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Commento a "La crisi"

di Valerio Bertello

L’attuale crisi economica ha implicitamente attirato l’attenzione sulla questione di quale sia la forma attuale del capitale. Dato il carattere finanziario della crisi, viene dato per acquisito che la forma attuale del capitale sia quella del capitale finanziario. Forse è così, ma si può avanzare una obiezione dirimente a tale ipotesi. Cioè occorre rilevare che le contraddizioni di questa forma non portano ad un superamento del capitale, esattamente come nel medioevo il capitale usurario, in quanto elemento semplicemente parassitario della società, non poteva portare al di là del feudalesimo,. Allo stesso modo si può affermare che il capitale finanziario non è una forza storica progressiva. Lo stesso non si può dire per il capitale monopolistico. Qui le contraddizioni lasciano intravedere le forme del suo superamento. Questa è in sintesi la tesi sostenuta nelle note di lettura che seguono, che non intendono dimostrare nulla ma solo porsi come spunti di riflessione.

Per valutare correttamente l’attuale crisi economica occorre fare riferimento a due fatti fondamentali:

(1)    La legge della caduta del saggio del profitto si riferisce ad una tendenza. Infatti essendoci molti fattori che si oppongono a tale fenomeno, non si può parlare di questo come di un fatto inevitabile. Infatti il saggio del profitto dipende direttamente o indirettamente da molte variabili rispetto alle quali può essere funzione crescente o decrescente. Già Marx aveva rilevato questa circostanza elencando una serie di cause che “annullano” la legge “in modo da lasciare ad essa solamente il carattere di una tendenza” (Il Capitale, Roma, 1956, III, 1, p.316-17

(2)    Per contrastare efficacemente il fenomeno più che potenziare i fattori che si oppongono a tale tendenza, occorre agire sulle cause dirette del fenomeno stesso. Queste sono riducibili ad un’unica causa fondamentale: accrescere la produttività del lavoro, ciò che determina la ben nota tendenza all’aumento della composizione organica del capitale q, che è all’origine della depressione del tasso del profitto p (a condizione che un aumento del tasso del plusvalore s’ non compensi tale effetto), essendo p = s’(1 -q). Ma questa strategia viene imposta dalla concorrenza, che pertanto è la causa fondamentale della caduta del saggio di profitto. Quindi per contrastare tale tendenza per il capitale diviene necessario poter controllare i prezzi, cioè istituire in ciascun settore produttivo un regime di monopolio.

Con l’affermarsi del capitale monopolistico la caduta del tasso del profitto è posta sotto controllo. Dunque la crisi attuale è la crisi del capitale monopolistico, ma per questo suo carattere si prospetta come la crisi terminale del capitale in quanto tale. Infatti, l’eliminazione definitiva della tendenza del profitto a ridursi richiede la negazione del capitalismo nel suo aspetto essenziale: la concorrenza. Senza di essa non vi è più capitalismo, in quanto non è più operante la legge del valore, cioè le merci non si scambiano più tendenzialmente al loro valore. Quindi si accentua la socializzazione del capitale e si presentano le condizioni per il passaggio al socialismo. Infatti il capitale monopolistico è per alcuni aspetti fondamentali un capitale ibridato con il socialismo: pianificazione della produzione, economia regolamentata e stato sociale.

Il capitale monopolistico non ha più come fine la massimizzazione del profitto, ma la sua stabilità nel lungo periodo. A tal fine il capitale passa da una gestione puramente economica degli affari ad una prevalentemente politica. Cioè si passa da una regolazione degli affari sociali basata sulla valutazione di parametri economici (domanda, offerta, costi e prezzi), quindi dipendente dalle “oggettive” leggi del capitale, ad una fondata dai rapporti di forza sociali tra le classi (potere finanziario, politico, mediatico, militare e relative posizioni si comando nelle istituzioni). In tal modo il capitale si emancipa dal dominio dell’economia, ma così anche, di riflesso, il proletariato. Entrambi, ma soprattutto quest’ultimo, cessano di percepirsi come semplici fattori economici. In particolare il proletariato non si percepisce più solo come forza lavoro, ma comincia a considerarsi come classe per sé, come forza storica. Sul piano teorico tale livello di sviluppo è rappresentato dall’operaismo, teoria che pone la classe operaia come classe cosciente, che conosce la sua posizione sociale ed è in grado di darsi la sua strategia. Questa nuova coscienza si presenta certo in una forma ideologica, quella dei diritti del lavoro nella cornice del capitale, ma pone la questione non solo dei diritti ma anche della rottura di tale cornice.

Conseguenza di questo processo è la fine del feticismo dell’economia, del quale il feticismo della merce è solo l’espressione più semplice. Questo feticismo è un prodotto del capitalismo, per cui la sua crisi, che ha origine non nel male, nel calo del tasso del profitto, ma nel rimedio, il monopolio, segna anche la fine della falsa coscienza economica. Questa era il riflesso di una situazione reale, il capitale concorrenziale, ma ora essa sparisce con la sua fine. Questo feticismo ha pure influenzato, e influenza tuttora, la teoria rivoluzionaria, con la tendenza a dimenticare che dietro le forze produttive vi è il lavoro sociale, cioè che dietro le leggi economiche oggettive vi sono gli uomini concreti. Pericolo, quello di dar corpo alle astrazioni, contro il quale già metteva in guardia Marx quando, a proposito della storia feticizzata, afferma ne La sacra famiglia (Ed. Riuniti, 1972, p. 121): “La storia non fa niente … E’ piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente, che fa tutto, …; non è la storia che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini come se fosse una persona particolare; essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini”. Le teorie crollistiche, al cui fascino neppure lo stesso Marx potè sottrarsi, ne sono l’esempio classico

Se è vero che il motore della storia è lo sviluppo delle forze produttive, queste sono il frutto di attività umana che le crea, le sviluppa, le modifica producendone di nuove. Ma questa attività ha carattere eminentemente sociale, quindi ha il carattere sia della cooperazione che del conflitto. Perciò esse hanno un duplice aspetto: quello della divisione del lavoro e quello della lotta di classe, quindi quello della collaborazione in vista dell’interesse generale e quello del conflitto fra interessi particolari. Con la fine del feticismo economico questi due caratteri delle forze produttive possono emergere alla coscienza quali loro aspetti contradditori. Già il capitalismo concorrenziale aveva intrapreso un processo di socializzazione del lavoro con l’instaurazione della divisione del lavoro manifatturiera. Questa viene ampliata estendendola a livello internazionale dal capitale monopolistico, per cui cresce l’importanza attribuita all’interesse generale, cioè il monopolio assume responsabilità sociali. Ma al contempo si accentua il conflitto d’interessi tra capitale e lavoro, incentrato principalmente sulla distribuzione del prodotto. Così emerge chiaramente la contraddizione fondamentale del capitale, precedentemente occultata dal feticismo: socializzazione della produzione, appropriazione privata del prodotto.

Non è possibile, e nemmeno necessario, che dai conflitti che traggono origine dalle contraddizioni sorgano immediatamente nuovi rapporti sociali. In realtà ogni società nuova nasce e cresce in seno a quella vecchia, sviluppandonsi in forme che celano il suo vero carattere. Così è avvenuto per il capitale, che si è sviluppato per secoli in forme feudali (la borghesia era originariamente un ceto privilegiato fra gli altri). Così anche il feudalesimo nel declino della società schiavistica (il colonato precede la servitù della gleba). Del resto non può essere altrimenti. Come in biologia così nella società non è possibile la generazione spontanea. Allo stesso modo il capitale monopolistico genera in forma mistificata le forme del suo superamento: la divisione del lavoro internazionale e la regolamentazione dell’economia. Si tratta di portare alle estreme conseguenze tali tendenze già esistenti e liberarle dall’involucro capitalista. Condizione minima di ciò è la proprietà sociale dei mezzi di produzione.

Naturalmente il socialismo è un punto di arrivo, ma anche e soprattutto un nuovo inizio. E’ la fine della preistoria, ma per ciò stesso inizio della storia cosciente degli uomini. Ma la seconda fase è possibile solo dopo il compimento della prima, cioè dopo l’instaurazione del socialismo. Prima occorre costruire con quello che c’è, cioè con il lascito ereditato dal capitale morente. Ciò da una parte certamente facilita il compito, dall’altra pone dei limiti agli obbiettivi raggiungibili. Una volta portato a termine questo compito preliminare, cioè la rottura dell’involucro e la liberazione dei rapporti ivi giacenti, diviene possibile sulla base di essi la libera creazione di nuovi rapporti.

Se è valido il modello del capitale monopolistico occorre verificare se esso spiega la crisi economica attuale e come. L’analisi delle dinamiche connesse a tale forma è stata svolta da Sweezy ne Il capitale monopolistico. Le conclusioni che vengono tratte sulle contraddizioni che affliggono tale forma di capitale, possono essere applicate alla crisi attuale. Il capitale monopolistico si trova permanentemente in condizioni depressive, con un tasso del profitto ridotto ma stabile. Situazione determinata dalla scarsità di domanda solvibile rispetto alle enormi capacità produttive, che rimangono perciò inutilizzate. Quindi si tratterebbe di una permanente crisi di realizzo, ma non di carattere irreversibile, bensì di stagnazione pressoché costante. Varrebbe la pena esaminare questo quadro esplicativo. Dato che le possibili cause di crisi sono due: caduta del profitto e difficoltà a realizzarlo, occorre evitare di concentrare l’attenzione sulla prima possibilità trascurando la seconda.

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