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Cinque tesi sull’Europa

di Sandro Chignola

1. Provincializing Europe

L’Europa è il nostro territorio: lo spazio eterogeneo, contraddittorio, striato sul quale territorializzare le lotte.

Questo significa almeno due cose.

La prima
: che il processo costituente europeo, pur assumendo l’insieme delle sue contraddizioni e il suo brusco mutamento di direzione nella crisi, ha segnato un punto di non ritorno. Esso ha innescato nella ridefinizione delle geografie del capitale, nella rimodulazione dei ritmi e degli spazi dell’accumulazione, nella reinvenzione delle tecnologie di governo, un salto di scala tale da liquidare il modello socialdemocratico di integrazione e compromesso al quale è stata legata la costituzione nei singoli paesi. La formula dello Stato-nazione – assieme al soggetto sul quale ha fatto perno il suo progetto di cittadinanza: il capofamiglia bianco, maschio, lavoratore a tempo indeterminato – non ha più corso in Europa. Ma, in secondo luogo, cosa intendiamo quando diciamo che l’Europa è il nostro territorio? Che il mondo da tempo non risponde più alle gerarchie tradizionali.

E che, proprio per questo, è sul terreno dell’Europa che vanno verificate e sfidate le strategie della governance globale: cioè all’interno di ambivalenti processi di ristratificazione del comando in risposta a quei sommovimenti e a quelle insorgenze del lavoro vivo che ridisegnano le geografie del continente aprendolo in direzione del Mediterraneo e verso Est – ed è questo che ci interessa.

L’Europa è il nostro territorio perché esso ci offre il punto di vista, la prospettiva, dalla quale guardare ai processi che cercano di fissare nuove gerarchie e nuovi dispositivi di accumulazione. E viceversa: perché solo una visione molto più generale e vasta, capace di tenere l’altezza di questi processi, ci mette in grado di riconoscere l’Europa – nella sua limitatezza e nelle acute contraddizioni che la attraversano – come un punto intermedio di articolazione e di snodo della dialettica del capitale globale. Provincializzare l’Europa, dunque: mettere in questione la consistenza del suo progetto di integrazione, analizzare i suoi dispositivi postdemocratici di governo come parte di un molto più vasto processo di riposizionamento dei poteri e delle funzioni del capitale finanziario globale, mappare i contorni delle nuove geografie della valorizzazione e i processi transnazionali della soggettivazione dei governati come chiave per una risignificazione della cittadinanza in chiave «europea» – ci sembra il presupposto irrinunciabile, intransitabile, per aprire la discussione e per rimettere in moto un pensiero ed una pratica politica all’altezza del presente.


2. Management della crisi e decostituzionalizzazione: sulla governance europea

Ciò che ci sembra necessario, innanzitutto, è riconsiderare il processo di integrazione europeo degli ultimi vent’anni. Esso ci sembra caratterizzato, nella continuità di un processo che prende l’avvio con la crisi economica che si apre tra il 2007 e il 2008, da una particolare forma di management della crisi. Quanto entra in crisi è la forma stessa dell’esperienza costituzionale su cui per tutto il Novecento si è retta la specificità del «modello europeo» e che approda, nel secondo dopoguerra, al Welfare State. Da un lato, la crisi fiscale dello Stato, dall’altro quella del modello-fabbrica come schema dell’organizzazione fordista del lavoro e come sistema di integrazione politica e sociale della classe operaia. È su questa doppia crisi che si spezza lo schema virtuoso di reciproco stimolo tra organizzazioni operaie e costituzione sul quale si regge il compromesso che caratterizza il ciclo di espansione dei diritti sociali nella maggior parte dei paesi europei. A partire dagli anni ’80 del Novecento, deindustrializzazione e organizzazione reticolare e diffusa della produzione, terziarizzazione e cognitivizzazione del lavoro, finanziarizzazione dell’economia e del capitale, organizzano la risposta alla crescente ingovernabilità delle fabbriche traducendosi in nuovi dispositivi di cattura della cooperazione sociale. Nuovi saperi e nuove tecnologie del diritto vengono messi in atto per gestire i processi non più allocabili nel quadro della costituzione e dello Stato-nazione. Parlare di decostituzionalizzazione significa, per noi, non soltanto puntare l’attenzione sulle caratteristiche di una produzione di norme e di regolamenti che non rispetta più la tradizionale gerarchia delle fonti del diritto, che incide materialmente sulla vita degli uomini e delle donne senza ancorarsi proceduralmente alla legittimità della decisione democratica, e la cui connotazione esecutiva, amministrativa, cavalca una retorica dell’efficienza che rinvia alla concretizzazione e alla massimizzazione degli scopi più di quanto non faccia invece riferimento ai processi di formazione della volontà generale, ma anche porre l’accento sulle eccedenze e le eterogeneità che segnano l’esercizio contemporaneo dei poteri in Europa e che impediscono di riferire il loro esercizio alla forma della costituzione. Il moltiplicarsi dei livelli e degli attori coinvolti nei processi di governance europea, l’individuazione di campi di «rilevanza costituzionale» oltre il quadro tradizionalmente perimetrato – in dottrina e nella pratica – dalla costituzione, l’impossibilità di ricondurre i processi «tecnici» di giuridificazione ad una decisione ultima o a una «Grundnorm», il doppio sfondamento dei confini che avevano sino ad ora separato la giurisdizione del diritto europeo e quella del diritto nazionale (con le differenze radicali di produzione che segnano l’uno e l’altro), il diritto pubblico e il diritto privato, marcano un insieme di pratiche all’interno dei quali viene destabilizzato l’equilibrio tra sovranazionalismo giuridico e processi politici di negoziazione su cui si era fondato il progetto di integrazione europea. E tuttavia viene con ciò conquistata una soglia che impedisce il ritorno all’indietro. Quando parliamo di management della crisi è questo che intendiamo: la processualità giuridica europea è sempre più nettamente caratterizzata da dinamiche autonome e sempre più postdemocraticamente collegata ad apparati burocratici e a gruppi di interesse.


3. Federalismo esecutivo

Ci sembra evidente che il modello di «economia sociale di mercato» al quale si legano le retoriche di molti dei governi di larghe intese in Europa abbia perduto qualsiasi riferimento sociale. Stabilità dei prezzi, controllo della moneta e difesa della sua autonomia rispetto a qualsiasi potenziale intervento degli Stati membri, liberalizzazione e flessibilizzazione ulteriori dell’economia e del mercato del lavoro procedono di pari passo con l’apertura di nuovi territori di accumulazione per mezzo della dismissione e dello smantellamento dei sistemi di Welfare, della pervasività dell’indebitamento privato e della privatizzazione di beni e servizi pubblici.
Lungi dall’incontrare una tradizione che lo temperi, il neoliberismo, in quanto teoria del governo e delle istituzioni, acquisisce in Europa un tratto altrettanto autoritario di quello che ha esibito e continua ad esibire in molte altre aree del globo. E non solo: esso incontra nel processo costituente europeo – un processo che va riferito alla sommatoria di regolamenti e tecniche giuridiche che lo governano e che lo implementano, più che alla forma-costituzione da molti evocata come auspicio o come problema nel dibattito degli ultimi dieci anni – la possibilità di un rilancio in direzione di quello «spacchettamento» del nesso tra sovranità, territorio e diritti realizzato dallo Stato nazionale nel corso degli ultimi tre secoli e che prelude alla riconfigurazione e alla rigerarchizzazione della cittadinanza (anche) in Europa. La diffusa richiesta di «più Europa» che circola tra le élite economiche e le politiche continentali come supplemento all’impotenza dei governi nazionali, alludono a un’ulteriore e rafforzata delega che dovrebbe coniugare rigore fiscale e “competitività” – parole magica che può supplire retoricamente all’”austerità” – da parte di un «federalismo esecutivo» chiamato a rafforzare la destrutturazione tecnocratica dei cardini sui quali si è sorretto il compromesso democratico-sociale fordista, e non di certo ad una richiesta di allentamento delle politiche neoliberali dei governi nazionali. Ci sembra evidente che «più Europa» non significa «più democrazia». Da un lato quella che altri ha potuto chiamare, come chiave di volta delle politiche di un’Europa alla tedesca, la «dittatura commissaria» della Troika; dall’altro il carattere ormai permanente dello «stato di eccezione» sul quale quella «dittatura commissaria» può prolungare all’infinito un dispositivo di governo – il management della crisi – fatto di soft law, regolamenti, best practices, standards, procedure amministrative che permettono di canalizzare e articolare la violenza del capitale finanziario e di rendere effettivo il suo comando. Le nuove gerarchie del capitalismo continentale dei prossimi decenni e la riconfigurazione degli spazi di accumulazione in una nuova geografia del continente debordante verso l’Africa e verso Est, verranno decise nel quadro di una crisi che continuerà ad essere indefinitamente alimentata come vettore di consolidamento degli interessi globali del capitale finanziario e come assestamento della sua potenza estrattiva innestata alla cooperazione moltitudinaria del lavoro vivo.


4. Dissociazione della cittadinanza dallo Stato nazionale

La nostra scelta di posizionarci in Europa deriva dal punto di soglia descritto in precedenza. Insistere sulla possibilità – rancorosa e reazionaria, certo: soprattutto, politicamente perdente – di un recupero «sovranista» delle politiche nazionali ci sembra il rovescio della nostalgia difensiva sulla quale prosperano i populismi europei. Il nostro «più di Europa» richiede un salto al futuro; la costruzione di spazi e di forme di vita nei quali reinventare strumenti e categorie per una integrazione positiva dei territori e delle lotte e nei quali progettare un nuovo Welfare, una nuova cittadinanza, nuove istituzioni del comune. Ciò richiede tuttavia molto di più di quanto poteva sembrare all’inizio degli anni Duemila. L’Unione Europea non è uno Stato e le tecnologie di governance che la attraversano sono molto differenti dalla tradizione costituzionale. I processi di destrutturazione e di riarticolazione del comando per mezzo dell’emanazione di regolamenti e di procedure che reinventano lingua e ordine del discorso del diritto hanno da tempo fatto saltare la distinzione tra pubblico e privato tra società e Stato. I nuovi regimi di accumulazione e sfruttamento del capitale finanziario hanno radicalmente ridescritto categorie e concetti della cittadinanza. Il lavoratore fordista organizzato in rappresentanze politiche e di interesse in grado di trattare da posizioni di forza formule e modelli della propria integrazione dinamica, conflittuale e «riformista» nel quadro espansivo della cittadinanza democratica è stato sconfitto. Qualsiasi modello dell’«incitamento» repubblicano tra movimenti sociali e Stato ci sembra definitivamente fuori corso, così come fuori corso ci sembra l’idea di inscrivere nella sfera dei «diritti» nazionali, per come li abbiamo conosciuti, le rivendicazioni di donne, precari, migranti. Alla destrutturazione della costituzione operata dal management della crisi di cui si fa carico la governance europea, corrisponde la dissociazione della cittadinanza dallo Stato che percorre i processi di smantellamento del Welfare e quelli di soggettivazione che attraversano gli spazi euromediterranei. A quest’ultimi facciamo riferimento quando pensiamo all’impossibilità di un riformismo al quale legare, a livello europeo la realizzazione di un surplus di democrazia. Le rivendicazioni di precari e migranti spingono per la reinvenzione della cittadinanza e dell’Europa. La nuova composizione sociale del lavoro vivo – ci piace dire: femminile, mobile, precaria e cognitaria -, per la costituzione di inedite forme di vita libere e sottratte al dominio.


5. Dal basso e a sinistra

Quello che noi auspichiamo è una rottura costituente in Europa. Una contro-rottura rispetto ai processi di destrutturazione e di delinking sui quali si rilancia il management europeo della crisi. Straordinari movimenti di lotta hanno attraversato e continuano ad attraversare i territori dell’Unione. Molti di essi hanno rimesso in movimento i confini stessi all’interno dei quali essa si sforza di rinchiudersi o contestato apertamente i processi che cercano di ridisegnarli trasformando la Grecia in zona economica speciale o Lampedusa in una base militare per il controllo dei flussi migratori. E tuttavia molti di questi movimenti non si sono dimostrati capaci di uscire da una dimensione di resistenza agli effetti della crisi e al suo dipanarsi per mezzo di snodi e tempi differenziati e nazionali. Anche quando si sono posti con forza sul terreno dell’autogestione e dell’autorganizzazione – così come è avvenuto con particolare forza in Spagna o in Grecia – questi movimenti non sono stati in grado di imporre una soluzione di continuità nella gestione neoliberale di una crisi che, va ricordato, è anche crisi del neoliberismo. Il limite fondamentale con cui questi movimenti si sono scontrati è evidentemente la dimensione nazionale in cui si sono sviluppati.

Si tratta di produrre un salto di scala: di porre l’Europa come la dimensione nella quale allocare campagne e nella quale sviluppare dal basso materiali processi di contropotere in grado di ridisegnare dal basso e da sinistra la mappa di un continente altrimenti destinato a rimanere, quando non una vuota invocazione retorica, una «pura espressione geografica», come diceva un reazionario che se ne intendeva.

Intendiamoci: in questione non è né l’evocazione di un’Assemblea alla quale affidare il compito di rappresentare il «popolo» europeo assente sulla scena intergovernativa dei trattati, come immaginava la teoria costituzionale di un decennio fa, o di evocare la classica figura del potere costituente proprio alla dottrina sovranista dello Stato. Ciò che ci sembra decisivo, piuttosto, è cominciare a costruire un sistema di mediazioni interne tra la composizione del lavoro vivo e le dimensioni istituzionali in grado di trattare da posizioni di forza con il capitale finanziario per creare differenti condizioni di governo della crisi.  Si tratta, sul terreno della sfida ai dispositivi di governance europea e globale, di reinventare categorie e pratiche per una «sinistra» del ventunesimo secolo. Un nuovo discorso politico deve essere forgiato: un discorso in grado di inscrivere nello spazio europeo, traducendoli gli uni negli altri, la molteplicità delle rivendicazioni e dei claims per uguaglianza, libertà la giustizia che si esprimono nelle lotte delle donne, dei precari e dei migranti in Europa. Parlando di una contro-rottura costituente da sviluppare, parliamo di coalizioni tra soggetti da costruire, parliamo di campagne da organizzare scrivendo a livello europeo il programma delle lotte, parliamo della necessità di coordinare, intensificare e moltiplicare le pratiche di costruzione di un’istituzionalità del comune. Si tratta di sottrarre risorse alle operazioni estrattive del capitale finanziario – e cioè: al processo per mezzo del quale viene parassitariamente captata e sfruttata la cooperazione del lavoro vivo – per costruire contro di esso un nuovo Welfare, una nuova autonomia, sui terreni della salute e della formazione, della cultura e dei servizi, dell’abitare e della mobilità.

L’Europa è la nostra metropoli. Ed essa è la sfida che abbiamo davanti.

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