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il ponte

Del "nazionalismo economico" di Giulio Tremonti

di Luca Michelini

1. Considero il “liberismo di sinistra”, ovvero l’ideologia post-comunista che in Italia ha innervato la costruzione del Partito democratico, una pseudocultura, per altro del tutto inadeguata a capire e ad affrontare la crisi epocale in corso, anche perché corresponsabile della stessa crisi[1]: è perciò naturale che il testo di Tremonti, La paura e la speranza (Mondadori 2008), mi fosse risultato simpatico.

Avevo abboccato, insomma. Vi avevo scorto un barlume di tentativo di uscire dalle strettoie di una prassi e di una cultura liberista che è sempre stata strumento del dominio che, di volta in volta, il paese capitalisticamente piú avanzato (pervaso da varie forme di “capitalismo di Stato”, che Tremonti poneva in luce: p. 48) ha tentato di imporre al resto del mondo in nome delle ragioni del liberismo[2]. Un dominio ricco di opportunità per i dominati, ma anche di insidie destabilizzanti, sul piano economico, sociale e democratico. Mi incuriosiva che certi ragionamenti uscissero dalla cerchia dei settarismi nostalgici dell’attuale sinistra extraparlamentare e del bonapartismo giacobino postcomunista, passando in pasto all’elettore medio di centrodestra e, probabilmente, anche di centrosinistra. Ché in Italia viviamo, ancora nel 2012 cioè a diverso tempo dall’inizio della crisi, il paradosso (che Tremonti intuisce, perché non inacidito da becero anticomunismo) che il dibattito pro o contro Keynes e pro o contro l’intervento pubblico è affidato alle “tesi congressuali” di Rifondazione comunista[3], mentre le altre forze politiche spesso parlano di tutt’altro. Basti dire che nel Pd i cosiddetti liberal (Veltroni), che hanno letteralmente regalato il governo del paese a un Berlusconi boccheggiante[4] e che in un qualsiasi partito “normale” sarebbero spediti a leccare i francobolli, concentrano il fuoco, fedelissimi adepti del deflazionista Monti, sulle timidissime aperture “socialdemocratiche” di avverse correnti di partito vagamente memori delle lezioni della storia[5].

Del resto i maggiori quotidiani italiani – «Corriere della sera» e «La Repubblica» – e le maggiori case editrici – «il Mulino», a cui è stato affidato il monopolio legale della conoscenza dalle “riforme” (sic!) universitarie –, continuano a propinare imperterriti gli articoli dell’Adam Smith Society[6] e dei nostrani “liberisti di sinistra” [7], nonché filosofie della storia che hanno in uggia la “socialdemocrazia cattocomunista” e la Costituzione[8], e lezioni di anticorporativismo sindacale che cercano di convincere i disoccupati e gli eterni precari che la loro condizione dipende dall’esistenza del famigerato art. 18 dello Statuto dei lavoratori[9].

Si tratta di pifferai che porteranno l’Italia e il mondo sulla soglia del disastro sociale e civile, come in Grecia, e che parlano di privatizzazioni e di liberalizzazioni e di tante altre amenità angloamericane, mentre lo Stato, anzitutto in anglolandia, è già stato costretto a salvare l’intero sistema. Pifferai che, deliberatamente celando fatti e proponendo banali falsificazioni della realtà, nonché storpiando indecentemente i termine di «equità» e di «riforme» per propinare odiose e laceranti iniquità, e vere e proprie controriforme, si fanno corresponsabili dell’immane trasferimento di ricchezza che sta avvenendo, anche grazie alla mano pubblica e ai salvataggi operati dalla Bce, dai ceti produttivi ai ceti parassitari, che vivono di finanza o di redditi da proprietà. Per dare un’idea dello stato del dibattito italiano di politica economica è sufficiente osservare che la “frontiera” delle ricette dello sparutissimo gruppetto di “economisti di sinistra” consiste nel convincere le classi dirigenti dell’inevitabilità dell’intervento della Bce o dell’assurdità delle politiche deflazioniste[10]: l’Italia ha dovuto aspettare Tremonti, come vedremo, per parlare esplicitamente di nazionalizzazioni come conseguenza dei salvataggi[11]!

Ma tant’è: il mondo borghese oggi è pervaso dalla legge della massimizzazione del guadagno comunque realizzato; la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, la lotta alla rendita nonché un serio ragionamento sulla statualità la borghesia li ha lasciati nelle mani della tradizione anticapitalista (compendiata da Marx, con il quale Tremonti civetta volentieri), salvo poi recuperarli quando si è ritenuta incalzata dagli avvenimenti, cioè dalla concorrenza commerciale e statuale estera, dalla democrazia e dal movimento dei lavoratori, non senza però aver prima portato piú volte il mondo nell’abisso della crisi sociale e, in ultima analisi, della guerra e dei disastri che ne conseguono. Oggi il mondo borghese, atterrito dalla concorrenza globale, ha urgenza, là dove esiste ancora un nucleo di statualità, di trasformarsi in cetualità redditiera e punta, grazie alla leva finanziaria e all’immigrazione, all’appropriazione delle risorse naturali e degli esseri umani, per ricreare giganteschi e rinnovati e multiformi latifondi.

Simpatizzavo, per riprendere il discorso, per chi, come Tremonti, ancora rivendicava la distinzione tra destra e sinistra – naturalmente l’Italia pullula di teorici “neoriformisti” che ne hanno decretata l’estinzione – e stigmatizzava il «mercatismo», un’orrenda parola dall’odore inconfondibile di sacrestia che l’autore utilizzava per identificare una degenerazione del liberismo, un nuovo sistema sociale che avrebbe demonizzato lo Stato «e quasi tutto ciò che era pubblico o comunitario, ponendo la sovranità del mercato in posizione di dominio su tutto il resto» (p. 18).

2. Simpatizzare non significa, ovviamente, condividere e prendere sul serio. Avevo abboccato – mi giustifico! – perché incalzato dai tanti lettori di sinistra che mi avevano costretto, con le loro domande e considerazioni, a sfogliare le pagine di Tremonti.

Retaggio di sinistri nazionalismi risultavano le “speranze” nutrite dal potente ministro. Anzitutto veniva propinata la ben nota teodicea malthusiana, secondo la quale all’umanità che sta andando incontro a un futuro di miseria perché incalzata da risorse scarse e quindi dal continuo aumento dei prezzi, non rimarrà, per salvarsi, che il ritorno a valori spirituali non meglio identificati, ma comunque radicati in una piú agguerrita identità “giudaico-cristiana”, come da volontà vaticane. Non si arrivava ancora all’elogio cattolico della povertà (naturalmente altrui), ma ovviamente si insisteva sulla prevedibile decadenza europea alimentata dall’aggressivismo cinese. La critica del «mercatismo» implicava poi il bonapartismo: il fastidio per l’assemblearismo sessantottino finiva con il rimpianto di una società incardinata su «ordine», «gerarchia» (p. 78), «autorità», «responsabilità».

Il richiamo a generici valori confessionali – la famiglia deve rimanere “normale”, della scienza si può e deve diffidare, anticristo sono Darwin, Freud, Marx e Malthus (presumo per via dell’invito all’astinenza sessuale) – era fondato su un anticonsumismo di maniera (non si può cambiar moglie come un dopobarba), veicolato piú che da preoccupazioni ecologiste, pur sbandierate, dal disgusto salottiero, mi permetto di chiosare, per consumi massificati e per ciò stesso non piú capaci di marcare la differenza e la gerarchia sociale. Pur distante dal tenebroso mondo della “reazione”, Tremonti indugiava volentieri a un identitarismo territoriale («le piccole patrie») di stampo leghista: «identità non è infatti solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo» (p. 77); l’identità va imposta con il potere e «l’inclusione degli “altri” in Europa può proseguire, però solo se gli “altri” cessano di essere ‘altri’ e diventano “noi”» (p. 78).

Andava però dato atto a Tremonti di tentare, forse perché altrimenti non poteva andare in giro per l’Europa a stringer mani ministeriali, di mondarsi da tutto il citato pressapochismo reazionario filo-leghista: la restaurazione del potere della politica ai danni di quello del mercato invocava, infatti, un piú conseguente e deciso europeismo. Invocava, tra le altre cose, una politica estera comune, una politica industriale comune, non ostile alle grandi concentrazioni industriali e agli aiuti di Stato, una politica commerciale comune. Era insomma necessario costruire, a livello europeo, una solida struttura statuale e protezionistica capace di confrontarsi con i capitalismi americano e cinese.

3. Non è chi non veda la farsa e la tragedia sottese a simili tesi: un neonazionalismo e un neostatalismo quale quello tratteggiato in Italia dovevano fare i conti con la realtà, cioè con il potere di Berlusconi e dei ceti che ne alimentano il potere.

Tralascio ogni commento in merito al «mercatismo» consumistico di Mediaset, anche se viene il sospetto che Tremonti abbia pubblicato il libro per placare il suo confessore o, in alternativa (andrà in chiesa?), la sua coscienza, cioè per espiare il peccatuccio di essere al totale servizio (fiscale) di una macchina diabolica che fa di ogni programma televisivo e di qualsiasi argomento un veicolo per la pubblicità. E come non scorgere dietro l’invocazione di un nuovo comunitarismo e di una nuova statualità il via libera all’irrefrenabile voracità ultra-«mercatista» di Comunione e Liberazione, piuttosto che delle gerarchie vaticane, che ancora ringraziano per l’otto per mille?

Impossibile poi resistere alla tentazione di considerare la denuncia del dumping sociale e fiscale operato ai danni degli europei come una sostanziale, anche se implicita giustificazione delle ragioni sociali del blocco sociale sottostante alle politiche economiche berlusconiane: l’evasione fiscale, l’abusivismo d’ogni tipo, la sovrapposizione tra interesse individuale e interesse generale, il depredamento degli spazi collettivi d’ogni genere, lo smantellamento della scuola pubblica e via discorrendo[12].

D’altra parte, un novello intervento pubblico marca Berlusconi finirebbe per configurare una sorta di nuovo sistema economico, forse primo caso al mondo, dove allo Stato-imprenditore, sorto con il fascismo per far fronte alla crisi del 1929 e modellatosi non sulle puerilità corporative, ma sulle capacità del cosiddetto “nittismo” [13], verrebbe sostituito, dopo l’assurda e fallimentare stagione delle privatizzazioni, dopo il crollo della Seconda repubblica e in conseguenza della crisi mondiale in corso, dall’imprenditore-Stato. Verrebbe cioè sostituito da una dinastia familiare capace di controllare direttamente, senza piú alcuna intermediazione politica, sociale e istituzionale, l’intera complessità sociale: grazie alla pubblicità perfino le coscienze, come voleva il nazista Schmitt[14].

La pavidità di Tremonti, che è poi la pavidità dell’attuale borghesia italiana, risultava insomma lampante: in tutto il libro non c’era un solo riferimento a Berlusconi, come non esistesse e come se il lettore non conoscesse alla perfezione, anzitutto per esperienza diretta, la realtà del partito-azienda, del parlamento-azienda e del governo-azienda, che ambiva a instaurare anche la magistratura-azienda.

Alla borghesia come classe, e quindi alla borghesia intesa come universo complesso e variegato di figure sociali e istituzionali, che solo nel gioco di multiformi contrappesi e di una complessa divisione del lavoro, e anzitutto tra quello politico e quello economico, riesce a definire un interesse comune e, talvolta, un interesse addirittura generale, Tremonti, con il silenzio del suo testo, sostituiva il borghese, cioè Berlusconi in persona, circondato da cortigiani, da stipendiati, da dipendenti, da un immenso pulviscolo di microrealtà imprenditoriali aggrappate a uno pseudoideale federalista, fatto, banalmente, di poltrone e di assessorati, di livore xenofobo, di utopie pubblicitarie, di pavidità antimafiose, se non di vere e proprie collusioni. Invece che una nazione, l’autore con il proprio nazionalismo e silenzio prefigurava una Signoria, un neofascismo patrimoniale[15], che peraltro pubblicizzava, letteralmente, comportamenti che gridavano vendette ben piú potenti di quelle protestanti di cinquecentesca memoria e di cui Tremonti, nel testo, si rammaricava, perché primo passo della dissoluzione dell’unità europea.

4. Scorrere le pagine dell’ultima fatica di Tremonti, Uscita di sicurezza (Rizzoli, 2012), offre alcune novità rispetto al testo precedente, pur ponendosi in continuità con esso[16].

La prima: il filoeuropeismo è accentuato e vengon meno le sparate reazionarie prima ricordate. Di piú: si prevede che una delle possibili soluzioni della crisi in corso, tutt’altro che superata dunque, potrebbe essere un nuovo conflitto o la nascita di nuovi appetiti imperialistici tedeschi o la totale subordinazione, con relativa perdita di sovranità, dei paesi europei piú deboli a favore di un irresponsabile Fondo monetario internazionale.

La seconda: il potere della finanza, duramente criticato, è presentato come «fascismo bianco» (p. 14) o «fascismo finanziario» (p. 120), come un potere radicalmente antidemocratico, che governa la politica, che si muove, come un tempo i militari, attraverso «pronunciamenti» (p. 118). Pur non essendo mai citato, la mente non può che andare al governo Monti: «la finanza arriva all’ultimo stadio, mettendosi a governare in presa diretta facendo uso di tecnici» (pp. 13-14).

Terza novità: l’autore non solo ribadisce piú volte che il “sistema” – in realtà un vero e proprio “caos” – è stato salvato dell’intervento pubblico, ma anche che questo intervento, invece di andare a favore della collettività, è andato a favore dei banchieri (p. 170), cioè degli attori principali del disastro economico. Trasformando in pubblici i debiti privati si è poi innescata una «selvaggia competizione diretta tra gli Stati che ne sono emittenti, dentro una forsennata dinamica concorrenziale, per cui ogni 8 secondi viene emesso 1 milione di euro di debito pubblico» (p. 38).

Quarta novità: Tremonti si rammarica che le banche salvate non siano state nazionalizzate (p. 169) e vuole un deciso ritorno alla separazione tra attività industriale e attività finanziaria, finendo per stigmatizzare l’avvenuta deregolamentazione dei mercati finanziari, gli accordi di «Basilea tre» (che non diminuiscono la leva finanziaria), la totale assenza di controlli da parte della Bce (tutta intenta al controllo dell’inflazione e del debito pubblico) sul sistema creditizio - non sorprende che l’autore guardi con favore, se pur con estrema prudenza, alla «Tobin tax».

Insomma: pur dichiarando ormai sepolta per sempre la politica del deficit spendig (anche se un richiamo positivo a Keynes viene fatto), Tremonti invoca con decisione il ritorno della mano pubblica, in un’Europa finalmente politica, democratica, incentrata sui poteri del parlamento, forte di un grande mercato interno abbastanza autosufficiente, nonché mondata dalle assurde politiche di rigore fin qui propinate (insiste molto su questo concetto: p. 81, p. 96, p. 147, p. 153). Si invoca addirittura il ritorno dell’economia mista, la nascita degli eurobond, una «domanda pubblica per beni pubblici di interesse collettivo», «vasti e necessari programmi di investimenti pubblici mirati al bene comune, a partire dalle infrastrutture, tanto materiali/fisiche, quanto immateriali» (p. 179).

Tremonti, insomma, vuole un nuovo, deciso NewDeal, l’unica vera e positiva «via d’uscita», capace di realizzare il «bene comune» (p. 156) e una nuova politica, fatta non piú «nell’interesse dei pochi, ma dei piú», una politica «che non ha il sé il pulpito inquieto e tragico dell’ultimo effimero ventennio, ma il respiro profondo della storia» (p. 158). Addirittura una politica che sappia rimettere «il giusto al posto dell’ingiusto, il diritto al posto dell’abuso, l’idea del bene comune al posto del mito dell’affare individuale» (p. 157).

L’attacco alla finanza e l’invocazione della «moneta di popolo», che di fatto strizzano l’occhio al nazionalismo nostalgico nostrano (che ci aggiunge, ovviamente, anche l’antisemitismo), lasciano insomma il posto a tutt’altro discorso. Si è colpiti dall’ideale di capitalismo che Tremonti prefigura, incardinato su un noto manifesto: «correttezza», «integrità», «trasparenza», lotta alle pratiche «anticoncorrenziali», «primato della legge», «l’equo trattamento», lotta all’illecito, «responsabilità d’impresa», lotta alla «corruzione» e al riciclaggio di capitali, una trasparente interazione tra pubblici poteri e imprese (pp. 175-176).

A leggere simili decaloghi l’establishment pidiellino si farà una sonora ghignata[17], telefonando all’autore complimentandosi per il beffardo sarcasmo e l’immensa faccia tosta, e buttando lí l’accenno a un qualche prossimo “affare”, nella speranza, ritengo vana, di trovare un qualche ascolto. Oppure invocherà la procedura dell’espulsione per indegnità morale! O siamo invece di fronte a un tentativo di abbandonare la nave che affonda, magari per costruire una nuova forza politica di centrodestra all’insegna di una rinnovata ribellione alla fiscalità? Vedremo. In ogni caso, paragonando le parole (i testi) con gli atti (la politica economica), e valutando il tipo di pubblicistica proposta da Tremonti, vengono in mente certune mode in voga durante il Ventennio, quando il variopinto corporativismo fascista, in cerca di autonomia di “sistema” tanto dal capitalismo quanto dal comunismo, si riempiva la bocca perfino con Keynes, contribuendo potentemente, purtroppo, a svilirne e fraintenderne la portata. Se si aggiunge a ciò l’evidente e perdurante classismo che l’intervento pubblico in Italia ha spesso e volentieri assunto, non solo durante il Ventennio, si può ben capire il motivo per cui la sinistra italiana è stata cosí pervicacemente attratta, dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, dalla cultura antistatalista, e da quella liberista in particolare. All’imprenditore-Stato – una sottospecie dello «Stato comitato d’affari della borghesia» – è difficile non preferire il dominio “sobrio” della finanza e quindi dello straniero, come dalle attuali politiche montiane.

5. Il fatto che Tremonti non accenni mai a Berlusconi suggerisce ulteriori considerazioni. È, infatti, difficile resistere alla tentazione di scorgervi un tentativo di smarcamento: del resto Tremonti era la personalità piú indicata per una possibile soluzione alternativa a Berlusconi e non a caso nei momenti caldi della crisi politico-finanziaria un certo “dossieraggio” ha fatto venire a galla talune presunte magagne dell’entourage del potente ministro, tagliandogli le gambe o comunque mettendolo sull’avviso.

Tremonti costituiva un pericolo soprattutto per Berlusconi, vuoi perché legato anche alla Lega, vuoi perché molto meno “interno” di altri personaggi e quindi meno manovrabile, anche per il carattere decisionista (la mano del “maestro” Craxi è inconfondibile) che lo contraddistingue.

Per cinque minuti ho avuto l’illusione e la speranza che “i mercati”, cioè l’attuale capitalismo parassitario-finanziario all’ennesima potenza, avessero intenzione di caricare la stessa destra berlusconian-leghista dei disastri fatti, facendola oltretutto crescere d’età, mondandosi, dall’interno, dell’anomalia berlusconiana. Tuttavia forse ha ragione il presidente della Repubblica, maestro di realpolitik: come autoriformare una Signoria? Dalla «servitú volontaria» si può guarire solo passando dal dominio straniero.

Anche se l’insieme della destra parlamentare ora è oggettivamente in affanno (ma l’assurda politica fiscale di Monti tenderà a ricompattarla), mi rimane tuttavia radicatissimo il dubbio che con questa nuova “unità nazionale” si rischi di resuscitare, per l’ennesima volta, proprio Berlusconi: il cui potere economico, segreto del suo successo politico, è infatti ancora intatto. Forse ben piú potenti contraddizioni avrebbe aperto una presidenza del Consiglio interna alla destra parlamentare attuale. Mi rimane, poi, radicatissimo anche il dubbio che questa “unità nazionale”, che con Monti sta proponendo ricette nettamente di destra - le quali avviteranno la crisi, preparando la svendita del paese a altri paesi -, completerà lo sfascio del cosiddetto centrosinistra (dal Pd in poi), con la sua totale e definitiva perdita d’identità, con conseguenze notevoli sul piano della tenuta democratica e civile del paese e dell’Europa.

Rimane solo da sperare che il pragmatismo di Monti, ben addentro al potere e per ciò stesso almeno in parte necessariamente immune dal suicida dottrinarismo liberista, come dimostra il decreto salva banche e banchieri promosso dal suo governo, potrebbe assecondare un nuovo europeismo sociale – a cui l’Italia non sta dando alcun contributo serio e reale –, se non altro per puro ossequio al Vaticano.

In questo scenario, roseo se paragonato a quello di un rinnovato rigurgito bellicistico di nazionalismi italiani ed europei, e che prescinde da una tutt’altro che improbabile “grecizzazione” progressiva dei paesi piú deboli della Comunità europea (compresa l’Italia), in questo scenario, dicevo, “moriremo democristiani”, non c’è dubbio alcuno, e il confessionalismo – con tutto il ciarpame reazionario che ne consegue, in termini sociali, istituzionali e culturali – farà passi da gigante, come la povertà, che già viene spacciata come nuovo ideale da perseguire[18]: ma non vi è chi non rimpianga, come in fondo Tremonti, perfino un simulacro della Prima repubblica.



[1] Rimando a L. Michelini, La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Firenze, Il Ponte editore, 2008.
[2] Esiste un gruppetto di liberisti ultrà italo-americani, critici del berlusconismo e di Tremonti e pronti a colonizzare definitivamente il nostro sistema universitario e la nostra cultura in nome della vera scienza economica di cui si sentono i depositari: cfr. il sito http://noisefromamerika.org/ . Naturalmente costoro hanno trovato ascolto in movimenti … di sinistra: in Sel! Sul sito G. L. Clementi definisce il testo di Tremonti una «cagata pazzesca»: http://noisefromamerika.org/articolo/paura-speranza .
[3] Dove ancora alcuni non hanno capito che per essere rivoluzionari per davvero bisogna essere almeno keynesiani.
[4] L. Lanzillotta, allora veltroniana (o, nonostante il passaggio di partito, ancora?), aveva criticato il “protezionismo” tremontiano, dalla chiara impronta antidemocratica, ribadendo la vocazione filoglobalizzatrice e filoliberalizzatrice del Pd, che non aveva potuto che tradursi nella «scelta coraggiosa di liberarsi dai condizionamenti della sinistra radicale»: Tremonti ha chiarito la diferenza. La paura è la sua, la speranza è la nostra, «Il Riformista», 14.03.2008, p. 2.
[5] Si tratta di aperture talmente timide da apparire a tratti evanescenti. Per un esempio cfr. il testo dell’anti-Tremonti V. Visco, Il problema è la finanza che diventa un fine. Ma il passato non torna, «L’Unità», 13.02.2012, pp. 18-19. In ogni caso, Visco afferma, pur con grande prudenza (“il passato” non può tornare), che è indispensabile una «gestione controllata (programmata) delle economie», anche se di difficile realizzazione vista l’entità dei debiti pubblici e la necessità di un coordinamento internazionale.
[6] Un esempio per tutti: A. De Nicola, Privatizzazioni. Ecco i gioielli che vanno venduti, «La Repubblica», 20.01.2012, p. 1.
[7] Un altro esempio per tutti: A. Alesina, F. Giavazzi, Giovani e lavoro: verità scomode, «Corriere della sera», 22.01.2012, p. 1. Qui si trovano esilaranti dichiarazioni come la seguente: «nei quindici anni passati il mercato del lavoro italiano è diventato molto piú flessibile: il risultato, con buona pace di chi pensa che piú flessibilità significhi piú disoccupazione, è che (almeno fino all’inizio della crisi, che comunque passerà) molte piú persone lavorano». Tutto passa, insomma.
[8] Cfr. M. Salvati, Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi, Bologna, il Mulino, 2011.
[9] E. Scalfari, Una lettera per la Camusso che viene da lontano, “La Repubblica”, 29.1.12, p. 1.
[10] Si vedano per tutti: S. Cesaratto, L. Turci, Quello che i moderati del Pd non dicono, MicroMega on-line: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/10/12/cesarattoturci-crisi-quello-che-i-moderati-del-pd-non-dicono/; E. Brancaccio, La maggior precarietà non riduce la disoccupazione, MicroMega on-line: http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-maggiore-precarieta-non-riduce-la-disoccupazione/ .
[11] E’ tuttavia significativo che tra i sostenitori, pur cauti, del “neoriformismo”, si sia affacciata l’ipotesi di salvare il Paese nazionalizzando il sistema bancario: cfr. G. Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Guerini e Associati, Milano, 2012.
[12] Condivido, dunque, il giudizio di C. Maltese, quando osserva che Tremonti è da annoverare tra i «venditori di fumo» (e come tale, per «affinità elettive», apprezzato da noti «radicali in cashmere»): cfr. la «Prefazione» a G. La Torre, Il grande bluff. Il caso Tremonti. Vita, opere e pensiero del genio dell’economia italiana, Milano, Melampo, 2009, p. 9.
[13] Termine che scaturisce da F. S. Nitti, l’autorevole esponente del liberalismo radicale italiano, il padre spirituale di A. Beneduce, che architettò lo Stato-imprenditore durante il fascismo.
[14] Rimando al mio Dallo Stato-imprenditore all’imprenditore-Stato, «Il Ponte» n. 4, aprile 2009, consultabile anche sulla rete.
[15] Rimando a L. Michelini, Berlusconi “neoliberista” e “criminale”: un quadro senza cornice, in «MicroMega» on-line, http://temi.repubblica.it/micromega-online/berlusconi-neoliberista-e-criminale-un-quadro-senza-cornice/ .
[16] Leitmotiv delle analisi di Tremonti è l’eccessiva rapidità della liberalizzazione dei mercati avvenuta, grazie al Wto, dopo il crollo del Muro di Berlino. Secondo l’A., il Wto, «tempio del mercatismo», è «il comitato d’affari delle multinazionali»: G. Tremonti, Rischi fatali. L’Europa vecchia, il mercatismo suicida: come reagire, Milano, Mondadori, 2005, p. 36.
[17] È forse il caso di osservare che, nel corso dell’epoca «mercatista», Tremonti ha raggiunto innumerevoli traguardi di carriera e assai ragguardevoli redditi: cfr. G. La Torre, Il grande bluff … cit., p. 18. Tuttavia, in ogni epoca di crisi, dal seno delle classi dirigenti si levano analisi che tentano di focalizzare i limiti oggettivi del sistema di cui hanno per lungo tempo beneficiato.
[18] Rimando alla mia recensione del volume di E. Berselli L’economia giusta, Torino, Einaudi, 2010, in http://lucamichelini.eu/2011/01/19/la-sfida-chiamaparino-ossia-dellattuale-riformismo-nordista/ .

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