressioni nazionali e internazionali.

Ciò opera anche al livello delle sedi internazionali in cui gli stati si riuniscono. Al FMI, al G7, al G20 e altrove i leader degli stati, i dirigenti dei ministeri delle finanze i banchieri centrali socializzano per parlare un linguaggio comune, pensare in termini comuni, sviluppare politiche comuni e coltivare un senso di amicizia e obblighi reciproci. Ciò diventa un fattore di armonizzazione della politica. Di nuovo, tuttavia, lo si dovrebbe vedere non come un processo che inizia ‘all’esterno’ ed è poi imposto ‘all’interno’, ma come un prodotto di una dialettica tra l’’interno’ e l’’esterno’.


La solidarietà internazionale è tipicamente associata a movimenti popolari. Nella tua esposizione, tuttavia, l’ordine capitalista è sostenuto in modo cruciale da un internazionalismo dell’élite, con élite di diversi stati che collaborano per garantire la riproduzione del sistema. Potresti parlare un po’ più di questo e del perché la solidarietà dell’élite è proseguita dopo la crisi finanziaria del 2007-08, anziché frantumarsi in una rivalità del tipo di quella della seconda guerra mondiale?

Temo che la solidarietà internazionale tra classi capitaliste e leader di stati capitalisti sia molto più forte della solidarietà internazionale del ‘proletariato’ o del movimento contro la globalizzazione. Questa solidarietà dell’élite è una conseguenza dell’accresciuta penetrazione internazionale del capitale e della base materiale comune che crea.

La solidarietà mostrata dall’élite capitalista nell’affrontare la crisi economica è un prodotto di intensi sforzi statali. Sono cominciati con le istituzioni create dopo la seconda guerra mondiale per promuovere la collaborazione delle élite negli anni ’60 per gestire i forti conflitti di classe che stavano producendo un nazionalismo economico del Terzo Mondo e per gestire le tensioni tra Europa, Giappone e Stati Uniti riguardo al dollaro. Queste istituzioni, in cui si incontrano i banchieri centrali e i collaboratori dei ministeri delle finanze, hanno gettato le basi del G7 e, infine, del G20.

Ciò che è accaduto dopo la crisi finanziaria del 2007, paragonato a quanto accaduto prima della prima guerra mondiale e durante la Grande Depressione, è notevole. Già durante la crisi degli anni ’70, quando tutti prevedevano un risorgere della rivalità inter-imperiale, si è visto un enorme grado di collaborazione tra gli stati nordamericani, europei e il Giappone nel gestire la crisi. Ciò è stato anche più considerevole a partire dal 2007.  I leader del G20 – non solo i banchieri centrali e i ministri delle finanze, ma i leader politici – sono stati convocati a Washington e hanno diffuso un comunicato congiunto in cui si sono impegnati a non perseguire alcuna politica nazionale, nel gestire la crisi, che ostacolasse il libero scambio e i flussi dei capitali. Incontrandosi di nuovo a Toronto nel giugno del 2010, si sono nuovamente impegnati a questo. E in realtà non abbiamo assistito all’introduzione di politiche doganali che danneggiassero altri paesi per avvantaggiare il proprio, a guerre commerciali o a controlli sui capitali intesi a minare l’internazionalizzazione della finanza.

Tuttavia, nonostante questo notevole grado di solidarietà tra stati capitalisti, non sono riusciti a por fine alla crisi. Questa è la quarta grande crisi del capitalismo globale, dopo quella della fine del diciannovesimo secolo, quella degli anni ’30 e quella degli anni ’70. Come le precedenti, durerà almeno un decennio e anche se le élite capitaliste sono state in grado di limitarla, non sono riuscite a risolverla.


Se la rivalità tra stati non è stata infiammata dalla crisi, quali sono le principali linee di frattura che sono state provocate da essa?

Per essere chiari, anche se la crisi non ha distrutto la solidarietà tra le élite, ci sono costanti tensioni e rinegoziazioni dello status e delle posizioni degli stati nel capitalismo globale. Ma questa diplomazia economica internazionale non fa in nessun senso presagire un nuovo scoppio di rivalità inter-imperiali.

Né il conflitto principale aggravato dalla crisi è un conflitto tra capitale industriale e capitale finanziario. Molta dell’analisi economica di sinistra si è concentrata sui conflitti tra segmenti del capitale; ad esempio tra un capitale industriale ‘produttivo’ e uno finanziario ‘speculativo’. Ma i principali protagonisti del capitale industriale sono ora diventati così transnazionali e così collegati, a motivo di ciò, con la finanza transnazionale che non è più probabile che rompano con il capitalismo globale di quanto lo faccia la finanza. Ciò significa che la tradizionale strategia del movimento del lavoro riformista – allearsi con il capitale industriale contro la finanza internazionale – non è più nelle previsioni.

Le principali linee di frattura negli anni a partire dalla crisi sembrano non essere tra ma entro ciascuno stato nazione. Essi naturalmente si allargano in proteste internazionali (il World Social Forum, il recente tentativo a Firenze di resuscitare il Social Forum europeo) ma tutto ciò è sempre ricondotto, in termini concreti, a tentativi di cambiare il rapporto di forze all’interno degli stati nazionali. Dunque oggi le vere linee di faglia sono i conflitti all’interno degli stati. Per fornire solo due esempi: dobbiamo a cosa significano le successive ondate di scioperi cinesi per il modo in cui la Cina si è sinora integrata nel capitalismo globale, e dobbiamo esaminare le forze all’interno della Grecia che hanno prodotto la Syriza come più promettente partito anti-neoliberale sulla scena politica europea.

Detto questo, per prendere l’esempio della Grecia, non importa quanto succede in Grecia e non importa quali saranno i successi della Syriza da questo punto di vista; arriveranno solo sin dove sarà loro consentito in assenza di corrispondenti svolte nel rapporto di forze in Europa, specialmente nell’Europa del nord e, in modo decisivo, in Germania. Siamo di nuovo al 1917: la svolta si verifica nell’anello più debole, ma la capacità delle forze di cambiamento fondamentale in una società come quella greca di portarla avanti in un modo che sia democratico e di realizzare i loro obiettivi dipende da svolte complementari all’interno di altri stati nazione, soprattutto in quelli più potenti.

Dunque le linee di frattura sono all’interno degli stati ma, di nuovo, non è una questione di ‘dentro’ o ‘fuori’; è una questione di sinergia.


Le economie di dimensioni piccole e medie potrebbero rompere unilateralmente con l’ordine economico globale? Sarebbe troppo doloroso?

Ciò si saprà solo alla prova dei fatti. Dipenderà dalla natura delle risorse naturali di un particolare paese e dagli accordi che potrà raggiungere con altri stati, considerato il rapporto di forze geopolitico, e così via.

Ma hai ragione: la dialettica interno-esterno è tale che è difficile immaginare che si verifichi una rottura del genere che permetta la realizzazione delle ambizioni democratiche socialiste, senza svolte complementari nei rapporti di forze in altri stati, soprattutto in quelli più vicini a noi.


Quali sono le implicazioni di questo per la strategia della sinistra?

Innanzitutto, significa che dobbiamo liberarci dall’illusione che si possa cambiare il mondo senza prendere il potere. E’ assolutamente impossibile progredire in direzione di un mondo migliore a meno che le forze sociali che sono in conflitto in ogni società non trovino espressione nella trasformazione – in termini di organizzazione e di politiche – degli stati di tali società.

In modo correlato, significa che dobbiamo andare oltre una politica di protesta. Anche se enormemente fonti di energia e creative, le proteste di piazza dovrebbero alimentare la creazione di organizzazioni politiche che mirino non soltanto a schierarsi all’esterno dello stato e a tirargli pomodori, o a fare a botte con la polizia, bensì a costruire il genere di organizzazioni che possano entrare nello stato e cambiarne l’architettura.

Come risponde a questo un ventitreenne, indubbiamente politicizzato in un’epoca molto diversa da quella in cui mi sono politicizzato io?


Concordo sul fatto che la mancanza di istituzioni in grado di tradurre i moti di protesta in un’organizzazione più durevole è un grosso problema. Ma sono diffidente dal ripetere la critica standard – ‘dovete sviluppare un programma’ – senza avere un’idea più chiara di quale dovrebbe essere quel programma. L’altra cosa che trovo frustrante, e che fa parte della logica che sta dietro l’organizzazione di questa serie
[di articoli – n.d.t.], è che le cronache e i commenti economici sono spesso sviluppati al livello sbagliato di analisi: sono concentrati su specifici dettagli dell’ultima revisione del bilancio, ad esempio, senza porre la cosa in un contesto internazionale.  

Non potrei essere più d’accordo.

Anche se si sviluppa un programma che sia tanto visionario quanto concreto, dove ci porta se non disponiamo di veicoli politici che abbiano una possibilità di entrare nello stato e cercare di attuarlo? Ci lascia a cercare di influenzare Ed Milliband, che è così strutturalmente limitato dal ruolo del Partito Laburista e delle forze dell’élite al suo interno che, se anche nutrisse simpatia [per il programma] non potrebbe fare molto per attuarlo.

Dunque dobbiamo cominciare a pensare a come costruire nuove organizzazioni politiche. Ma io capisco la preoccupazione della tua generazione di evitare di replicare i vecchi partiti comunisti e socialdemocratici. Dipenderà dal prendere la creatività delle proteste di piazza e metterla all’opera per costruire organizzazioni che siano in grado di trascendere quei modelli molto non democratici.

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Questa intervista fa parte della serie della NLP ‘La politica di sinistra nell’economia internazionale’.

Leo Panitch detiene la cattedra di Economia Politica Comparativa del Programma Canadese di Ricerca ed è Professore Ordinario di Ricerca in Scienze Politiche all’Università di York. Eminente economista politico di sinistra è direttore di lunga data del The Socialist Register e autore, con Sam Gindin, di The Making of Global Capitalism [La costruzione del capitalismo globale] (Verso, 2012).
Ha parlato al New Left Project (NLP) del ruolo degli stati nel capitalismo globale, della cooperazione delle élite sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008 e delle possibilità della politica di sinistra in un mondo politicamente integrato.
Jamie Stern-Weiner è codirettore del New Left Project [Progetto di una nuova sinistra]

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