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L’austerità sta uccidendo l’Italia

di Sergio Cesaratto

Pubblichiamo l’introduzione di Sergio Cesaratto al seminario tenutosi ieri 1° ottobre presso la Biblioteca del Senato per la presentazione dell’e-book “Oltre l’austerità”. L’audio dell’intero evento è disponibile grazie a Radio Radicale a questo link

miro4L’e-book “Oltre l’austerità” rappresenta uno sforzo collettivo di denuncia delle politiche europee di austerità. Fra i partecipanti vi sono fra i migliori economisti eterodossi italiani, assai noti all’estero. Vorrei qui solo brevemente ricordare il successo del recente workshop per giovani economisti organizzato dal Centro Sraffa che ha tenuto oltre 50 giovani di mezzo mondo a discutere di temi eterodossi. E’ importante che il pensiero economico critico sia difeso e mantenuto vivo nell’accademia – un invito qui ai politici presenti – contro il tentativo di utilizzare la giusta valutazione della ricerca per far fuori chi dissente da una teoria economica dominante che la crisi economica ha certamente screditato, ma non rimosso dalle posizioni di potere. Altro che quarantenni! verrebbe da dire. Parlare oggi con un giovane economista tipico (un bankitaliota per capirci) fa mettere le mani nei capelli a chi ha studiato con i Garegnani, Caffè, Sylos, Graziani e tanti altri maestri (ma naturalmente il menzionato workshop dimostra che vi sono ragazze e ragazzi che pensano con la testa propria). La difesa del pluralismo degli insegnamenti di economia appare dunque ineludibile, e un appello verrà in tal senso diffuso a breve da studenti e docenti. Su questi temi vorrei che davvero da qui uscisse un impegno.

Il libro è anch’esso rappresentativo di un pluralismo di idee. Vi è, tuttavia, più di un elemento che unisce i contributi. In primo luogo che da una diagnosi sbagliata delle cause della crisi non può che seguire una cura sbagliata. L’origine della crisi non è fiscale; l’austerità l’aggrava in una inutile fatica di Sisifo di riaggiustare i conti. Ci unisce anche l’idea che occupazione, crescita, e si badi bene, produttività dipendano fondamentalmente dalla domanda aggregata e non da politiche dell’offerta, necessarie ma non sufficienti.

Peraltro nei riguardi di queste politiche siamo assai distanti dalle posizioni dominanti e dai vincoli europei e per un intervento pubblico nella politica industriale. E comunque qualunque politica di modernizzazione del paese è difficilmente perseguibile in un clima di deflazione.

Sempre più ampia è la condivisione che le cause ultime della crisi siano in un’unione monetaria mal congegnata. Purtroppo un’Europa federale viene vagheggiata con la solita superficialità intrisa di retorica e senza entrare nel merito – assenza di competenze economiche e di pragmatismo vanno di pari passo nel discorso politico italiano coll’esaltazione del liberismo come risolutivo di tutti i mali (così si è anche assolti dal non sapere bene di cosa si parli). Un’Europa ben disegnata sarebbe simile agli Stati Uniti: un serio bilancio federale redistributivo fra le regioni della federazione; una banca centrale cooperativa con la politica fiscale con l’obiettivo di sostenere occupazione e crescita; un’unione bancaria europea che eviti l’abbraccio mortale fra crisi bancaria e crisi sovrana che sta affossando la Spagna; una comune politica sociale. (Molti di questi elementi erano nel riscoperto Rapporto MacDougal del 1977 e nel coevo Marjolin Report del 1975, evidenti ultimi vagiti Keynesiani) L’Europa è stata disegnata altrimenti – e, duole dirlo, sotto la direzione di un socialista Jacques Delors (sebbene questi volesse forse affiancare un’Europa Keynesiana a quella monetarista, il suo famoso e mai attuato “piano Delors” di investimenti europei). Per come disegnata l’Europa monetaria è una sorta di gold standard. Come si sa, le unioni monetarie hanno precipui scopi deflazionistici, il controllo dei salari mettendo l’una contro l’altra le classi lavoratrici dei paesi membri e poco altro. Questo lo sappiamo da Keynes. Ma forse questo esito era desiderato, come ci ha cinicamente ricordato l’iper-liberista Robert Mundell, sulla base dei cui studi ben si sarebbe dovuto conoscere l’esito.

Questi tre fattori:

  • l’enormità dello sforzo solidaristico richiesto da una Europa federale, per quanto lo si possa graduare;
  • l’esistenza di disegni che hanno visto nell’unione monetaria lo strumento per spazzar via poteri sindacali e stato sociale (si badi che quando parlo di disegni non penso a congiure ottocentesche degli statisti europei: le classi dirigenti sanno quello che devono fare senza che alcuno glielo dica);
  • la strategia vincente del paese dominante che nell’euro ha potuto giocare nel suo terreno preferito la solita partita neo-mercantilista (come aveva fatto con Bretton Woods e poi con lo SME: tenere l’inflazione domestica un pochino più bassa dei concorrenti comprimendo salari e consumi interni),

non inducono ottimismo in un mutamento del disegno europeo.

Quest’ultimo ha dapprima determinato la crisi della periferia molto somigliante alle crisi finanziarie dei paesi emergenti – in cui flussi di capitale determinavano bolle immobiliari, importazioni a vantaggio dei paesi centrali e indebitamento estero –, e l’ha poi gestita nel classico modo del FMI con politiche di austerità, senza neppure il sollievo della svalutazione della moneta per poter recuperare competitività.

Il nostro paese non era coinvolto in queste vicende, ma privo di sovranità monetaria è stato facilmente esposto al contagio. Un elevato debito pubblico in termini di Pil, frutto di altre scelte sciagurate degli anni ’80 dello scorso secolo – SME e “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, oltre alla tolleranza dell’evasione fiscale – lo rendeva fragile. (Mi si faccia osservare come falso sia stato quanto raccontato da molti che l’euro ci proteggeva da una grave crisi finanziaria: all’opposto è invece l’assenza di sovranità monetaria che ci ha trascinato nella crisi finanziaria! Si guardi alla positiva esperienza polacca, e studi del FMI docet). Molto dibattito è in corso nel nostro gruppo se, a prescindere dalla fragilità finanziaria dovuta al combinato disposto di un alto debito e dell’assenza di sovranità, la mancata compensazione via deprezzamento del cambio del differenziale nelle grandezze nominali, prezzi e salari, rispetto alla Germania non stesse comunque minando la solidità finanziaria del paese. Mentre molti sono di quest’opinione, alcuni sostengono che il buon andamento delle esportazioni in alcune nicchie di eccellenza dimostra come la sopravalutazione del tasso di cambio reale non sia stato un fattore determinante, mentre l’assenza di una politica energetica efficace abbia, ad esempio, contato di più nel minare i conti con l’estero. La risposta al quesito non è accademica: se la prima tesi (perdita di competitività) fosse vera, allora anche nella migliore delle Europe, il nostro destino sarebbe di un mezzogiorno sussidiato. Sia come sia, a noi sembra che indipendentemente dai possibili effetti negativi dell’euro sulla competitività, l’austerità stia comunque lentamente uccidendo il paese. Per cortesia, prof. Monti, ci risparmi espressioni quali “la ripresa non si vede, ma è dentro di noi”.

Le Sue “vittorie”, caro professore, come l’unione bancaria e l’OMT (Outright Monetary Transactions che tradotto dal gergo della BCE sono le “operazioni di mercato aperto” che gli studenti di economia studiano il primo anno) si sono rivelate poco più che un bluff (sul salvataggio delle banche spagnole tedeschi e olandesi han fatto retromarcia su documenti sottoscritti dicendo che sono stati un frutto di un Suo raggiro). Gli spread sono in risalita e persino Lei non ha voglia di veder il paese di Dante alla mercé della Troika in cambio di un timido intervento della BCE. Lei spera che la sua credibilità e la deflazione salariale da ultimo tranquillizzeranno i mercati e faranno riprendere l’economia. Ma è così liberista da crederci davvero? Anche Bernanke lo è, ma la FED “puts its money where its mouth is” (fa seguire alle parole i fatti) ed è disponibile a sostenere qualsiasi disavanzo fiscale federale.

Cosa proponiamo? Crediamo che in primo luogo la sinistra dovrebbe assumere di fronte al paese l’impegno a perseguire i propri obiettivi storici che sono la piena occupazione e la giustizia sociale nel nostro paese – ai quali non si può piegare nessun altro mal riposto ideale, quello europeista “a prescindere”, tanto per dare un esempio a caso. Sebbene con qualche punto di domanda, un’Europa federale quale quella sopra evocata è un traguardo di lungo periodo per cui battersi. Nel breve periodo, un obiettivo europeo della stabilizzazione del rapporto debito pubblico/Pil accompagnato dalla garanzia illimitata della BCE a ridurre i tassi sui titoli sovrani ai livelli pre-crisi consentirebbe politiche fiscali espansive (due conti del droghiere lo dimostrano). Questa politica sarebbe compresa dai mercati e approvata dal mondo intero. E’ urgente che ci si batta già da ora per questo obiettivo.

La ragione ci suggerisce che i motivi economici e politici per propugnare queste idee in Europa non mancherebbero: solo per questa strada l’Europa può uscire vincente dalla crisi, socialmente coesa e politicamente forte sì da poter affrontare un mondo globale in cui difendere i grandi valori della democrazia sociale. Ma con quale realismo si può ritenere che queste ragioni possano prevalere? Davvero i tedeschi accetteranno, seppur lentamente, un’Europa solidale e redistributiva in luogo di una Germania che si ritaglia il ruolo di Svizzera dell’economia globale? E per non dare solo a loro tutte le responsabilità, questa Europa neppure è desiderata dal capitalismo internazionale, nemico del pieno impiego redistributivo; e neanche dai suoi cantori nostrani (che all’unisono si sono infatti ieri riuniti in un coro pro-Monti). Ecco allora gli avversari, molteplici e formidabili, interni ed esterni. Ma allora, più coraggio nel predisporre una agenda europea più efficace e per quella ci si batta (come sostenuto oggi su l’Unità da Lanfranco Turci). Non sembrerebbe infatti vincente nei confronti dei “moderati” – la cui vacuità intellettuale è inversamente proporzionale al numero di volte in cui citano la parola “serietà” – denunciare la loro posizione supina verso l’Europa dell’austerity? Non sembrerebbe vincente rinfacciare loro l’illimitata tolleranza verso gli effetti nefasti dell’austerità su occupazione, crescita e standard di vita, sul futuro dei nostri figli e del paese? Non sembrerebbe vincente rivendicare che la salvaguardia di questi valori è la priorità della sinistra italiana, l’Europa se ci aiuta è la nostra Europa, sennò noi sapremo scegliere? Se dette da uno statista screditato queste affermazioni suonano ridicole; se dette dal leader della sinistra suonano vincenti all’interno e un monito all’Europa. Così aiuteremmo noi e l’Europa (e fatemi dire, anche l’economia globale che rischia grosso a causa dell’austerità europea).

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