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«La guerra capitalista»
Una discussione su centralizzazione dei capitali, nuovi imperialismi e guerra
Francesco Pezzulli intervista Stefano Lucarelli
Pubblichiamo la prima di una serie di interviste che la sezione sudcomune sta portando avanti sul tema del capitalismo digitale. Il curatore della sezione Francesco Pezzulli dialoga qui con Stefano Lucarelli sui temi del libro che ha scritto insieme a Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti, La guerra capitalista, edito da Mimesis e in uscita oggi, 25 novembre.
* * * *
Nel testo appena pubblicato di cui sei autore insieme ad Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti (La guerra capitalista, Mimesis, 2022 https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857592336), scrivete che «la guerra capitalista è la continuazione delle lotte di classe con mezzi nuovi e più infernali». Puoi illustrarci i termini della questione e come mai giungete a questa conclusione?
Noi siamo partiti da un fatto: la cosiddetta «legge» di centralizzazione dei capitali in sempre meno mani, originariamente teorizzata da Marx, può essere verificata empiricamente. Se ci pensi si tratta di un tema che è stato sempre messo in secondo piano dagli studiosi contemporanei di Marx, ma che in realtà oggi è molto più rilevante rispetto, per esempio, alle riflessioni sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. L’analisi della centralizzazione dei capitali tutto sommato era restata sullo sfondo anche nelle analisi critiche del processo di globalizzazione diffusesi soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta. E comunque non era mai stata analizzata con gli strumenti adeguati. Oggi in effetti – come mostriamo nel libro – trova una conferma nei dati.
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Un nuovo non allineamento
di Tim Sahay
“Mentre il vecchio movimento non allineato era ancorato a imperativi morali – decolonizzazione, antirazzismo, disarmo nucleare – questa versione nascente manca di un programma sociale ed etico positivo. Nasce invece dalla fredda logica commerciale e di sicurezza dello sviluppo.” Inserito nella crisi permanente – permacrisis — e irreversibile del sistema/economia-mondo globale il “non allineamento” multipolare servirà alle élite emergenti globali postcoloniali di negoziare le condizioni della propria partecipazione al caos climatico, il saccheggio e la devastazione di vite umane già compromesse nei propri paesi come in molti paesi piccoli in Africa, Asia e America. È la voce disperata e forte di questi Paesi che deve venire allo scoperto. Abbiamo sentito la loro voce nell’ultima Assemblea delle Nazioni Unite. Sono loro il nuovo Movimento dei Paesi non Allineati, fondato sulla Libertà, la Pace e la Giustizia sociale e Climatica [AD]
Nel marzo di quest’anno, con l’intensificarsi della guerra della Russia in Ucraina, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si è recato a Nuova Delhi per parlare con il suo omologo indiano S. Jaishankar. “Se la Cina e l’India parlassero con una sola voce, il mondo intero ascolterebbe”, ha affermato Wang. “Se la Cina e l’India si unissero, il mondo intero presterebbe attenzione”. Le scale geopolitiche iniziarono presto a inclinare la strada dell’India.
Ad aprile, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva fatto il suo primo viaggio a Delhi, dove ha gettato le basi per diverse settimane di frenetici accordi UE-India per un vasto programma che va dalla difesa alla produzione verde.
Il mese successivo, in un vorticoso tour di tre giorni in Germania, Danimarca e Francia, il primo ministro Narendra Modi ha vinto le concessioni che i politici indiani bramavano da oltre due decenni, che vanno dagli investimenti di energia verde, ai trasferimenti tecnologici e agli accordi di armi, mettendo carne sulle ossa di un moribondo partenariato strategico UE-India.
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Zeitgeist
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
La distruzione della ragione non rispecchia soltanto un momento particolare nella traiettoria intellettuale e politica di Lukács. Quest’opera testimonia anche di un momento significativo della cultura del dopoguerra. Al di là delle intenzioni dell’autore, essa fu parte di un ampio dibattito sulle origini del nazionalsocialismo e le cause della catastrofe tedesca che segnò per più di un decennio la cultura dell’Europa centrale e quella degli esuli antifascisti, soprattutto ebrei, negli Stati Uniti. Il libro di Lukács fu l’ultimo intervento in questo dibattito e probabilmente l’unico contributo di grande rilievo proveniente dal lato orientale della cortina di ferro. Ultimo per la data di pubblicazione, benché sia stato scritto per lo più durante la guerra1. Esso concluse un periodo di riflessione filosofica e politica che, iniziato durante la Seconda guerra mondiale, aveva già prodotto un’impressionante costellazione di opere. Molti contributi a questo dibattito mettevano l’accento sul rapporto tra nazismo e irrazionalismo, come si evince facilmente da una breve rassegna.
Nel febbraio 1941 un rappresentante del liberalismo conservatore come Leo Strauss tenne una conferenza alla New School for Social Research di New York, in cui definì il nichilismo tedesco “il rifiuto dei principi della civiltà in quanto tale”, intesa come “cultura consapevole della ragione”2. Nello stesso anno Herbert Marcuse e Karl Löwith pubblicarono rispettivamente Ragione e rivoluzione e Da Hegel a Nietzsche, opere che proponevano letture diverse – per molti aspetti agli antipodi – dell’eredità di Hegel, convergendo tuttavia nel definire il nazionalsocialismo come una nuova forma di irrazionalismo antihegeliano3.
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Alcune riflessioni sulle lotte della logistica
di Visconte Grisi
Alcuni compagni considerano le lotte nella logistica come lotte, se non proprio marginali, quantomeno come lotte settoriali. Personalmente non sono d'accordo con questi compagni. Intanto una lotta settoriale che dura da più di dieci anni, dalla ormai storica vertenza alla Bennet di Origgio del 2008, in forme ora spontanee ora organizzate e che continua ancora ad allargarsi deve contenere per forza di cose elementi più generali.
Certo le lotte nella logistica hanno le loro proprie particolarità, tipiche peraltro del mercato del lavoro italiano: cooperative, appalti e subappalti, forme di caporalato gestite da organizzazioni mafiose, mancanza di diritti sindacali, bassi salari e orari di lavoro prolungati, forme di lavoro schiavistico ecc., tutto quello contro cui si misurano i sindacati autonomi nelle loro vertenze quotidiane. Tuttavia esistono diversi fattori che rendono queste lotte generali e quindi politiche*.
Per capire meglio questa affermazione è necessario aprire una riflessione sulla “globalizzazione”. “Nei primi anni duemila il trasporto marittimo cresceva al doppio del tasso di crescita mondiale... In fondo, da quando il primo container è stato imbarcato su una nave, nel 1956, questa industria è cresciuta in modo inarrestabile, fino a diventare parte indispensabile dell’economia globale... Oggi esistono meganavi capaci di trasportare più di 18mila container”[1]. Da questi primi dati è possibile capire che il trasporto delle merci è una delle principali attività dell’economia globale, che si tratti di oggetti di consumo come televisori, telefonini, vestiti, o di materie prime, o derrate agricole e semilavorati.
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La regionalizzazione della globalizzazione
di Alfonso Gianni
Non è infrequente che la sinistra, che conveniamo chiamare d’alternativa, cada spesso vittima delle proprie analisi, anche di quelle giuste, e delle conseguenti definizioni. Il che è un sintomo di una certa staticità di capacità analitica, di una fissità intellettuale che inibiscono la possibilità di cogliere, ancor più di prevedere, i cambiamenti in atto. Con la conseguenza di trovarsi sempre un poco in ritardo, fuori tempo e spiazzati rispetto alle modificazioni in atto a livello internazionale e interno, come sul terreno politico ed economico, istituzionale e sociale. Ed è chiaro che si tratta di una constatazione in primo luogo autocritica.
Un caso classico è rappresentato dal termine globalizzazione e ciò che esso sottende e intende. Già prima della grande crisi economico-finanziaria che prese le mosse dallo scoppio della bolla dei subprime nell’estate del 2007 negli USA, si potevano cogliere elementi concreti che indicavano come l’espansione di quell’insieme di processi economici e produttivi che afferivano alla globalizzazione, incontrava degli ostacoli, battute d’arresto e inversioni di marcia. Il sopraggiungere della crisi pandemica e poi della guerra in Europa ha ulteriormente accentuato quelle tendenze, tanto che oggi parlare di deglobalizzazione – un termine, come vedremo, troppo riassuntivo rispetto alla complessità dei processi in corso e quindi generico – non stupisce quasi nessuno.
Certamente la “globalizzazione non è finita” come ribadisce Moises Naim (la Repubblica, 10 ottobre 2022), ma sicuramente non è la stessa che abbiamo conosciuto negli ultimi lustri del secolo scorso.
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“Divide et Impera” – Il grande complotto
di Luca Busca
Quasi tre anni di pandemia e nove mesi di guerra hanno completamente destabilizzato l’opinione pubblica, dividendola in due parti distinte e inconciliabili. Da un lato i tifosi del regime, dall’altro i dissidenti. La valanga di menzogne propagandistiche con cui i media hanno cercato di rendere plausibile l’inettitudine dell’establishment politico, hanno ulteriormente scosso i due schieramenti popolari. I sostenitori del regime si sono frammentati tra scettici, ciechi, sordi e muti, con infinite sfumature intermedie. Gli scettici hanno percepito qualche parziale incongruenza nell’operato del governo e dei vari comitati tecnici. I ciechi, si sa, non vedono, i sordi non sentono e i muti, pur vedendo e sentendo, non parlano, per loro è andato tutto bene: la pandemia, anche se l’Italia ha ottenuto i peggiori risultati al mondo, non poteva essere gestita meglio; la guerra; le sanzioni; la crisi energetica, quella economica e il caro bollette; i crimini contro l’umanità e gli attentati terroristici; la povertà dilagante e le disuguaglianze; le privatizzazioni; i condizionatori e i riscaldamenti spenti; i cambiamenti climatici; etc. sono risultati tutti palese responsabilità di Putin!
Non è andata meglio ai dissidenti, frazionati in parti infinitesimali tra chi non vota, perché non si fida di nessuno, perché “tanto sono tutti uguali”, perché “tanto non cambia mai nulla”, e chi vota per una forza antisistema, perché non è di destra né di sinistra, perché è di sinistra, perché è l’unica realmente no vax; oppure vota M5S nonostante sia ormai un partito completamente funzionale al sistema. In un momento così incerto e difficile il mistero acquista sempre un grande fascino. L’ignoto, così come l’inspiegabile, generano sgomento e insicurezza. Se le istituzioni, invece di promuovere la solidarietà, alimentano la paura al fine di perseguire un interesse diverso da quello comune, le teorie del complotto, la stregoneria, la magia e la superstizione prendono il sopravvento.
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Louis Althusser tra marxismo e marxismi
di Oliviero Calcagno
La «maledizione» di Althusser
Secondo la lettura che propongo, nella ormai lunga vicenda dei marxismi (al plurale) non vi è stato autore più frainteso (se non addirittura diffamato) di Althusser. Dal livello più superficiale al più tecnico, se ne trovano varie forme, che è possibile così suddividere:
A) Il pubblico dei semi-colti semplicemente non ne conosce né il nome, né le tesi: di conseguenza, non sa riconoscere tracce della sua elaborazione in autori alla moda. Ciò vale in particolare per quanti di costoro fanno riferimento alla psicoanalisi di Lacan.
B) Il pubblico dei colti, ma non specialisti, ne ha orecchiato il nome, e tuttavia si è abituato a leggere che la sua impresa teorica era finalizzata a costituire una neo-ortodossia marxista. Emblematica per pressappochismo la pagina dedicata su Wikipedia, che recita testualmente: «Nella filosofia, dice Althusser, è necessario ritornare a una prospettiva scientifica e determinista della teoria marxista, contro le interpretazioni e le utilizzazioni umaniste e ideologiche».
C) Il pubblico dei militanti di sinistra lo ha guardato con la diffidenza che si riserva ai teorici chiusi nell’Accademia e perciò incapaci di cogliere gli appuntamenti con la storia. Ed è un fatto che nel maggio francese del ’68 egli non esercitò alcun ruolo (da cui il calembour Althusser à rien, «Althusser non serve a niente»).
D) La comunità di nicchia degli specialisti in scienze sociali ne ha sentito parlare per il suo anti-umanesimo teorico, che è però concetto costitutivamente indigeribile per quelle discipline. D’altra parte, non si può negare che sia stata la moderna centralità antropologica ad aver dato loro origine.
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Legge di bilancio: il Governo dichiara guerra ai poveri
di coniarerivolta
Il disegno di legge di bilancio (DDL Bilancio) approvato dal Consiglio dei Ministri è un atto di importanza fondamentale, perché consente di vedere oltre la nebbia dei primi provvedimenti di bandiera del Governo (dai rave alle ONG) e di riconoscere l’impronta politica dell’esecutivo Meloni: un’impronta in tutto e per tutto identica a quella dei precedenti governi che da oltre trent’anni, da destra, da sinistra o dallo scranno dei tecnici hanno condotto un progressivo smantellamento dello stato sociale ed un attacco ai lavoratori, ai loro diritti e ai loro salari, che sta trasformando la povertà, la precarietà e la disoccupazione in elementi strutturali della vita della maggior parte dei cittadini italiani.
Vi è una perfetta armonia tra le misure di bandiera varate nelle prime settimane dal Governo, misure minori solo per chi non le subisce sulla propria pelle, e il DDL Bilancio appena approvato. La guerra agli ultimi, ai poveri, ai deboli viene ostentata nell’ambito delle politiche migratorie perché condotta a largo del Mediterraneo, lontano dalle nostre case e dai luoghi di lavoro, sulla pelle degli stranieri, o spettacolarizzata nella lotta senza quartiere ai rave disegnata ad arte per reprimere ogni forma di dissenso sociale. Eppure, quella stessa guerra di classe è la cifra della manovra finanziaria varata dal Governo, è il contenuto politico dei numeri che emergono dal principale strumento di politica economica in mano all’esecutivo. La Legge di Bilancio porta l’attacco dentro le nostre case, nei nostri luoghi di lavoro.
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L’affare Soumahoro, determinismo e libero arbitrio
di Michele Castaldo
Dico in premessa: scrivo per chi è disposto a capire.
È costume comune nella società moderna occidentale apprezzare il corruttore e schifare il corrotto. L’affare Soumahoro di questi giorni mette a fuoco una questione sulla quale pochi sono disposti a ragionare, ovvero a cercare – spinozianamente – la causa delle cose e tutti, ma proprio tutti, si ergono a giudici contro il malcapitato nero che ha avuto il torto di farsi corrompere da un sistema corruttore.
Il giornale Il Riformista, di un arcinoto uomo un tempo di sinistra, approdato poi alla corte di sua maestà destra ex socialista, ai piedi del povero corruttore Berlusconi, a proposito di Soumahoro titola in prima pagina: « Perché tutti linciano Soumahoro? Perché è “negro”», si notino ovviamente le virgolette a indicare che non viene linciato in quanto nero, ma perché è negro per lo stato in cui è caduto, perché è un corrotto. Chi non condanna un corrotto? Tutti giudici di Corte d’Assise pronti a condannare il reo.
Il pulpito dal quale si erge a giudice è una delle tante voci del padrone, con uno stipendio di riguardo, al calduccio e in ottimo appartamento, la possibilità di fare vacanze e di viaggiare, di mandare all’università i figli e introdurli magari nella carriera. E dunque sia sempre lodato quello Stato che fa vivere il cotanto direttore profumatamente pagato.
Si vuole un altro esempio, sempre beninteso di un brillante giornalista, che viene intervistato dal Corriere della Sera e dichiara che quando gli fu proposto di dirigere il quotidiano Il giornale dal fratello di Berlusconi, tentennò, perché guadagnava un miliardo di vecchie lire all’anno al Corriere della sera.
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Tempeste e bicchieri. A margine della crisi di nervi tra Francia e Italia sull’Ocean Viking e le migrazioni
di Gaspare Nevola
Tempeste e bicchieri tra Francia, Italia, Unione Europea e Ong. E poi ci sarebbero anche le migrazioni, che un Macron prende a suo modo sul serio, che un Salvini non riesce a farsi prendere sul serio, che una Meloni ci prova, che un Conte e un Letta sono in tutt’altro affare affaccendati. Sotto il vigile balbettio di Bruxelles e un Quirinale enigmatico che conversa a un altro tavolo… Ma qui si parlerà di cose meno frizzanti. A qualcuno fischieranno le orecchie, a qualcun altro non sarà possibile. E agli altri? Per chi cerca letture con più appeal e mordace elettricità, cerchi altro, cerchi altro su cui posare gli occhi per leggere. In giro non mancano… e buona fortuna
1. Roma e Parigi ai ferri corti, l’Unione Europea balbetta
Attraversare le tempeste cercando di contenerle in un bicchiere. Questa sembrerebbe la filosofia e la strategia politica con cui spesso l’Unione Europea cerca di venire a capo dei problemi che sfidano il mondo contemporaneo e mostrano tutte le ambiguità dell’integrazione e dei propositi di una sedicente Unione europea.
Far fronte alle ondate migratorie, regolare gli sbarchi delle sventurate persone che le navi Ong raccolgono perlustrando le acque del Mediterraneo e che pressano sulle coste dei Paesi che vi si affacciano, ridefinire impegni e criteri di gestione dei flussi e dei ricollocamenti degli immigrati portati all’approdo in terra europea. Queste alcune voci salienti del tema e della discussione che affollano le cancellerie e i media, ormai da qualche decennio. In questi giorni l’Unione Europea si è impegnata a varare un piano in 20 punti volto a perseguire i suddetti e altri connessi obiettivi. La spinta a rimettere mano alla materia è arrivata dall’esigenza di fare rientrare le tensioni esplose tra Francia e Italia a metà novembre. La Commissione europea intende rilanciare un Action Plan allo scopo di dare una soluzione alle «sfide attuali ed immediate» che vengono dalle sgovernate rotte migratorie del Mediterraneo centro-meridionale.
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Dall’emergenza pandemica all’emergenza permanente
di Assemblea Militante
1. Covid-19: tra realtà e finzione
La pandemia di Covid-19 è stata presentata da tutti i governi e i media del mondo, sotto la guida dell’OMS, come una nuova terribile malattia in grado di provocare decine di milioni di morti. La malattia è reale, e reale è anche il virus che la provoca, sulla cui origine, peraltro, si sono aperti scorci che ne rendono sempre più probabile la creazione in laboratori sotto guida Usa. La sua gravità è stata, in ogni caso, fortemente esagerata. Chi continua a baloccarsi con la narrazione mainstream della “pandemia terribile e incontrollabile”, ripetendo come le preghiere del rosario le cifre ufficiali sui morti e sulla letalità più o meno alta della malattia, ignora a bella posta che è ormai impossibile stabilirne la letalità oggettiva, poiché questa è indissociabile dalla sua gestione terroristica e criminale. La letalità è stata resa più alta - sia sul piano dell’impatto reale della malattia che della sua rappresentazione scientifico-mediatica - attraverso una serie di misure assunte, con poche variazioni, quasi dappertutto:
• negazione delle cure: nonostante migliaia di medici in tutto il mondo abbiano fin da subito adottato efficaci rimedi farmacologici, sono stati imposti agli apparati sanitari i protocolli tachipirina e vigile attesa, tramite i quali migliaia di pazienti sono finiti in ospedale, dove le pratiche di “cura” (imposte da protocolli ministeriali) non hanno fatto altro che accompagnarne alla morte un grande numero;
• conteggio di decesso per covid di chiunque sia positivo a un test che la stessa OMS, nel sito ufficiale, indica (per ripararsi da eventuali responsabilità penali) come strumento che da solo non fornisce diagnosi.
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USA e Indo-pacifico: isolare la Cina non è facile
di Nunzia Augeri*
Lo scorso mese di agosto, la visita a Taiwan di Nancy Pelosi, la portavoce del Congresso statunitense, e quelle immediatamente successive di una delegazione dello stesso Congresso e poi del governatore dell’Indiana, Eric Holcomb, con la loro carica provocatoria nei confronti della Cina e le azioni che ne sono seguite, hanno posto sotto i riflettori l’attivismo statunitense nella zona del Pacifico. Ma questi avvenimenti sono solo la punta dell’iceberg di una azione politico-diplomatica molto complessa, che sta tessendo una fitta rete di accerchiamento politico, economico e militare intorno alla Cina.
Oggi sono parecchi i trattati e gli accordi che vincolano i paesi asiatici con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Australia; il più vetusto risale al tempo della seconda guerra mondiale, quando il nemico comune era il Giappone: l’accordo venne sancito nel 1943 ed è conosciuto come Five Eyes. All’inizio gli occhi erano solo due, quelli di Stati Uniti e Gran Bretagna, che in piena guerra mondiale collaboravano nella lotta silenziosa e segreta dello spionaggio contro la Germania nazista. Nel dopoguerra, con l’avvento della guerra fredda, al patto aderirono nel 1948 i paesi di lingua inglese Canada, Australia e Nuova Zelanda, questa volta contro l’Unione Sovietica e contro ogni paese – ma anche singola personalità – che appoggiasse in qualche modo una visione del mondo diversa da quella anglo-americana. I Cinque occhi – che già avevano incluso la Germania occidentale e la Norvegia, non come membri effettivi ma come “terze parti” – nella loro evoluzione diedero luogo al sistema Echelon, che a sua volta si servì della collaborazione di Giappone, Singapore, Corea del Sud e Israele, coinvolgendo più tardi anche la Francia.
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Federico Caffè e la ri-politicizzazione dell’economico
di Emanuele Dell'Atti
È oggi ampiamente diffusa un’immagine stereotipata dell’economia presentata come una “scienza naturale”: un sapere a-storico, a-valutativo e indipendente dalle intenzioni umane. Ma l’economia, anche quando si traveste con gli abiti della neutralità tecnica, è sempre “economiapolitica”: esito, cioè, di precise intenzionalità e di specifiche progettazioni umane.
Lo sapeva bene Federico Caffè, tra i più importanti economisti italiani della seconda metà del Novecento, che si è sempre battuto, attraverso pubblicazioni scientifiche, interventi giornalistici e dibattiti pubblici, per costruire una civiltà più giusta di quella prodotta dall’economia capitalistica: Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè (Meltemi, Milano 2022, pp. 215) è infatti il titolo dell’inedito lavoro sul pensiero dell’economista pescarese scritto dal giornalista e saggista economico Thomas Fazi.
Il volume, a detta dello stesso autore, nasce “per caso”: l’intenzione originaria era quella di scrivere un libro sulla figura di Mario Draghi, utilizzando gli scritti di Caffè – suo maestro – come contrappunto al percorso professionale dell’ex presidente della BCE. Infatti, al netto dei “ridicoli parallelismi” (p. 19) tra Caffè e Draghi messi in risalto dalla stampa dopo l’incarico di governo ricevuto da quest’ultimo a inizio 2021, “del pensiero e della ‘filosofia’ di Caffè non vi era traccia nell’operato decennale di Mario Draghi” (ivi: 20), il quale aveva da tempo abbandonato l’originaria adesione al keynesismo per abbracciare le dottrine monetariste e il dogma del “vincolo esterno”.
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Medicus curat, natura sanat
di Mattia Cattaneo
È preferibile non andare dal medico quando si sta bene oppure sarebbe meglio andarci lo stesso per farci prescrivere qualche esame di controllo preventivo? È meglio essere in salute – “sentirsi bene” – o piuttosto non stare male? E chi sta bene ha il dovere di attestare pubblicamente il suo benessere? E chi sta male è da giudicare inferiore – sotto molteplici aspetti – rispetto a chi sta meglio? Come conciliare il pubblico dovere di non nuocere agli altri con il diritto privato alla salute personale? E quanto vale una “salute” perseguita anche a costo del benessere individuale? Queste, tra le altre, sono alcune domande che credo sia utile nuovamente porre sul tavolo del discorso, soprattutto dopo i recenti fatti di cronaca che hanno riattualizzato per un momento la questione sanitaria. Ma prima di tutto, cosa si deve intendere per “salute”?
Non di certo quello che ne diceva il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando all’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università di Pavia[1]: trattare «La salute come bene pubblico» è un modo per far compiere all’idea di “salute” uno scivolamento di piano silenzioso ed assolutamente imperdonabile: è lo sdoganamento impudico e sfacciato della capitalizzazione del benessere individuale. Paragonare infatti la salute ad un bene – invece che, come sarebbe più opportuno, trattarla secondo il concetto di ben-essere – non è altro che un modo per ribadire quanto questo stato, cioè lo stato di salute, sia oggigiorno divenuto un vero e proprio status.
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Scandalo sovrano. Cento anni di "Teologia Politica" di Carl Schmitt
di Federico Zuolo
Talvolta il successo di opere polemiche trascende il momento. Può dipendere dalla bontà delle idee e degli argomenti. Oppure la polemica può riuscire a creare un nemico grottesco e impossibile, uno straw man d’autore che diviene tanto importante quanto la tesi stessa dell’opera. Spesso il successo proviene da esigenze postume di confronto critico con altre questioni di cui la polemica iniziale non è che un comodo pretesto. La fortuna enorme di Teologia politica di Carl Schmitt, ingombrante e paradossale come la sua tesi, discende da tutti questi motivi.
In occasione del centenario della prima edizione di Teologia politica, Mariano Croce e Andrea Salvatore hanno curato una preziosa e originale raccolta di saggi (Teologia politica cent’anni dopo¸ Quodlibet, 2022) che include contributi che coprono prospettive diverse e articolate. A differenza di molti scritti d’occasione, questo volume non è meramente commemorativo: tocca nervi ancora scoperti e mette ordine nella materia di un testo tutt’ora vivo e ambiguo. A tutti nota per la famosa tesi sulla natura del sovrano (“colui che decide sullo stato di eccezione”), quest’opera ha annebbiato l’esegesi di molti interpreti e ha fatto intendere tutto il pensiero schmittiano secondo questa chiave. Il decisionismo schmittiano, l’eccezionalismo, la natura extragiuridica della sovranità e la dimensione visceralmente esistenziale del sovrano, assieme alle tesi altrettanto note de Le categorie del politico (la natura strutturalmente agonistica della politica) hanno messo in secondo piano tesi ben più articolate, anche se non meno controverse, del pensiero schmittiano.
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La sovranità: permanenza o ritorno spettrale?
di Giso Amendola
Discutendo P. Dardot, Ch. Laval, Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident (Paris: 2020. La découverte). La versione inglese di questo articolo è pubblicata in Soft Power. Revista euro-americana de teorìa e historia della politica e del derecho, Issue 17 ( 9,1) – January-June 2022
1. La discussione sulla globalizzazione è debitrice, in larga parte, della geografia politica emersa nel mondo occidentale moderno. È la mappa di un mondo ordinato attorno agli stati sovrani, ai loro confini e alle loro relazioni. Il soggetto è lo stato sovrano, che occupa il monopolio della scena: le relazioni internazionali significative sono relazioni interstatuali. Il Nomos della terra di Carl Schmitt è il libro che ha dipinto questa scena con i colori più forti: quel mondo è stato, secondo Schmitt, il vero miracolo dei giuristi. Grazie allo stato e alla sua sovranità, si riusciva a tenere a bada la guerra civile, e allo stesso tempo, ad assicurare un corretto rapporto tra la politica e l’economia. La politica assicurava l’ordine e garantiva al mondo degli interessi economici una relativa indipendenza, offrendogli allo stesso tempo le proprie prestazioni in termini di produzione di ordine, di stabilità e di sicurezza. È un’immagine del mondo idealizzata e costruita su un evidente rimosso coloniale, che del resto proprio nel Nomos Schmitt lascia emergere esplicitamente, nominando le amity lines come confine tra questo nomos ordinato e le terre di conquista. È però l’immagine del mondo a partire dalla quale si è misurata in seguito la rottura prodotta dalla globalizzazione. In breve: l’Economico travolge il Politico con l’esaurirsi della centralità della forma stato. Di qui il problema di ritrovare un ordine possibile, che restauri il primato del Politico sull’Economico; o, al contrario, di proclamare l’estinzione del Politico insieme alla forma Stato, e di assumere l’ordine economico come ordine del mondo.
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Guerra e politica
di Enrico Tomaselli
Se l’assunto clausewitziano, secondo cui la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, risponde al vero, ne consegue che le indicazioni politiche hanno un peso determinante negli esiti della guerra. Perseguire attraverso il momento bellico obiettivi impossibili, si traduce in un grosso rischio militare – il quale, a sua volta, non potrà che riflettersi sul piano politico
Se guardiamo alla guerra in Ucraina sotto questo profilo, ci accorgeremo rapidamente che di errori politici ne sono stati commessi molti, e da entrambe le parti, tanto che a dieci mesi dall’inizio del conflitto non si vede come uscirne. E chiaramente stiamo parlando di errori significativi, per nulla marginali, che hanno conseguentemente condizionato – e tuttora condizionano – l’andamento della guerra; e per di più, non si tratta soltanto di errori commessi a monte del 24 febbraio, ma anche successivi, in corso d’opera. Com’è ovvio, questo accumulo produce effetti che si sommano gli uni con gli altri, riorientando l’andamento del conflitto, che già di suo è un processo non strettamente determinabile.
Gli errori americani
Tralasciando gli errori commessi dagli attori minori, prenderemo in esame qui quelli commessi dai due principali antagonisti, gli Stati Uniti e la Russia.
Prima d’ogni cosa va però fatta una precisazione, affatto secondaria. Entrambe si sono preparati da anni a questa guerra, anzi – per quanto riguarda gli USA – non solo si sono preparati, ma l’hanno preparata.
Gli obiettivi strategici che la leadership statunitense intendeva perseguire attraverso la guerra, erano fondamentalmente due: separazione netta e definitiva dell’Europa dalla Russia, e logoramento di questa a 360°.
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Introduzione a Dialettica dell’irrazionalismo
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
Sono molte le ragioni che suggeriscono oggi, a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, una rilettura di La distruzione della ragione di Lukács. Per i filologi e gli storici della filosofia sono ovvie: si tratta di riscoprire una delle opere più ambiziose di uno dei grandi pensatori del Novecento. Ce ne sono altre, altrettanto ovvie, che derivano dall’interesse intrinseco di questo libro, profondamente contestabile ma ricco di idee. Tutti riconoscono che dei legittimisti fanatici come Joseph de Maistre e Donoso Cortés, un filosofo fascista come Giovanni Gentile, dei pensatori conservatori compromessi col nazismo come Martin Heidegger e Carl Schmitt, meritano di essere letti e meditati. Perché non dovremmo riservare un analogo trattamento a Lukács? Si possono ricavare delle lezioni utili dalle opere dei cattivi maestri, ma per questo bisogna saperli leggere, non per seguirne l’insegnamento, ma andando oltre la semplice condanna che nasce da un’interpretazione angusta e sterile. L’apologia dello stalinismo che permea La distruzione della ragione, pubblicata a Berlino per i tipi di Aufbau Verlag nel 1953, appare oggi indegna e colpevole, ma va spiegata e compresa nei suoi significati. Non per giustificarla o “perdonarla” come faceva Hannah Arendt nel 1970, rievocando i trascorsi nazisti di Heidegger1– ma perché non è aneddotica; essa getta luce su una tappa fondamentale del percorso del suo autore e anche, al di là di Lukács, del marxismo e della cultura di sinistra durante gli anni più bui della guerra fredda. Bisogna insomma, per usare la formula di Leo Strauss, imparare a “leggere tra le righe”2, interpretando un’opera come La distruzione della ragione non soltanto come un manifesto ma anche come un sintomo. È questo l’esercizio che cercherò di compiere nelle pagine che seguono.
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Economia e guerra
di Rossana De Simone, Andrea Fumagalli, Christian Marazzi
Pubblichiamo la trascrizione dell'incontro «Economia e guerra», seconda parte di un dibattito intitolato «Guerra o rivoluzione. Capire la guerra per capire come combatterla», tenutosi durante il festival di Derive Approdi di fine settembre. Gli interventi di Christian Marazzi, Rossana De Simone e Andrea Fumagalli, che dialogano con le relazioni di Maurizio Lazzarato e Cristina Morini che li hanno preceduti, si inseriscono in una riflessione che abbiamo portato avanti con Transuenze negli ultimi mesi. Abbiamo chiesto ai relatori se la palese tendenza al riarmo a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi possa preludere ad un ritorno al keynesismo militare come modalità di rilancio del ciclo economico. Bisogna naturalmente intendersi sul concetto di «keynesismo militare», concetto utilizzato più per eredità storica che per correttezza formale. Quello che ci interessa capire è in che modo il «ritorno» dello Stato al centro dei processi regolativi per coniugare ciclo economico e interessi di difesa nazionale (quello che è stato definito «nuovo capitalismo politico») e il tentativo (se c'è davvero) di ricostruzione di nuovi blocchi sociali (attorno alla stessa questione della guerra?),si coniugano con le fibrillazioni geopolitiche ed una guerra scoppiata nel cuore dell'Europa.
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Christian Marazzi
Il capitalismo è nato come atto di guerra, la privatizzazione dei beni comuni è stata pura violenza contro coloro che fino a quel momento potevano disporne e vivere grazie ad essi. Sono d’accordo con Maurizio Lazzarato quando ribadisce la centralità della questione monetaria, nella fattispecie del dollaro, e che la globalizzazione ha camminato di pari passo con la dollarizzazione, con qualche sfumatura negli ultimi dieci anni che andrebbe tenuta in considerazione per spiegare anche lo sbocco bellico nell’Europa centrale.
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“La guerra necessaria. Logiche della dipendenza”
di Alessandro Visalli
Sulla rivista “La Fionda”, numero 2/2022, dal titolo “Guerra o pace. Destini del mondo” è uscito un mio articolo su una logica dell’attuale guerra (non l’unica, ovviamente, ma una delle più pertinenti). L’intero numero della rivista esplora le altre ragioni, ed inquadra la crisi ucraina nei suoi plurimi e molteplici contesti. Sono presenti interventi autorevoli, come quello di Carlo Galli che apre il testo “Geopolitica come critica”, o interventi di Alessandro Somma “Si scrive europeismo ma si legge atlantismo”, di Marco Baldassari “Imperi, Stati e grandi spazi”, Paolo Cornetti “Stati Uniti d’America: l’impero minacciato”. O altri, nella sezione Geopolitica e Geoeconomia, che si apre con il mio testo, di Pierluigi Fagan “La transizione dell’ordine mondiale nell’era complessa”, Matteo Bortolon “Sanzioni come una nuova forma di guerra” e Marcello Spanò “Il sistema finanziario dollarocentrico alla prova del conflitto in Ucraina”. Infine Onofrio Romano, “Tina al Sud” e Silvia d’Autilia e Mario Cosenza, “Sguardi sul presente tra biopolitica e spettacolo”.
Questo solo per dire di alcuni interventi, non necessariamente i principali.
Quello che segue è la versione lunga dell'articolo, quella pubblicata è di un terzo più sobria.
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La guerra sollecita sentimenti di morte e gratifica le virtù meno virtuose, esalta il coraggio meramente fisico, sollecita il nazionalismo. La nostra civiltà, come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti perché non necessari.
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Dalla questione meridionale allo Stato-piano. Gramsci e l’operaismo
di Federico Di Blasio
Il testo rilegge la questione meridionale e la rivoluzione passiva gramsciana attraverso il «filtro della soggettivazione» e, nell’assumere il punto di vista dei subalterni, apre all’analisi operaista dello Stato-piano
Quando il secondo conflitto mondiale giunge a termine, l’Italia è, ancora più di prima, un crocevia di contraddizioni. Il fascismo e la guerra hanno assestato un decisivo fendente a una situazione già ampiamente precaria. La storia del belpaese era d’altronde da lungo tempo una storia fatta di fratture, divisioni interne, spaccature profonde e insanabili.
È in tale contesto storico che va situata, in termini contemporanei, la cosiddetta questione meridionale. Ossia, quel fascio di problemi volto a mettere a fuoco il divario economico, sociale e politico tra Nord e Sud. Di più, si tratta, con la questione meridionale, di tentare di risolvere la vexata quaestio del divario tra Settentrione e Meridione nell’ottica di un superamento dello sviluppo a due velocità tale da aver prodotto, nel corso dello svolgimento della storia del nostro paese, due Italie: la prima sulla via della crescita industriale sulle spalle di una sempre più crescente classe operaia, la seconda degradata e rurale, sorretta da una massa contadino-rurale sotto il giogo di un arcaico blocco agrario.
Intellettuali, subalterni e l’economia programmatica nei Quaderni del carcere
Per lungo tempo la Questione meridionale è stata associata al problema dell’alleanza di classe tra classe operaia e contadina e classe borghese riformista e illuminata. Ciò deriva dall’impostazione data da Antonio Gramsci, in un lungo articolo del 1926 dal titolo Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici e più comunemente noto come Alcuni temi della questione meridionale.
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Valutazione, misurazione e conflitto
di Marco Maurizi
Esiste un problema relativo alla valutazione e alla misurazione del sapere nella scuola? E da cosa dipende? La misurazione implica sempre una qualche forma di traduzione del qualitativo nel quantitativo, riconduce il diffuso e variabile a criteri di uniformità e univocità. Come ho cercato di mostrare qui ( https://marcomaurizi74.wordpress.com/2022/09/21/la-contraddizione-qualitativa-fondamentale-del-capitalismo/ ) il problema del qualitativo può essere inteso razionalmente non come ciò che è vagamente e fumosamente altro dai meccanismi di quantificazione e misurazione bensì come ciò che esprime un conflitto interno al processo di razionalizzazione capitalistico. In questo modo il qualitativo si mostra come espressione di una contraddizione immanente alla forma della ragione e dunque espressione di interessi legittimi, a loro volta razionali, universalizzabili, che però non trovano spazio nel modo in cui la società di classe riduce dall'alto e distorce, in senso particolaristico, quei meccanismi di ordinamento e manipolazione della realtà.
Quando si parla di valutazione e mondo della scuola questo aspetto della questione viene completamente eluso e tutto si muove in un mondo ideale, astratto, dove quelle dinamiche di classe e il loro effetto distorsivo sui processi di quantificazione improvvisamente non esistono più. Si predica, da un lato, la pura e semplice celebrazione tecnocratica della misurabilità assoluta del sapere (i test) con la conseguente parcellizzazione dell’insegnamento in parti perfettamente e aprioristicamente quantificabili: il processo di apprendimento ridotto a catena di montaggio; oppure, in senso opposto, la valutazione diventa uno dei mali della scuola, una forma di potere maligno in mano ai docenti che occorrerebbe quanto prima sottrarre loro per far emergere altro, un vago e indistinto altro, qualitativamente contrapposto ai freddi numeri scarabocchiati dagli insegnanti.
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Crisi ucraina: un primo bilancio delle sanzioni contro la Russia
di Andrea Vento*
Il 6 ottobre scorso l’Unione Europea ha varato l’ottavo pacchetto di misure sanzionatorie contro Mosca[1] con il dichiarato fine di fiaccare l’economia russa e indurre Putin ad un accordo di pace da posizioni di debolezza o, addirittura, costringere le truppe impegnate in Ucraina alla sconfitta militare, grazie anche alle ingenti forniture militari di Usa e Ue ormai giunte ad oggi a 100 miliardi di dollari.
Massiccio sostegno che, sommato al supporto di intelligence degli Usa e del Regno Unito, stanno mettendo in difficoltà sul campo le forze militari russe.
Rispetto alle previsioni dei governi occidentali che hanno accompagnato il varo del primo pacchetto di sanzioni introdotte dalla Ue e dagli Usa il 23 febbraio scorso, a seguito del riconoscimento delle Repubbliche Popolari del Donbass che ha preceduto di un giorno l’Operazione Militare Speciale, quale risulta l’effettiva entità dell’impatto delle sanzioni sull’economia russa e sulle sue relazioni internazionali?
La recessione che avrebbero causato alla Russia dalla previsione del Fmi ad aprile di un pesante -8,5% per il 2022, si è più che dimezzata a -3,5% nel World Economic Outlook di ottobre della stessa istituzione, passando per il -6,0 di luglio, a testimonianza della capacità di tenuta e di resilienza dell’economia russa (tab. 1).
Mentre a livello internazionale, seppur oggetto di condanna da parte di una Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo per l’invasione dell’Ucraina votata da 141 Paesi su 193, la Russia, appare tutt’altro che emarginata appurato che solo 37 Paesi dei 193 (pari al 19% del totale) dopo 7 settimane dal 24 febbraio[2], avevano aderito alle sanzioni promosse dagli Stati Uniti e imposte da questi ultimi anche all’Ue (carta 1).
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Un nuovo percorso teorico, di Gianfranco la Grassa*
Introduzione di Gianni Petrosillo
In questo nuovo saggio, il cui titolo è indicativo della direzione intrapresa dallo studioso veneto, Gianfranco La Grassa fa i conti con le epoche, quella passata, quella in corso e quella che irrimediabilmente si avvicina, per fornire una chiave teorica nuova delle inevitabili transizioni e mutazioni che l’incedere della Storia porta con sé, soprattutto a livello sociale. Il suo strumento analitico privilegiato è quel marxismo che, dopo essere stato aggiornato, diventa una porta di uscita verso un nuovo approccio teorico più adatto alla comprensione dell’attuale formazione sociale. Occorre, peraltro, rammentare che La Grassa ha iniziato un faticoso lavoro di revisione teorica ormai trent’anni fa e la sua “uscita” dal marxismo deve pertanto essere considerata una gestazione travagliata che non ha saltato alcun passaggio logico, un raro caso di esame di coscienza fatto per ragioni di scienza.
Purtroppo, l’esistenza umana è troppo breve per cogliere (e spesso accettare) i profondi cambiamenti che inevitabilmente la coinvolgono (e sconvolgono), tanto più che gli accadimenti producono i loro effetti sul lungo periodo, spesso più lungo della vita di una o più generazioni, sfuggendo alla comprensione immediata di chi li vede nascere e non li vedrà giungere alle estreme conseguenze o di chi li sentirà deflagrare senza avere memoria del loro inizio, necessitando, pertanto, per essere intesi interamente di una riflessione “ampia”, utile a mettere insieme i vari frammenti evenemenziali finalizzati alla costruzione di un quadro più o meno coerente della situazione, anche se mai definitivo. Per questo la si deve “prendere alla lontana” altrimenti cause ed effetti sono destinati a essere equivocati o desunti arbitrariamente da stati e fatti troppi vicini o insistentemente fraintesi per essere adeguatamente sceverati e interpretati.
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“La modernizzazione cinese: percorsi, successi e sfide”
di Fosco Giannini
Verso la fine del 2021 l'Accademia delle Scienze Sociali del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (Chinese Academy of Social Sciences, CASS) chiese al nostro direttore, compagno Fosco Giannini, di scrivere un libro, per la Cina, sul nuovo sviluppo economico cinese, sul "socialismo dai caratteri cinesi". Il libro, scritto da Giannini prima del XX Congresso del Partito Comunista Cinese, celebratosi dal 16 al 22 ottobre 2022, sarà tra poco, sia in cinese che in inglese, nelle librerie di Pechino. Il titolo del libro è "La modernizzazione cinese: percorsi, successi e sfide". Di questo libro di Fosco Giannini anticipiamo di seguito uno dei capitoli
La modernizzazione, lo sviluppo delle forze produttive
Apriamo questo capitolo sulla “modernizazzione della Cina” attraverso una citazione del grande filosofo marxista italiano Domenico Losurdo, tratta da un intervento che lo stesso Losurdo svolse al Forum europeo del 2016 dal titolo “La via cinese e il contesto internazionale”. L’intervento di Losurdo aveva come titolo “Washington consensus o Beijing consensus?'”. In un passaggio del suo intervento il grande filosofo italiano così si esprimeva: “La guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del Partito Comunista Cinese ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura – nel contesto del più grande sviluppo economico della storia dell’umanità – 800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umanità. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 5 anni. Si tratta evidentemente di una lotta di classe che procede in direzione opposta rispetto a quella condotta in Occidente, dove assistiamo ad un processo inverso nel quale si determina un allargamento sempre maggiore della forbice sociale tra ricchi e poveri”.
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