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La finanziarizzazione come effetto della crisi

Gianni Del Panta* intervista Guglielmo Carchedi

Non confondere le conseguenze con le cause della crisi. La correttezza dell'analisi di Marx e il fallimento di quella di Keynes. Intervista a Guglielmo Carchedi.

Guglielmo Carchedi, è uno studioso marxista, professore di Economia Politica all’Università di York, Toronto (Canada) e per molti anni professore all'università di Amsterdam. Collabora da molti anni con Contropiano. Vedi il suo saggio "Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro" sull'ultimo numero della rivista Contropiano e la sua relazione nel volume "Il vicolo cieco del capitale" a cura della Rete dei Comunisti.


Nel dibattito sulla natura dell’attuale crisi del sistema capitalistico, non mancano neanche a sinistra interpretazioni volte a presentarla come il portato di un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia. Personalmente mi sembrerebbe invece corretto leggere il ricorso alla finanza come effetto e non causa delle presenti difficoltà economiche?


Ha perfettamente ragione, la finanziarizzazione dell’economia è certamente l’effetto e non la causa dell’attuale crisi. Mi permetta però in apertura di avanzare dubbi anche sulla bontà del termine. Infatti, il costante utilizzo della parola finanziarizzazione sembra presupporre una mutazione quasi genetica nel sistema.

Tuttavia la realtà è in questo caso assai meno complessa di come vogliamo immaginarla: l’attuale sistema tende infatti necessariamente verso la crisi attraverso dei cicli economici. La traslazione di ingenti risorse dalle attività direttamente produttive a quelle speculative (dove il tasso di profitto è maggiore, almeno fino a quando la bolla speculativa non scoppia) è quindi semmai il tentativo di arginare una decrescente redditività del capitale investito, dovuto in primis alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Questa è a sua volta il portato dell’aumento di quella che Karl Marx chiamava la composizione organica del capitale, ovvero la riduzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un fenomeno che deve essere considerato come l’effetto diretto delle innovazioni tecnologiche.


Simili letture non trovano però grande spazio sui principali media, spesso propensi a presentare l’attuale crisi come il portato di un debito pubblico eccessivo e di un allegra gestione della macchina statale da parte degli amministratori che si sono successi alla guida del Paese.


Quella che ho menzionato non è però l’unica interpretazione che cerca di affermare la bontà delle proprie riflessioni. Provando a semplificare un quadro certamente complesso possiamo sostenere come le teorie più rilevanti che tentano di fornire spiegazioni all’origine dell’attuale crisi siano sostanzialmente tre. La prima è quella che muove dalle riflessioni e dagli argomenti offerti dall’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946). In essenza, la cosiddetta teoria keynesiana individua l’origine della crisi nei salari eccessivamente bassi che determinerebbero una diminuzione nel potere d’acquisto delle classi lavoratrici e conseguenti difficoltà per i produttori nella vendita dei beni di consumo. Una siffatta situazione porterebbe quindi ad una riduzione dei profitti per i capitalisti, che di fronte ad una contrazione delle merci vendute risponderebbero con licenziamenti di massa. La spirale innescata, come semplice da capire, tenderebbe quindi ad auto-alimentarsi.

La seconda teoria è quella neoliberista. Spesso mi riferisco a questa attraverso un neologismo: definendola quindi come “austeriana”, da austerità. La visione qui proposta è opposta alla precedente e si fonda, semplificando molto, sul presupposto che le crisi sarebbero provocate da salari eccessivamente elevati e da conseguenti limitati profitti per le imprese.


Lei però non crede alla bontà di nessuna delle due ricostruzioni che ha appena richiamato…


Proprio così, visto che entrambe queste interpretazioni presentano delle gravi lacune teoriche. Consideriamo l’approccio Keynesiano (molto in voga nella sinistra) e esaminiamo la fetta di economia statunitense che produce valore e plus-valore. E’ possibile dimostrare come il tasso di profitto in questa sezione cada dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla metà degli anni ottanta, per poi risalire. Leggendo questo dato contemporaneamente al rapporto tra salari e profitti noi vediamo chiaramente che quando il tasso di profitto scende il rapporto tra salario e profitto sale (siamo qui nel periodo temporale che corre fino alla metà degli anni ottanta), mentre quando il tasso di profitto sale il rapporto tra salari e profitti scende (situazione verificatasi a partire dal 1986). Questa rappresenta quindi una supporto empirico della correttezza della teoria di Marx e del fallimento della teoria keynesiana. Naturale quindi che il fallimento di questa teoria nella spiegazione della crisi, determini anche una sua incapacità nel trovare adeguate soluzioni alla presenti difficoltà economiche. Esiste però una terza interpretazione…


Immagino che questa richiami le riflessioni del “barbuto uomo di Treviri”, oggi forse più di ieri incredibilmente attuale, sbaglio?


Direi proprio di no. Si tratta infatti della teoria di Karl Marx, che a differenza delle precedenti non si basa sul concetto di consumo e quindi di profitto, ma bensì sul tasso di profitto. La differenza, che ad un primo sguardo potrebbe apparire non eccessivamente rilevante, è in realtà di grande importanza, dato che Marx mette in relazione il profitto realizzato con il capitale investito. Proprio questo ci permette di constatare come a partire dalla seconda guerra mondiale ad oggi la tendenza di lungo periodo del tasso di profitto realizzato dai capitalisti americani sia calante (nonostante tale tasso sia prima calante e poi crescente nei due sub-periodi). Ciò è dimostrato da un numero crescente di recenti studi empirici, anche a livello mondiale. Sostanzialmente si tratta quindi di un movimento secolare del capitale, un fenomeno che spiega le ragioni per cui ci siano sempre meno profitti in relazione al capitale investito. Tutto questo rende quindi necessario per i capitalisti colpiti da una minor profittabilità, ricercare strade alternative verso le quali indirizzare il proprio capitale. La via maestra, anche se non l’unica, è così quella di investire nella speculazione e nella finanza, che sono quindi il sintomo di una crisi che ha in realtà radici lontane.

Mi scusi, ma in precedenza non ci aveva parlato di una crescita del tasso di profitto a partire dalla metà degli anni ottanta fino ad oggi? Ora invece ci dice che la tendenza riscontrata è quella ad una interrotta decrescita negli ultimi settant’anni. Non capisco, dove mi sono perso?

Non si preoccupi, è semplicemente caduto in un errore che sono soliti commettere anche molti economisti che più o meno direttamente si richiamano alla teoria marxista.


Provi ad essere più esplicito…


Spesso in materia si confonde tra tendenze e contro-tendenze. Così facendo non si riesce a comprendere come la crescita nel tasso di profitto riscontrata a partire dal 1986 sia in realtà il frutto di un aumento colossale del tasso di sfruttamento. Infatti, se noi teniamo costante questa variabile e calcoliamo nuovamente il saggio di profitto, noteremo come la produzione, la generazione e la realizzazione del plus-valore prodotto relativamente al capitale investito decresca costantemente.

* intervista realizzata a Firenze da “La Prospettiva.eu”

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