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Quale cultura nella decadenza

Marino Badiale

800px Viejos comiendo sopaQuesto articolo parte dalla convinzione che la nostra organizzazione economica e sociale, ormai estesa all'intero pianeta, sia entrata in una fase di decadenza di civiltà, analoga a quella del tardo impero romano. Un indizio di questo declino è rappresentato dal convergere e dall'intrecciarsi di tre tipologie di crisi: la crisi economica dalla quale non sembra che si riesca ad uscire (tanto che alcuni autori mainstream parlano apertamente di “stagnazione secolare”), la crisi geopolitica dovuta al lento declino USA, la crisi ecologica della quale il cambiamento climatico è per il momento l'evidenza più forte. Non sono ovviamente in grado di fare previsioni sulla durata di questa fase di declino, né sulle forme culturali, sociali ed economiche che l'umanità si darà per superarla. È però facile pronosticare che essa comporterà sofferenze per grandi masse umane, e la perdita di valori civili e contenuti culturali. Temo che non sia possibile invertire questi sviluppi tendenziali. È però possibile un'azione politica e culturale che abbrevi il decorso della transizione e ne riduca le sofferenze e i danni. Una tale azione sarà opera di forze politiche e sociali che riescano, fra le altre cose, ad elaborare un discorso culturale che colga gli aspetti fondamentali dell'attuale situazione storica. In Italia un tale programma di “difesa civile” dovrà avere al proprio centro la Costituzione del 1948, quintessenza di quanto di meglio la storia recente del nostro paese abbia prodotto.

Occorre però aver chiaro un punto: produrre un discorso culturale adeguato a questi problemi sarà un compito difficilissimo, perché si tratterà di andare del tutto controcorrente. Si tratterà cioè non solo di distaccarsi criticamente dalle forme più evidenti di negazione della cultura e del pensiero, ma di criticare l'intera organizzazione della produzione culturale contemporanea, anche nei suoi aspetti “alti”: si tratta cioè di capire che buona parte degli attuali ceti intellettuali, e degli strati popolari “semi-colti” che ad essi fanno riferimento, non sono alleati in questa lotta, ma piuttosto avversari.

È ovvio che un esame complessivo della cultura contemporanea non può essere l'argomento di un breve articolo. Questo testo deve essere considerato un semplice schizzo, un promemoria dei nodi problematici che si troverà ad affrontare una forza politica e sociale impegnata in quella “difesa civile” alla quale abbiamo sopra accennato.

Per cominciare ad orizzontarsi in questi problemi, si può intanto focalizzare, all'interno dell'attuale produzione culturale, due poli, rispetto ai quali tale produzione si dispone in uno spettro di posizioni intermedie: da una parte la cultura specializzata accademica, dall'altra le svariate forme della cultura di massa.

Parlando di cultura specializzata accademica mi riferisco essenzialmente al mondo delle Università e dei centri di ricerca. Questo tipo di produzione culturale ha ovviamente un ambito tematico vastissimo. Ma mi preme qui sottolineare come, al di là di questo, vi sia una fondamentale omogeneità legata all'organizzazione della produzione e della comunicazione di questo sapere, così come alle regole per l'ingresso e la carriera professionale. Si tratta di un mondo che qualche tempo fa ho definito in termini di “specializzazione parcellizzante”. Il sapere accademico è specializzato: esso infatti può esistere solo se definisce in maniera rigorosa il proprio linguaggio, i propri oggetti, i propri problemi e le tecniche di soluzione ammissibili. In questo modo ciascun tipo di sapere accademico guadagna un ammirevole rigore scientifico ma rischia di perdere ogni connessione con gli altri saperi e con le domande che attraversano la realtà umana. Per di più, il progresso di questo tipo di sapere si attua per successive ulteriori specializzazioni, per cui ogni ambito viene diviso in sotto-ambiti per ciascuno dei quali si elaborano linguaggi specializzati. Sarebbe troppo lungo indagare qui le ragioni ultime di questa dinamica, che dipendono da fattori sia interni sia esterni alla comunità accademica. In ogni caso, quale ne sia l'origine, questa dinamica genera un sapere che appare poco utile in ordine al compito di elaborare strategie di difesa civile rispetto all'incipiente crisi di civiltà. Infatti questo sapere in gran parte è del tutto slegato da ogni domanda reale che provenga dalla società, anche se, essendo ideologia ufficiale che il sapere sia indispensabile alla crescita economica, le varie forme di sapere tendono a costruirsi delle giustificazioni ideologiche che rassicurino gli interlocutori, e soprattutto i finanziatori (pubblici o privati), della propria utilità. Questa utilità in molti casi, come abbiamo accennato, è scarsa o inesistente. Anche nei casi in cui, invece, è effettiva, per i saperi specializzati si tratta sempre di ottenere soluzioni delimitate a problemi delimitati. Questo può senz'altro essere utile, ma presenta due limiti essenziali: in primo luogo il sapere accademico non affronta il problema di fondo, quello della crisi di civiltà, perché la sua attitudine specialistico-parcellizzante non gli permette nemmeno di vederlo, di nominarlo. A quale disciplina specializzata compete la discussione sul tema se siamo oppure no all'inizio di una crisi globale di civiltà? In secondo luogo, il sapere specialistico accademico è del tutto autoreferenziale, e non ha quindi nessuna istanza che funga da regolatore, da limite. Esso non ha nulla da dire sugli scopi dei suoi utilizzatori, ed è quindi fungibile per qualsiasi scopo, anche il più iniquo. Il complesso di queste caratteristiche fa sì che il sapere accademico, così come si presenta oggi, sia difficilmente utilizzabile per una lotta di difesa della civiltà.

Vediamo ora l'altro estremo dello spettro, la cultura diffusa, popolare. Qui troviamo caratteristiche in qualche modo simmetricamente opposte a quelle che abbiamo individuato nella cultura accademica. Si tratta di forme di cultura nelle quali si agitano, spesso in forma scomposta, problemi veri, perché sono le forme espressive di coloro che da tali problemi vengono direttamente toccati. È quindi assai probabile che da questo magma che è oggi la cultura popolare nasceranno forme reattive nei confronti dei vari drammi che il declino di civiltà porterà con sé. Purtroppo queste forme di espressione culturale mancano completamente dei caratteri di rigore e razionalità che sono tipici del sapere accademico, per cui esse quasi sempre si riducono a “espressione di passioni”, nel senso in cui lo sono un grido o un sospiro. Tutto ciò appare con evidenza in quel grande mondo parallelo che è la Rete. In essa vi è una continua produzione di scritti, di analisi, di discussioni sui più svariati temi, ma si può affermare che quasi mai da tutto questo agitarsi esce qualcosa che incida davvero sull'evoluzione culturale e politica. Questo perché i dibattiti nella Rete quasi sempre contravvengono alle più elementari norme della razionalità, come l'attenersi al tema in discussione e l'evitare gli attacchi personali. A questa mancanza di rigore, che è tipica della cultura non accademica, la Rete aggiunge aspetti nuovi, come quell'autentica pestilenza che è l'anonimato.

In estrema sintesi, i due poli che abbiamo individuato all'inizio li possiamo caratterizzare come una produzione formalizzata di rigore privo di significato (il sapere accademico) e come l'espressione informe di significati privi di rigore (la cultura popolare). È chiaro che nessuna di queste due forme di produzione culturale, così com'è, può esserci d'aiuto. È anche facile, a questo punto, trovare la formula che esprima ciò di cui abbiamo bisogno: una forma di sapere che affronti il senso di un passaggio globale di civiltà e lo faccia con rigore intellettuale.

Nella tradizione del pensiero occidentale, l'attività intellettuale qui delineata è in sostanza ciò che si è chiamato “filosofia”. Si potrebbe quindi dire che il passaggio di civiltà che ci sta di fronte ha bisogno di un nuovo impegno nella riflessione filosofica. Occorre però sgombrare il campo da un equivoco. È naturale infatti, nella situazione intellettuale odierna, pensare che la filosofia sia “ciò che fanno i professori universitari di filosofia”. Si tratta di un malinteso. Quella sezione del sapere accademico che risponde al nome di “filosofia” (o a una delle sue sottosezioni) non è in nulla diversa dagli altri settori del sapere accademico: anch'essa è soggetta al meccanismo della specializzazione parcellizzante e ne condivide pregi e limiti. Non è quindi dalla filosofia come sapere accademico che possiamo aspettarci un aiuto, ma piuttosto da una riflessione intellettuale indipendente che sappia mettere in luce i tesori di sapienza contenuti nella tradizione filosofica occidentale per mostrarne la potenza critica nei confronti della deriva distruttiva verso la quale si è incamminata la nostra civiltà. Un altissimo esempio di questo tipo di riflessione è testimoniato negli scritti di Massimo Bontempelli.

Questo appello alla filosofia come forma di sapere più adatta alla salvezza di valori di civiltà non deve però essere inteso come un invito a rinchiudersi in casa a studiare filosofia lasciando perdere altri saperi. Al contrario, una nuova visione filosofica risulterà solo come effetto della creazione di nuovi saperi che si sforzeranno di infrangere quella opposizione fra senso e rigore che abbiamo sopra delineato, e tali nuovi saperi sorgeranno solo in un gioco di interazioni reciproche con movimenti sociali e politici in cerca di una risposta alle sempre più gravi crisi che dovremo fronteggiare.

Nonostante tutti i dati contrari che abbiamo sopra elencato, abbiamo qualche motivo per non essere del tutto pessimisti sulla possibilità di un sapere capace di difendere la civiltà. Il fatto è che abbiamo visto concretamente sorgere e svilupparsi saperi di questo tipo, in relazione a varie problematiche. Faccio solo due rapidi esempi:

1. La critica all'euro: in Italia abbiamo avuto negli ultimi anni un vivace sviluppo di voci critiche, che hanno saputo realizzare quella fusione fra rigore accademico e questioni politiche urgenti che è essenziale per il tipo di azione culturale e politica che abbiamo indicato all'inizio. Un ruolo fondamentale, come è noto, è stato svolto da Alberto Bagnai, col suo blog “Goofynomics” e coi suoi libri. Molti altri, singoli e associazioni, hanno contribuito a diffondere idee e argomentazioni, e fra essi ARS. Questo esempio mostra anche come un uso razionale della Rete, per quanto raro e difficile, non sia impossibile.

2. Il problema del cambiamento climatico: qui il ruolo fondamentale è stato svolto dall'IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, che ha saputo a poco a poco spostare l'opinione pubblica mondiale su posizioni via via più avanzate. Credo che l'idea fondamentale, che forse può essere imitata in altri contesti, sia quella per la quale l'IPCC non fa ricerche autonome, ma “semplicemente” fornisce un sunto ragionato di tutto quanto viene prodotto sul tema del cambiamento climatico, nel campo scientifico della climatologia. In questo modo gli avvertimenti e gli allarmi dell'IPCC non possono essere facilmente smentiti dai risultati di una particolare ricerca, perché anzi essi hanno già tenuto conto di tutte le ricerche prodotte, sia di quelle favorevoli alla tesi del cambiamento climatico, sia di quelle contrarie.

Questi esempi possono forse dare qualche indicazione sui possibili saperi che potranno svilupparsi in una lotta di difesa di civiltà. Sul piano culturale questa lotta riguarderà non solo l'elaborazione di tali nuovi saperi, ma anche la critica ai saperi dati. E questa critica, come ai tempi di Marx, avrà al proprio centro un ambito specifico. Infatti c'è una fondamentale eccezione allo schema, peraltro grossolano, che abbiamo sopra indicato, nel quale si contrapponeva il sapere accademico alla cultura popolare diffusa. Questa eccezione è costituita dal discorso dell'economia. L'economia è infatti un sapere accademico rigoroso (ambisce anzi ad essere modello di razionalità per le altre scienze sociali) ma contemporaneamente è un discorso che è entrato nella coscienza comune, nel sapere popolare (ovviamente non nelle sue versioni formalizzate). Quello dell'economia è oggi davvero un discorso egemonico: i suoi principi, la sua antropologia, la sua agenda informano di sé le scelte politiche, gli articoli dei giornali, il senso comune. Esso ha, nel sostegno all'attuale organizzazione sociale ed economica, lo stesso ruolo che aveva la religione nel sostegno al sistema feudale. Ogni critica all'attuale organizzazione deve quindi passare attraverso una rinnovata “critica dell'economia politica”. Di una tale critica avranno bisogno i vari movimenti “anti-globalizzazione”, e in particolare coloro che, come i sovranisti, intendono recuperare la sovranità popolare organizzata entro le strutture dello Stato-nazione democratico.

Parlando di “critica dell'economia politica” ho usato, come è ben noto, una tipica espressione marxiana. Con questo non intendo dire che Marx debba essere l'unico, e forse neppure il principale, riferimento di una tale critica. Ritengo però che una tale impresa intellettuale, tutta da costruire, non possa prescindere dai contributi di Marx e della migliore tradizione marxista.

Se tiriamo le fila del discorso fin qui fatto, e teniamo presente il senso di quanto detto, possiamo forse concludere che una nuova cultura, capace di difendere contenuti di civiltà dalla crisi globale incipiente, sorgerà, in connessione con movimenti sociali e politici di tipo “antisistemico” e “anti-globalizzazione”, da una rinnovata “critica dell'economia politica” e dalla creazione di nuovi saperi capaci di superare la contrapposizione fra rigore e significato, e sfocerà, presumibilmente, in una nuova complessiva visione del mondo, in un rinnovato approccio filosofico alla realtà umana.

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claudio
Sunday, 10 January 2016 15:57
Credo che ad avere introdotto questa tematica, Marino Badiale abbia fatto una cosa meritevole, e che siano anche da considerare degli abbozzi di trattazione accettabili quelli sulla cultura accademica e popolare. Sul punto riguardante la Costituzione, invece, penso che si debba chiarire qualcosa. L’aurore, narrando della decadenza e degli sviluppi tendenziali, afferma che “ In Italia un tale programma di “difesa civile” dovrà avere al proprio centro la Costituzione del 1948, quintessenza di quanto di meglio la storia recente del nostro paese abbia prodotto”.
Personalmente penso che, la Costituzione italiana del 1948, vada considerata un capolavoro, soltanto nel senso d’aver garantito , senza per questo dare origine a significative scosse operaie e proletarie, lauti profitti ai suoi committenti, cioè alla neonata borghesia italiana del dopoguerra. Mentre invece, se la si considera dal punto di vista politico e sociale, essa non è affatto quel capolavoro giuridico che la si presenta. Infatti, se fosse stata tale, penso che durante i suoi ben 68 lunghi anni di vita, essa avrebbe dovuto produrre qualche buon risultato, ossia almeno qualche risultato migliore rispetto agli altri paesi occidentali. Viceversa credo che si possa affermare, senza il pericolo d’essere smentiti, che di tali risultati proprio non se ne vedono, in quanto pur avendo avuto tale Costituzione, senza le manifestazioni popolari, che a partire da Genova ci sono state, avremmo conosciuto un duraturo governo Tambroni, abbiamo visto proliferare la criminalità organizzata, diffondersi la corruzione ed il malgoverno, sia a livello centrale che locale, in maniera molto più massiva e generalizzata che nella stragrande maggioranza degli altri paesi avanzati. E ancora, il Italia, nonostante questo preteso capolavoro giuridico/democratico, ha proliferato il lavoro nero e sottopagato, si è avuta una scarsissima applicazione delle norme antinfortunistiche sul lavoro, che anno causato e continuano a causare ogni anno migliaia di morti, si è affermato il più assoluto non rispetto della natura ed un sempre più marcato degrado di città, campagne, monti e mare, che a mio modestissimo modo di vedere, dimostrano l’esatto contrario. Per non farla troppo lunga, su questo specifico punto, penso che la Costituzione del 1948, così come quella che un giorno probabilmente la sostituirà, ha servito e servirà, in mancanza, ovviamente, di un vero capovolgimento politico, soltanto a garantire la sopravvivenza dell’ordine costituito, con tutte, ma proprio tutte, le malefatte di cui è pregno, ed è proprio per questo,infatti, che è entrato in una fase di profonda e generalizzata decadenza. Insomma, anche per quanto concerne la Costituzione del 1948, ritengo che abbia ancora una volta avuto ragione Marx, quando sentenziò che: “Troppi filosofi hanno interpretato il mondo, è ora di cambiarlo”.
Nelle sue sintetiche conclusioni, Badiale scrive: “possiamo forse concludere che una nuova cultura, capace di difendere contenuti di civiltà dalla crisi globale incipiente, sorgerà, in connessione con movimenti sociali e politici di tipo “antisistemico” e “anti-globalizzazione…”. A tal proposito vorrei far presente che, usando quest’ultimo termine senza specificare trattarsi di anti-globalizzazione imperialista o borghese, lascia intendere che si dovrebbe tornare alla fase storica precedente, che, non dimentichiamo, ha portato sviluppo ineguale, sottomissione coloniale, tantissime guerre distruttrici e alla crisi incipiente in cui ci troviamo, cioè ad un insieme, che credo che il Biadale proprio non voglia. A conclusione di questi miei grezzi rilievi, mi auguro che venga sfatata, una volta per tutte, la leggenda sulla pretesa migliore costituzione del mondo, ed anche quella più recente, secondo cui, la globalizzazione sarebbe da buttare, interamente.
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Eros Barone
Saturday, 09 January 2016 14:31
Della disamina svolta da Marino Badiale sul tema che egli ha formulato va soprattutto rilevata la centralità, per così dire, strategica della critica dell'economia politica ai fini del superamento della crisi di civiltà in cui è sprofondato l'Occidente capitalistico. A questo proposito, vi è un testo di Bertolt Brecht del 1932, incluso nel volume «Scritti sulla politica e sulla società», tradotto in lingua francese ma non disponibile in italiano, che merita di essere segnalato per il modo in cui l’autore affronta il nodo cruciale della distruzione e di un nuovo inizio. Al centro di questa urticante pagina brechtiana vi sono le categorie della grande cultura borghese, di cui viene registrato l’esaurimento in una fase storica in cui non si è ancora manifestata una nuova cultura. Le domande che Brecht si pone sono dunque le seguenti: quando si produrrà l’avvento di una nuova cultura? E come essere certi di tale avvento in un’epoca in cui è arduo distinguere, data la loro mescolanza, gli ultimi fuochi del tramonto dai primi bagliori dell’alba? La parola chiave è perciò “quando”.

Ed ecco il testo in parola: «In breve: quando la cultura, in pieno crollo, sarà coperta di sozzure, quasi una costellazione di sozzure, un vero deposito d’immondizie; quan-do gli ideologi saranno diventati troppo abietti per attaccare i rapporti di proprietà, ma anche troppo abietti per difenderli, e i signori che avrebbero voluto, ma che non hanno saputo servire, li scacceranno; quando parole e concetti non avranno quasi più niente a che vedere con le cose, con gli atti e con i rapporti che designano e si potrà sia cambiare questi ultimi senza cambiare i primi, sia cambiare le parole lasciando immutati cose, atti e rapporti; quando, per poter sperare di uscirne vivi, si dovrà esse-re pronti a uccidere; quando l’attività intellettuale sarà stata ristretta al punto che ne soffrirà lo stesso processo di sfruttamento; quando il tradimento avrà cessato di essere utile, l’abiezione redditizia, la stupidità una raccomandazione; quando non ci sarà più niente da smascherare perché l’oppressione avanzerà senza la maschera della demo-crazia, la guerra senza quella del pacifismo, lo sfruttamento senza quella del consenso volontario degli sfruttati; quando regnerà la più cruenta censura di ogni pensiero, che però sarà superflua, non essendoci più pensiero; oh, allora la cultura potrà venir presa in carico dal proletariato nel medesimo stato della produzione: in rovina.»

Trattandosi, come sempre nello stile didattico brechtiano, di un testo quanto mai percussivo, basteranno, per commentarlo, solo alcune considerazioni. La prima con-cerne il rapporto tra il futuro e il passato: il nuovo - gli embrioni di una cultura proletaria e socialista - non potrà affermarsi se non attraverso una sorta di appropriazione dialettica e selettiva della rovina - della decadente, ma lucida, cultura borghese -. La seconda investe il problema della lingua e della sua funzione rappresentativa rispetto alla realtà, laddove ciò che Brecht rileva in modo icastico e irrefutabile è lo stato di decomposizione della lingua, causato dal disprezzo per la chiarezza, per il rigore e per la coerenza, che accomuna i tre più nefasti nemici che annoveri ancor oggi la cultura: il dilettantismo (o la ‘mezza cultura’), l’accademismo (o la vichiana ‘boria dei dotti’) e il fanatismo religioso. La terza considerazione, chiamando in causa il ruolo svolto dalla menzogna nel corso di quel ventesimo secolo che, lungi dall’essere “breve”, sembra non terminare mai, incide sulla problematica dell’ideologia e, dunque, sul rapporto che intercorre fra la passione per la realtà e la necessità della finzione: un rapporto che lo stesso Brecht porta al livello della massima tensione teorica e pratica, attribuendo al teatro, luogo in cui abitano la maschera e la finzione e il cui corrispettivo odierno potrebbe essere individuato nella Rete, il compito rivoluzionario di “smascherare” l’oppressione e di “rivelare” la realtà.
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