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Stati Uniti e Cina allo scontro globale
Introduzione
di Raffaele Sciortino
Raffaele Sciortino: Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios, 2022
I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale, politica e bellica, della signoria americana sul mondo capitalistico
Amadeo Bordiga
Il lavoro qui presentato cade in un contesto caratterizzato dal probabile approssimarsi di una nuova recessione economica globale, da una temperatura delle relazioni internazionali divenuta rovente con la guerra in Ucraina e, ancora, dall’intreccio fra crisi dei prezzi alimentari ed energetici e disastro climatico. Mentre all’orizzonte è il tema del libro si profila l’urto possente tra Stati Uniti e Cina. È un caos crescente e generalizzato che non si limita alle sfere alte della politica e dell’economia, ma sempre più incide nella vita quotidiana di centinaia di milioni di persone.
Günther Anders ha scritto che la forza di una concezione non sta tanto nelle risposte che dà, quanto nelle domande che soffoca. Ora, il delinearsi di una nuova qualità della dinamica storica stante la vera e propria crisi della civiltà capitalistica, palese solo che non ci si faccia abbacinare dallo spettacolo infomediatico sta facendo (ri)emergere alcuni interrogativi che l’ideologia euforizzante del capitale globale in ascesa ha per decenni soffocato. Non solo fuori dall’Occidente, ma nello stesso mondo occidentale, dove i dilemmi del rapporto tra sé e il resto iniziano ad incrinare la camicia di forza delle ipocrisie postdemocratiche.
Questo libro vuol essere un contributo, attraverso la messa a fuoco del contesto emergente, alle domande che segneranno la nuova geistige situation der zeit.
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Humanities in distress
di Andrea Sartori
L’appello di Serenella Iovino rivolto alla sinistra a fare “qualcosa di darwiniano” (“la Repubblica”, 31 ottobre, 2022), può valere tanto per l’Italia quanto per il Paese che l’8 novembre s’appresta a delle elezioni di midterm, le quali si preannunciano problematiche per i dem e in generale per la cultura liberal d’oltreoceano.
Iovino, è ovvio, non ha in mente l’immagine di Charles Darwin pressoché caricaturale, che del naturalista britannico è spesso propagandata da chi lo elegge a teorico della brutale legge del più forte. Chi s’assesta su tale posizione, infatti, omette di considerare che il realismo darwiniano è reso umano da un impianto teorico anti-dogmatico e dalla fortuità delle variazioni dei caratteri, da un radicale scetticismo nei confronti dell’assolutismo filosofico e della mitologia dell’origine, e dalla propensione ad accogliere nel metodo dell’indagine scientifica l’imprevedibilità dell’accostamento metaforico e la creatività (anche letteraria) dell’analogia. Si pensi ad esempio, a quel che nel primo decennio del ventesimo secolo scriveva di Darwin un campione della pedagogia democratica americana come John Dewey (The Influence of Darwinism on Philosophy and Other Essays, New York, H. Holt and Co., 1910).
Iovino, d’altra parte, non cessa di ricordare che per l’autore de On the Origin of Species (1859) l’evoluzione è un problema di competizione e, insieme, di cooperazione (o di “alberi”, per stare sempre a Darwin, ma anche di reti e networks di spessore, per rifarsi invece alle riflessioni di Joseph A. Buttigieg concernenti la scrittura dei Quaderni di Antonio Gramsci; si veda Gramsci’s Method, “boundary”, 17, 2, 1990, 65).
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Pensieri censurati
di Stephen Eric Bronner
Una satira spietata dell’ondata oscurantista, questa volta proveniente da sinistra, contro la letteratura del passato, accusata di razzismo, sessismo, classismo e di quant’altro; un desiderio di censura, questa volta “progressista”, che ricorda tempi andati e da cui non si salva nessuno dei capolavori del passato, neppure Shakespeare
Imparo qualcosa ogni giorno -va beh, diciamo “a giorni alterni”. Questo perché leggo sempre i giornali -ok, diciamo che li leggo “occasionalmente”. A ogni modo, oggi ho appreso che tra le opere più bersagliate dagli aspiranti censori statunitensi ci sono "Il buio oltre la siepe" di Harper Lee, "Uomini e topi" di John Steinbeck e "Il giovane Holden" di J. D. Salinger. Confesso che non vado pazzo per nessuno di queste classici. D’accordo: il libro di Harper Lee ha difeso accoratamente dagli intolleranti sia un senso di giustizia elementare sia il movimento per i diritti civili -tutto questo, poi, in un’epoca in cui la segregazione era ancora in auge- ma il suo stucchevole sentimentalismo mi ha sempre dato il voltastomaco. Ogni accademico radicale contemporaneo che si rispetti, peraltro, non potrebbe esimersi dal ravvisare nel libro di Lee un razzismo e un sessismo lampanti, in quella che è una celebrazione patriarcale del “salvatore bianco”.
Anche in Steinbeck le motivazioni alla base dell’opera sono quantomeno sospette: il suo breve romanzo rappresenta senza pudori la violenza sulle donne, sfoggia epiteti razzisti e si dimostra insensibile rispetto al tema della disabilità mentale. Per quanto riguarda il leggendario adolescente di Salinger, Holden Caulfield, invece, dico solo che quel ragazzo è talmente alienato da avermi sempre dato sui nervi.
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Linee di frattura
di Enrico Tomaselli
Senza tanto apparire – anche perché i media occidentali hanno tutto l’interesse di nasconderlo – ma qualcosa sta realmente cambiando nella guerra in Ucraina. Si stanno delineando due linee di frattura, potenzialmente capaci di incrinare, forse definitivamente, la resistenza di Kyev, e quindi aprire una prospettiva – quantomeno – di cessazione delle ostilità. Perché ciò possa eventualmente determinarsi, sarà però necessario attendere almeno sino all’estate del prossimo anno.
Un cambio di passo
A partire dall’autunno, il conflitto ucraino ha registrato una serie di eventi significativi, ma di cui forse non s’è sinora colto il senso complessivo, distratti più che altro dal loro valore immediato, diciamo pure dal loro impatto mediatico. Eppure è proprio mettendoli in prospettiva che si riesce a coglierne il valore strategico, e quindi il loro impatto bellico.
I principali tra questi eventi sono stati, indubbiamente, la mobilitazione parziale in Russia, gli attacchi al ponte di Kerch ed alla base navale di Sebastopoli, l’intensa campagna missilistica sull’Ucraina.
La mobilitazione russa, che subito i media legati alla NATO hanno presentato come un fattore di debolezza, addirittura parlando di chissà quali fughe di massa dei reclutandi (1), è in effetti uno degli elementi che peseranno profondamente sull’andamento del conflitto, ma che ancora non ha dispiegato il suo potenziale.
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Sul movimento internazionale di Halloween oggi
di Michele Castaldo
I nodi stanno venendo al pettine tutti insieme, pochi se n’avvedono realmente per stupidità, mentre quelli che difendono assurdi interessi di “classe”, si ostinano a non volerli vedere.
A Seul nel quartiere di Itaewon si erano dati appuntamento per festeggiare la festa di Halloween circa centomila giovani. Si tratta di un quartiere simile a Trastevere in Roma con viuzze come veri e propri budelli. Nella calca generale, giocando a spingere per poter procedere perché si stazionava, tanta era la folla, si sviluppa una ressa e nel fuggi fuggi generale muoiono 154 persone, quasi tutti coreani, 97 donne e 57 uomini. Dopo qualche giorno Seul annuncia di aver lanciato un missile nello spazio in risposta a quello della Corea del nord di qualche mese prima. Una festa finita in tragedia e l’attenzione si sposta sul missile. Cose dell’altro mondo? No, cose di questo mondo.
Dopo il disastro ci si interroga sulle responsabilità e fra tante chiacchiere inutili si scopre che ben 7500 poliziotti erano stati dislocati in altri punti della città a controllare “facinorosi” estremisti di sinistra, una manifestazione di lavoratori dei trasporti, alcune sigle sindacali. E il capo della polizia che dice: « non siamo preparati a gestire eventi che nessuno organizza », quelli della baldoria, mentre sono ben attrezzati, come in ogni altra parte del mondo, a reprimere chi protesta per necessità primarie come il lavoro, la casa, la salute ecc. Dunque teniamo distinti i due scenari: da una parte si tenta di operare un controllo capillare, dall’altra parte di lasciar fare. C’è libertà dell’individuo da garantire. Se scoppia un fuggi fuggi e muoiono nella ressa 154 persone si portano bare, fiori e lumini, e la giostra continua a girare.
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Complottismo e narrative egemoniche: sono così diversi?
di Stefano Boni
Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi è convinto che le istituzioni, nel loro complesso, siano credibili e chi invece le vede come organi di manipolazione di massa, è ormai evidente.
Quello su cui non ci si sofferma è ciò che accomuna questi due filoni narrativi: le loro similitudini riguardano fondamentalmente i processi cognitivi di costruzione di quello che Foucault chiamava i regimi di verità ovvero “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere”. A Foucault non interessa stabilire cosa sia vero o falso ma la costruzione di regimi, culturalmente specifici, in cui certe affermazioni appaiono a certi gruppi come tali: ciò che viene socialmente ritenuto autentico o fraudolento è prodotto e produttore delle dinamiche di potere prevalenti.
… credo che il problema non sia di fare delle divisioni tra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipende da altro, ma di vedere storicamente come si producano degli effetti di verità all’interno di discorsi che non sono in sé né veri né falsi (Foucault 1977: 25-27, 13).
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Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è il marxismo del XXI secolo
di He Yiting
Presentiamo la traduzione dal cinese dell’articolo scritto a metà giugno del 2020 dal compagno He Yiting, allora vice direttore della prestigiosa Scuola di Partito centrale del partito comunista cinese, avente per oggetto la funzione e ruolo su scala mondiale del pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era.
Buona lettura
Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è il marxismo del 21 secolo: questa è la definizione scientifica del Partito comunista cinese sulla rilevanza storica attribuita al pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era, oltre ad essere anche la prima volta che il nostro Partito per denominare gli ultimi risultati della cinesizzazione del marxismo utilizza “secolo” come parametro.(1)
Il marxismo fin dalla sua comparsa ha superato confini geografici e barriere temporali mosso dalla forza della verità, si è diffuso attraverso i cinque continenti e i quattro oceani seguitando a evolversi nel tempo; ha influenzato profondamente il corso generale della storia globale, modellandola razionalmente e mutandone sensibilmente l’aspetto.
Come ha sottolineato il Segretario Generale Xi Jinping nel suo discorso alla conferenza di commemorazione del 200° anniversario della nascita di Marx: “La ricchezza spirituale lasciataci da Marx che più ha valore ed autorevolezza è senz’altro la teoria scientifica che porta il suo nome: il marxismo. Come una magnifica alba, questa teoria ha illuminato il cammino dell’umanità nella sua indagine sulle leggi della storia e nella ricerca della propria emancipazione.”
Non è possibile affermare che le conquiste teoriche marxiste di ogni paese e di ogni popolo possano essere inserite negli annali del pensiero dell’umanità e venir considerate forme di marxismo del secolo, non tutte possono acquisire il titolo di “marxismo del secolo”.
Perché il marxismo possa essere definito secondo il criterio di “secolo”, riteniamo debbano sussistere tre condizioni: in primis l’obiettivo di ricerca teorica deve essere un modello/campione rappresentativo del mondo; in secundis il risultato teorico deve avere valenza storica a livello mondiale e infine in tertiis, che l’efficacia della prassi modifichi il mondo reale.
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“Il neocolonialismo è morto”. Sul mondo multipolare
Investig’Action intervista Mohamed Hassan
Pubblichiamo la traduzione di questa lunga intervista a Mohamed Hassan – curata da Grégoire Lalieu del collettivo Investig’Action e co-autore di “La Strategie du chaos” e “Jihad made in USA” – pubblicata il 26 ottobre sul sito del collettivo.
Paesi che si rifiutano di tagliare i ponti con la Russia. I dirigenti turchi che sfidano le minacce di Washington. L’Arabia Saudita che disobbedisce a Biden. L’America Latina che vira “a sinistra”. Una parte dell’Africa che volta le spalle ai suoi vecchi e nuovi “padrini” neo-coloniali. È chiaro che il mondo sta cambiando. E Mohamed Hassan ci aiuta a vederlo più chiaramente, anche per le prospettive “rivoluzionarie” che si aprono per le classi subalterne europee, oltre che per i popoli del Tricontinente.
Questo in una situazione in cui anche gli Stati Uniti non solo stanno perdendo la propria egemonia all’esterno, ma soffrono una crisi sociale che avrà dei precisi riflessi anche nelle vicine elezioni Mid-term dell’8 novembre.
Afferma giustamente Hassan: “oggi ci sono 500.000 senzatetto per le strade degli Stati Uniti e il loro tasso di mortalità è salito alle stelle. Ci sono anche due milioni di prigionieri su un totale di undici milioni in tutto il mondo. Il tasso di povertà infantile è del 17%, uno dei più alti del mondo sviluppato secondo il Columbia University Center on Poverty and Social Policy. L’imperialismo sta distruggendo gli Stati Uniti dall’interno e non ha impedito ai due grandi rivali, Russia e Cina, di conquistare potere. Questo aumento di potere indebolisce le posizioni dell’imperialismo statunitense nel mondo.”
Un mondo è al crepuscolo, un altro sta sorgendo sullo sfondo di uno scontro sempre acuito tra un blocco euro-atlantico ed i suoi satelliti ed uno euro-asiatico in formazione.
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La posizione della Germania nel Nuovo Ordine Mondiale americano
di Michael Hudson
La Germania è diventata un satellite economico della Nuova Guerra Fredda americana contro la Russia, la Cina e il resto dell’Eurasia. Alla Germania e ad altri Paesi della NATO è stato detto di imporre sanzioni commerciali e sugli investimenti che dureranno più a lungo dell’attuale guerra per procura in Ucraina. Il Presidente degli Stati Uniti Biden e i suoi portavoce del Dipartimento di Stato hanno spiegato che l’Ucraina è solo l’arena di apertura di una dinamica molto più ampia che sta dividendo il mondo in due serie opposte di alleanze economiche. Questa frattura globale promette di essere una lotta di dieci o vent’anni per determinare se l’economia mondiale sarà un’economia unipolare incentrata sui dollari degli Stati Uniti o un mondo multipolare e multivalutario incentrato sul cuore dell’Eurasia con economie miste pubbliche/private.
Il Presidente Biden ha caratterizzato questa divisione come una divisione tra democrazie e autocrazie. La terminologia è un tipico doppio senso orwelliano. Per “democrazie” intende gli Stati Uniti e le oligarchie finanziarie occidentali alleate. Il loro obiettivo è spostare la pianificazione economica dalle mani dei governi eletti a Wall Street e ad altri centri finanziari sotto il controllo degli Stati Uniti. I diplomatici statunitensi utilizzano il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale per chiedere la privatizzazione delle infrastrutture mondiali e la dipendenza dalla tecnologia, dal petrolio e dalle esportazioni alimentari statunitensi.
Per “autocrazia”, Biden intende i Paesi che resistono a questa finanziarizzazione e privatizzazione. In pratica, la retorica statunitense accusa la Cina di essere autocratica nel regolare la propria economia per promuovere la propria crescita economica e il proprio tenore di vita, soprattutto mantenendo la finanza e le banche come servizi pubblici per promuovere l’economia tangibile di produzione e consumo.
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Per una diserzione organizzata*
di Valerio Romitelli
Ammesso e non concesso che non sia solo una mera “espressione geografica”, l’Europa dei nostri giorni non sa quello che sta facendo. Istruita da anni dalla dottrina anglofona e neoliberale del “sapere fare”, ha creduto che ogni scelta dovesse ispirarsi al calcolo costi/benefici. Ora però la casa madre americana “ci” impone contraddire fragorosamente la logica di questo calcolo, per dare priorità ad una difesa di “ideali”. Ideali che in realtà non fanno che sancire il rapido, definitivo e tragico declino geopolitico, sociale ed economico del nostro stesso continente.
Gli ideali in questione sarebbero ovviamente quelli della libertà e della democrazia di cui l’Ucraina, da quando invasa dalla Russia, sarebbe divenuta improvvisamente terra privilegiata. Una terra talmente privilegiata che (a differenza di innumerevoli altri casi di guerra in corso su scala planetaria, ma circondati da un interesse mediatico infinitamente inferiore) tutti gli alleati degli Stati Uniti dovrebbero aiutare con ogni mezzo diretto e indiretto, e soprattutto a qualunque costo. Anche quello di precipitare in una recessione irreversibile e dalle conseguenze tanto fosche quanto imprevedibili.
Oltre a supportare un faraonico piano di invio di armi, finanziamenti, mercenari, consiglieri e così via, l’Ue (o meglio i paesi di essa più ligi a Washington) si sta infatti arrabattando per far dimenticare e persino rinnegare ogni tradizionale, naturale e conveniente relazione economica con la vicina Confederazione degli Stati Indipendenti. Più di settant’anni di egemonia americana sul vecchio continente non sono dunque bastati a far ragionare i suoi vassalli. La maggioranza di loro concorda infatti nel riconoscere legittimo l’”eccezionalismo”, cioè una sorta primato da “popolo eletto”, sempre rivendicato da chi governa la sempre conclamata “più grande” democrazia del mondo.
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Prefazione a “Stato e rivoluzione”
di Antonio Negri
Pubblichiamo qui la prefazione di Toni Negri a Stato e Rivoluzione per PGreco Edizioni
1. A chi mi chiede quale libro possa meglio introdurlo al marxismo, rispondo: Stato e rivoluzione di Vladimir Ilich Lenin. Perché? Perché se Marx è il cervello, Lenin è il corpo del marxismo, e per i materialisti è nel corpo che risiede anche il cervello. Il marxismo non è infatti una teoria economica ma una critica dell’economia politica, laddove critica significa in primo luogo capacità d’analisi nell’immergersi in un mondo caotico e conflittuale, materialmente dominato da padroni che ti sfruttano e da un sovrano che ti comanda. Quel “ti sfrutta” e quel “ti comanda” significano che il comando ha a che fare con il tuo corpo, cioè con i corpi, le energie, le passioni, i valori di chi abita e lavora questo nostro pianeta. Lenin, con Stato e rivoluzione, mette i corpi all’interno della lotta quotidiana dove si annodano rivendicazione economica e passione politica, sforzo di emancipazione e potenza di liberazione. In questo primo approccio, Stato e rivoluzione significa: i corpi in lotta contro la materialità del comando capitalista.
Questo rapporto svela un primo significato del marxismo come critica: significa esserci dentro all’economia politica, starcidentro a quell’avviluppo di atti di sfruttamento e di mezzi di potere (di capitalismo e di sovranità), dentro alla connessione inscindibile che ne fa uno Stato. Lo Stato è sfruttamento dei corpi dei lavoratori ed è comando sui cervelli dei sudditi. Rivoluzione è la critica che i corpi esercitano contro quello sfruttamento e quel potere sovrano.
All’investimento del dentro, la critica fa dunque seguire, in contemporanea, la potenza del contro. Dire contro significa infatti comprendere come i corpi possano muoversi contro il capitale: significa dunque tradurre Il Capitale – libro inesauribile della critica marxista – in esperimento materialista di una rivoluzione possibile.
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Dissenso informato
Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili
Introduzione di Niccolò Bertuzzi, Elisa Lello
AA.VV.: Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, a cura di Elisa Lello e Nicolò Bertuzzi, Castelvecchi, 2022
Informazione: “somministrare” con prudenza
«Bisogna trovare delle modalità meno […] democratiche […] nella somministrazione dell’informazione»; «In una situazione di guerra […] si accettano delle limitazioni alla libertà». Queste parole, già ricordate nella prefazione di Vittorio Agnoletto e che suonerebbero inquietanti persino se pronunciate da un comune cittadino, sono state utilizzate il 27 novembre 2021 da Mario Monti, in prima serata durante la nota trasmissione In Onda, su La7. Si riferivano – è doveroso precisarlo a qualche mese di distanza – all’emergenza Covid-19, e non a più recenti scenari bellici. Il ragionamento offerto dal professor Monti in quella sede era piuttosto articolato e, nonostante i tentativi del senatore a vita di ricalibrare il tiro con comunicati stampa riparatori, è difficile imputare la sua esternazione a un fraintendimento. Per cinque minuti abbondanti, attorniato da statue antiche e calici di vetro (una scenografia effettivamente molto adatta), Monti presentava la sua tesi autoritaria di fronte agli sguardi attoniti dei conduttori in studio.
Le frasi di Monti hanno provocato un certo dibattito, e le critiche non sono mancate. Vogliamo fermarci brevemente su due aspetti. In primo luogo il parallelo bellico. Nei giorni in cui Monti pronunciava queste parole eravamo nel pieno della recrudescenza del virus, con la variante Omicron che spopolava in Italia e nel resto d’Europa. Le sirene del conflitto fra Russia e Ucraina erano relegate a chi si interessasse di relazioni internazionali e geopolitica. Nessuna guerra si affacciava realmente nel dibattito pubblico.
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Vincenzo Costa, “Elite e populismo. La democrazia nel mondo della vita”
di Alessandro Visalli
Il libro di Vincenzo Costa[1] è stato scritto immediatamente a ridosso del ciclo di successi elettorali ‘populisti’ del 2016-18 e si pone il problema di fornire gli strumenti intellettuali per giudicare quel che accade in quel torno di anni che seguono la crisi del 2008 (la quale in Europa manifesta i suoi effetti maggiori solo dopo la crisi greca e quindi dal 2010), con gli effetti economici e sociali dell’austerità, la critica dell’Unione Europea e dell’Euro, il distacco delle classi medie dal consenso verso quelle che saranno qui chiamate “le élites”. Pur nella sua agilità, un testo di circa centocinquanta pagine, il libro individua un percorso teorico semplice e chiaro: la democrazia è un progetto sempre a venire, una ‘riserva attiva del possibile’, ma viene ridefinita dalla cultura liberale alla quale le sinistre si sono arrese come dispositivo istituzionale e legale che resta indifferente alle vite concrete e punta piuttosto a governarle attraverso le élite. Nel ‘divenire inutile della sinistra’ l’opposizione che si manifesta a questo progetto di disattivazione e gerarchizzazione è quella tra élites e ‘moltitudini’. In questa opposizione si apre un bivio: o la risposta ai meccanismi sociali e discorsivi che costituiscono le élite ed escludono avviene in modo reattivo, egemonizzata dai ‘senza-potere’ e dalle classi medie déclassé[2], e si ha il ‘populismo’. Oppure intorno ad un progetto che articola le premesse antepredicative dei “mondi vitali” allargati, e non solo relativi alle ‘classi medie’, si determina la costruzione di “popolo” che muove dall’esigenza di giustizia e ottiene la riconnessione delle élite con questi; e allora si ha ‘democrazia popolare’.
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Alcune note sul contributo di Garegnani all’analisi economica
di Antonella Stirati*
Abstract: Garegnani è stato una figura di primo piano nel contesto italiano e internazionale, e la sua attività di ricerca sempre connotata da un forte impegno intellettuale e civile. Nel saggio vengono enucleate le sue principali linee di ricerca concernenti la critica alla teoria marginalista, la ripresa dell’impostazione classica del sovrappiù, e il ruolo della domanda effettiva, i contributi sia metodologici che teorici, i punti di convergenza e di tensione con la scuola postkeynesiana in senso lato
Desidero iniziare queste note su Garegnani con alcuni ricordi personali, e con alcune considerazioni su quanto Garegnani ha trasmesso sia con l’insegnamento che attraverso i suoi contributi riguardo a come esercitare il ‘mestiere’ di economista. In seguito, ripercorro alcune caratteristiche metodologiche molto generali relative al suo approccio all’analisi economica. Cercherò poi di enucleare, sia pure in modo descrittivo e sintetico, le sue principali linee di ricerca e contributi, e quali aspetti di questi ultimi appaiono ancora controversi tra gli economisti postkeynesiani ed eterodossi.
Il mio primo incontro con il nome di Garegnani in relazione al suo contributo alla critica alla teoria neoclassica del capitale è avvenuto al secondo anno del mio percorso universitario. Il corso trattava di microeconomia ed equilibrio economico generale, e il libro di testo era di Augusto Graziani. Il testo riportava alla fine di ogni capitolo una breve bibliografia commentata, e tra i riferimenti vi era anche quello alla controversia sulla teoria del capitale. La cosa già allora mi colpì molto: avevo studiato microeconomia durante il primo anno di corso su un testo del tutto tradizionale, e l’avevo trovato poco convincente – in particolare l’importanza attribuita alle scelte del consumatore mi sembrava aver scarsa attinenza con la realtà economica, che percepivo come terreno di scontri di interesse e di potere piuttosto che fondamentalmente dominata da quelle scelte. Tuttavia, avevo la percezione che quella era una teoria del funzionamento del mercato, e in quanto tale non poteva essere respinta senza motivo. Scoprire che un motivo poteva in realtà esserci, che erano stati denunciati errori di fondo di quella impostazione fu dunque causa di sollievo e anche di ravvivato interesse per la disciplina.
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La fotografia dei tempi scattata da Vladimir Putin
di Fabrizio Poggi
Per pura curiosità: date una sbirciatina a giornali.it, con le prime pagine di ieri dei maggiori quotidiani italici. A parte il titolo – se si vuole, abbastanza neutro – di Avvenire, con un «Ucraina, colpo su colpo», nessun altro quotidiano apre la prima pagina con l’intervento di Vladimir Putin al club “Valdaj”, l’appuntamento su temi politico-economico-internazionali che si ripete da 19 anni a Mosca.
Nessun altro quotidiano, eccetto quello acquartierato a via Bargoni, che apre la prima con un titolo che poco ha a che vedere con le categorie giornalistico-politiche, avvicinandosi più a una diagnosi sanitaria: «Delirio di potenza».
Non che siano da meno gli altri megafoni della linea informativa atlantica, con Corriere e Repubblica che riportano, ma di spalla, rispettivamente, «Putin all’attacco dell’occidente» e «Putin avverte: verso il decennio più pericoloso» e perfino La Stampa piazza solo a metà pagina la propria truculenta russofobia con «La Jihad di Putin».
A il manifesto no: l’apertura è un referto clinico: siamo in presenza di uno che delira, diagnosticano, e l’unica soluzione è la camicia di forza; ovviamente da infilargli con maniere decise.
Difficile dire se prevalga l’invettiva anti-russa dell’articolista (sorge il dubbio che scriva anche per La Stampa sotto altro nome…) o riemergano antiche lamentazioni per la “scorza sovietica che non ne vuol sapere di farsi da parte” nella nuova Russia.
Ma, fuor di maledizioni, cosa ha detto Putin l’altro ieri all’assemblea del club “Valdaj”?
In estrema sintesi, e esaminando solo alcuni dei numerosi temi da lui trattati: l’Occidente, lo voglia o no, dovrà cominciare a ragionare sul futuro comune, perché, finita l’egemonia unipolare, si deve andare verso giustizia e sicurezza per tutti.
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Per farla breve, il Socialismo
di Lanfranco Binni
Della situazione politica italiana dopo le elezioni del 25 settembre è facile avere una visione distorta se si scambiano per dati reali i trionfi e i gemiti e i sussurri di un sistema politico che ne è uscito a pezzi. L’astensione al 40% ridimensiona e relativizza i dati elettorali: il nuovo governo della coalizione di destra è espressione di un quarto degli elettori ed è stato premiato unicamente dalle regole perverse del sistema elettorale; nella coalizione di destra, alla vigilia dell’incarico a FdI sono già all’opera le contraddizioni interne e gli interessi concorrenziali dei gruppi di potere; il governo è maggioritario nella scena parlamentare, ma minoritario nel paese: non ha vinto la destra, ha perso il cosiddetto centro-sinistra, politicamente inesistente e frantumato nelle sue componenti interne neoliberiste e pseudo-riformiste. Ma il dato principale è la crisi definitiva del sistema politico, di una sedicente “democrazia rappresentativa” che, morta la “sinistra” storica, non rappresenta più le classi popolari che l’aveva espressa. Il ricambio dei gruppi dirigenti sarebbe oggi affidato, sotto la garanzia del gesuita Rasputin della finanza e dell’atlantismo statunitense, alla destra neofascista erede del fascismo storico e delle pratiche stragiste dagli anni sessanta in poi, con tutte le sue articolazioni “patriottiche” e internazionali. Il tutto in presenza di una crisi internazionale del capitalismo occidentale che reagisce con i tradizionali strumenti della guerra in difesa di un mondo unipolare a guida statunitense reso insostenibile dal rafforzamento di una tendenza multipolare che unisce sempre più una parte maggioritaria del pianeta, e sullo sfondo il panico di una catastrofe climatica in atto a cui si pensa di reagire con la corsa alle materie prime come se fossero le ultime di cui impadronirsi, con la corsa alla guerra in tutte le sue forme anche come investimento produttivo. Ma il quadro è molto più complesso delle semplificatorie narrazioni della “propaganda fide” occidentale.
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Lottando per diventare come Dio
Note sulla teologia politica a partire dal pensiero di Thomas Müntzer
di Gabriele Fadini
Thomas Müntzer è una figura straordinariamente affascinante ed evocativa, spesso condensata in quell’affermazione «omnia sunt communia» che è stata importante nell’immaginario dei movimenti contemporanei. In questo articolo Gabriele Fadini propone l’ipotesi che l’attualità del pensiero e della vicenda di Müntzer consista nel contributo che tale pensiero può portare alla questione della teologia politica. È una «trascendenza senza trascendenza», che per Müntzer non ha come modello né il pensiero immanente che in essa vedrebbe Engels né una semplice filosofia della storia, ma a tutti gli effetti una «teologia della rivoluzione». Attraverso questo percorso di lettura, l’autore sostiene che la teologia politica, per come si sviluppa nel pensiero di Müntzer, non è solo una branchia della teologia ma il riflesso di ogni evento storico poiché in grado di coglierne il dato universale e quello particolare, il singolo e il molteplice, l’eternità e la temporalità.
* * * *
Ogni qual volta ci si occupa di autori o correnti di pensiero molto indietro nel tempo è quasi un dovere porsi la domanda se ciò che si sta studiando possa essere considerato ancora attuale e, se sì, di che tipo di attualità si tratti.
In La politica al tramonto, Mario Tronti inscrive Thomas Müntzer nella faccia nascosta, minoritaria, marginale ed eretica della politica moderna e in quella tradizione che legge il messianismo non in termini extramondani, ma in termini politici aventi un rapporto diretto con l’esegesi rivoluzionaria, con l’escatologia terrena di un al di là mondano. Un messianismo politico, dunque, che è racconto non della fine del mondo ma della mano sovversiva di Dio sulla e nella storia per ribaltarne il corso e in cui finalmente il braccio potente del Magnificat veramente innalza gli umili e abbassa i potenti [1].
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Laboratorio Ucraina
di Enrico Tomaselli
Ogni guerra è, tra le altre cose, un terreno di sperimentazione. Classicamente lo è per le armi: nuovi prodotti dell’industria bellica, se positivamente testati nella realtà di un conflitto, ne ricavano il miglior lancio pubblicitario possibile. Ma talvolta una guerra rappresenta anche l’occasione per verificare molte altre cose; ed in questo, la guerra in Ucraina non fa eccezione
Armi, industria e strategie
Il conflitto che si sta combattendo, naturalmente, focalizza tutta l’attenzione su due aspetti: le conseguenza politiche ed economiche della guerra e la tragedia delle morti e delle distruzioni che si infliggono reciprocamente i contendenti. Pure vi sono altri aspetti non meno importanti, che però rimangono esclusi dal dibattito pubblico, restando confinati in un ambito assai specialistico – e per sua natura tendenzialmente riservato.
Una prima questione, tra quelle appunto minori, è relativa alle armi impiegate dalle forze combattenti. E, sotto questo profilo, la guerra in Ucraina è assai interessante per più di un motivo.
Innanzitutto, è il primo vero conflitto in cui è direttamente coinvolta la Russia post-sovietica. Sia le guerre cecene, che l’intervento in Siria, infatti, non sono assimilabili a questo, poiché qui a fronteggiare l’esercito russo c’è un altro esercito regolare, di un paese con decine di milioni di abitanti e non un sia pur ben organizzato esercito guerrigliero. Ciò costituisce quindi un’ottima occasione per osservare e valutare modalità e capacità di combattimento delle forze armate russe e soprattutto dei suoi armamenti.
Sotto questo aspetto, la guerra offre molteplici chiavi di lettura. Pur essendo un conflitto tutto sommato asimmetrico, non solo per l’evidente sproporzione tra le parti ma anche – ad esempio – per il totale dominio dell’aria da parte di uno dei due, una parte significativa della guerra stessa si svolge sul terreno, con un confronto tra forze meno squilibrate a livello tattico. Per quanto da entrambe le parti si faccia largo uso di mezzi e sistemi d’arma ancora d’epoca sovietica e siano, quindi, tutto sommato poco presenti armi moderne, si possono comunque osservare alcuni aspetti interessanti.
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Alle radici dell'Antropocene
di Ernesto Burgio
L'Antropocene può essere definito come l'era del pianeta Terra in cui una singola specie (Homo sapiens sapiens) ha preso il sopravvento su tutte le altre e ha tanto rapidamente e radicalmente trasformato l'intera ecosfera da mettere in pericolo la propria stessa esistenza.
Tra i fattori fondamentali di questa trasformazione vengono in genere indicati: lo sfruttamento sempre più intensivo da parte di Homo sapiens delle risorse energetiche e materiali e delle catene alimentari; la crescita esponenziale della popolazione umana su tutto il pianeta; il conseguente inquinamento e lo stravolgimento dei principali cicli biogeochimici. In questo quadro viene spesso trascurato quello che è l'effetto forse più drammatico: la trasformazione repentina e radicale degli ecosistemi microbici e virali che costituiscono l'essenza della biosfera e che sono i veri motori dell'evoluzione biologica da oltre 4 miliardi di anni.
Una interpretazione difficilmente contestabile è quella secondo cui tutti questi effetti, tra loro interconnessi, sono conseguenza della scelta da parte di Homo sapiens di usare la ragione a fini di dominio e la techné quale strumento fondamentale in tal senso, trascurando o comunque sottovalutando gli effetti che questa scelta avrebbe avuto sull'Altro (sugli altri esseri umani, sugli altri esseri viventi, sul pianeta stesso).
Se riconosciamo in questa scelta l'essenza stessa (anche spirituale, essenzialmente connessa al concetto di Ybris, di superamento dei limiti imposti dalla Natura o dagli dei) dell'Antropocene, possiamo meglio discernere da un lato gli strumenti più potenti introdotti dall'uomo ai fini del dominio, dall'altro gli effetti più negativi e potenzialmente distruttivi del loro utilizzo, che sono sempre più evidenti e potenzialmente irreversibili.
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Michal Kalecki e la piena occupazione
di Federico Fioranelli*
Michal Kalecki nasce a Lodz, in Polonia, il 22 giugno 1899, in una famiglia di origine ebraica. Nel 1917 inizia a studiare ingegneria al Politecnico di Varsavia ma interrompe gli studi prima della laurea. Si avvicina invece allo studio dell’economia leggendo Mikhail Tugan-Baranovsky e Rosa Luxemburg.
Dal 1929 al 1936 lavora presso un Istituto di ricerca economica a Varsavia e scrive dei testi raccolti in Studi sulla teoria dei cicli economici (1972).
Dopo essersi recato a Stoccolma, Londra e Cambridge grazie ad una borsa di studio, dal 1940 al 1945 lavora all’Istituto di statistica di Oxford: in questo periodo pubblica il saggio Aspetti politici del pieno impiego (1943).
Dal 1946 al 1955 è membro della Commissione economico-sociale dell’ONU.
Nel 1954 scrive Teoria della dinamica economica.
Nel 1955, Kalecki torna in Polonia per dedicarsi all’insegnamento e alla ricerca all’Università di Varsavia. I lavori di questo periodo fanno parte della raccolta Sulla dinamica dell’economia capitalistica (1975).
La dinamica dell’economia capitalistica
In Teoria della dinamica economica, Kalecki costruisce inizialmente un modello semplificato ipotizzando che l’economia sia chiusa e dividendo il sistema economico in due classi: i lavoratori e i capitalisti.
Il reddito dei lavoratori è costituito dai salari (W) mentre quello dei capitalisti dai profitti (P). Il reddito nazionale è così la somma di salari e profitti: Y = W + P.
Le imprese, in un’economia in cui hanno potere di mercato, adottano il principio del costo pieno, cioè un criterio che consiste nel fissare il prezzo del prodotto in relazione ai costi variabili, accrescendoli di un margine proporzionale destinato a coprire costi fissi e spese generali e a garantire un margine di profitto. I capitalisti determinano in questo modo il saggio di profitto e il saggio di salario.
Il profitto totale e il livello totale dei salari dipendono invece dalla spesa effettuata dagli stessi capitalisti in investimenti e consumi.
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L'inflazione, ultimo tentativo di salvataggio dello status quo?
R. F. e B. A.
[Accouchement difficile – Épisode 4: L’inflation, ultime tentative de sauvetage du statu quo?, http://www.hicsalta-communisation.com/, aprile 2022]
Un anno fa (aprile 2021), concludevamo il terzo episodio della nostra serie sulla crisi da Covid1 con delle proiezioni sui possibili scenari dell'ulteriore sviluppo di quella crisi. Uno di questi scenari era il «ritorno dell'inflazione». E così scrivevamo:
«Se è troppo forte, essa [l'inflazione, nda] rimetterà in causa gli equilibri dello status quo e innescherà una massiccia devalorizzazione di capitale reale e fittizio.»
Oggi il ritorno dell'inflazione non è più in dubbio, anche se la discussione è aperta sulla sua durata. In questo episodio, si tratterà non solo di analizzarne le cause profonde, ma anche di coglierne le implicazioni, soprattutto dal punto di vista della massiccia devalorizzazione (e della concomitante crisi sociale) che abbiamo prospettato. L’inflazione attuale può condurre a uno scongelamento/aggravamento della crisi, contrariando la traiettoria di uscita dalla recessione? Può essere portatrice di una forte ripresa delle lotte sul posto di lavoro, unico possibile innesco della grande ristrutturazione di cui il capitale sembra oggi così bisognoso? Queste sono le domande a cui cercheremo di rispondere sulla base degli elementi strutturali che, al di là dei fattori più immediati e superficiali, sono all’origine dell'inflazione attuale: la brutale caduta del saggio di profitto e la crisi della perequazione distorta del medesimo.
1 – Messa a punto concettuale
La prima cosa da chiarire è che lo status quo evocato nel titolo si riferisce esclusivamente all'attuale formula dello sfruttamento del lavoro, basata sulla predominanza del plusvalore assoluto.
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Una critica marxista della "sinistra postmoderna" e dell'"identity politics"
di Jona Textor
"Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand'è in pelle nera" - Karl Marx
Introduzione
L'uccisione dell'afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, il 25 maggio 2020, ha scatenato un movimento di protesta contro il razzismo e la violenza della polizia come non si vedeva dai tempi delle campagne di solidarietà internazionale contro il regime di apartheid sudafricano. Gli Stati Uniti stanno vivendo uno stato di emergenza politica che si era visto l'ultima volta al culmine delle proteste contro la guerra del Vietnam e nel periodo di massimo splendore del movimento per i diritti civili dei neri.
A differenza degli anni Sessanta e Settanta, tuttavia, oggi nel movimento non ci sono quasi organizzazioni politiche e leader ideologici [1] che analizzino il razzismo da una prospettiva materialista e formulino il loro antirazzismo sulla base di una concezione marxista del capitalismo. Per il Black Panther Party negli anni Sessanta e Settanta era ancora scontato intendere l'oppressione razziale come parte del sistema di sfruttamento capitalistico. Bobby Seale, uno dei membri fondatori delle Pantere, ha dichiarato: "I lavoratori di tutti i colori devono unirsi contro la classe dirigente sfruttatrice e oppressiva. Permettetemi di sottolineare ancora una volta: crediamo che la nostra lotta sia una lotta di classe, non una lotta di razza"[2]. Purtroppo, oggi rimane ben poco di questa eredità teorica. Certo, nel contesto delle proteste di Black Lives Matter (#BLM), ancora oggi si levano singole voci di attivisti di sinistra o di gruppi che rappresentano posizioni di lotta di classe o che addirittura si rifanno positivamente alla tradizione delle Pantere Nere [3], ma queste sono attualmente ben lontane dal rappresentare l'ampiezza del movimento.
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Nuove dinamiche del ciclo economico
di Fabrizio Russo
Doveva essere un non-evento, per così dire, “irrilevante”. A conferma di una “New Cycle Dynamics”, il “mini budget” del governo Truss ha invece scatenato un caos assoluto sui mercati, e non solo obbligazionari: fondi pensione che esplodono, operazioni di salvataggio di emergenza della banca centrale, instabilità del mercato globale. Il Segretario al Tesoro del Regno Unito è stato sacrificato dopo soli 38 giorni, un intero governo si è trovato in bilico a solo poche settimane dalla sua nascita per finire poi miseramente – il Governo più breve nella storia dell’Inghilterra – il 21 ottobre u.s. Un bell’exploit, non c’è che dire!
Venerdì 14 u.s. il Financial Times titolava: “Gilt sugli scudi ma gli investitori affermano che l’inversione a U del Governo Truss non è stata sufficiente a rassicurare ed invertire il tono di fondo del mercato”. “Liz Truss può sopravvivere come Primo Ministro del Regno Unito?”; “L’austerità chiama mentre Truss cerca di ripristinare la reputazione della Gran Bretagna tra gli investitori” (istituzionali, aggiungerei). E “La debacle del Regno Unito mostra che la banca centrale ‘Tough Love’ è qui per restare”.
Viene in mente il monito di Boris Johnson che, al momento del suo commiato, si è speso in un sibillino: “Arrivederci!” ….. nel senso che la Truss sarebbe durata poco? Lo sospettavo ma adesso ormai sono la maggioranza a crederlo … purtroppo i problemi non scompariranno con la designazione di un nuovo Esecutivo, nella fattispecie quello del neo incaricato Rishi Sunak, mentre il ritorno di Boris – pur paventato – sarebbe certamente stato un pessimo segnale di disperazione.
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“Sull’Irlanda”… e sulla Catalunya
di Andrea Quaranta
La riedizione degli scritti di Marx e Engels Sull’Irlanda è una iniziativa fondamentale per approfondire la riflessione su quei contesti nei quali popoli differenti sono ancora in lotta per la loro emancipazione: è il caso della Catalunya, di Heuskal Herria, della Corsica e di molte altre situazioni in cui la contraddizione nazionale è tutt’altro che risolta.
La nuova edizione di PGreco è arricchita dalla corposa introduzione di Marco Santopadre che, oltre a fornire diversi e interessanti spunti interpretativi, mette ordine nella questione riportata alla ribalta dalla crescita del movimento indipendentista catalano e rivelatasi problematica per la sinistra di classe europea, tutt’altro che unanime riguardo alle nazioni senza stato del continente.
In questo contesto la riproposizione delle riflessioni contenute in Sull’Irlanda ha prima di tutto il grande merito di riportare l’attenzione sul pensiero originale dei fondatori del marxismo e di fare piazza pulita delle semplificazioni interessate e dei luoghi comuni circolati con successo anche “a sinistra”.
La raccolta permette infatti di seguire passo dopo passo il pensiero di Marx e Engels sulla questione nazionale irlandese, un pensiero la cui complessità (compresi i ripensamenti espliciti) segnala non i limiti bensí la vitalità e la ricchezza di un’analisi che, se non rappresenta una teoria compiuta della nazione, consegna però alla sinistra di classe gli strumenti fondamentali per sviluppare il proprio percorso nell’intricata materia.
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Verso nuovi equilibri
La sfida per il nuovo ordine mondiale
di Renato Strumia
L’attacco della Russia all’Ucraina ha già reso chiaro, a tutti, che la posta in gioco è molto più alta di un conflitto di confine tra paesi legati tra di loro da una storia millenaria.
A tutti dovrebbe essere ormai chiaro che è in corso una guerra per procura tra Russia e Nato, con l’Ucraina come vittima sacrificale; una guerra il cui obiettivo finale è disarticolare e degradare la Russia, per consentire agli USA di mettere poi nel mirino la Cina, la cui ascesa sta minando, in chiave strategica, un modello egemonico in evidente difficoltà.
L’orrore per la tragedia è indicibile, ma questa cesura devastante può aiutarci a capire, un po’ di più, il mondo che verrà. Non è detto che il nostro impegno serva, nel costruire un mondo migliore di quello che abbiamo alle spalle; ma almeno possiamo tentare una elaborazione meno scadente della complessità del sistema globale e pensare (in prospettiva) vie d’uscita più coerenti con la nostra visione del mondo.
In questi trent’anni abbiamo trattato la globalizzazione come un processo scontato, un’estensione senza fine della forma di produzione e di scambio modellato sul sistema capitalistico, nella sua tarda versione americana.
Un allargamento continuo della dimensione produttiva e della sfera del consumo, teso a coprire tutta la superficie terrestre, per inglobare anche le regioni più remote e impenetrabili in un unico sistema di vita e di valori. Un processo che è andato avanti di pari passo con la crescita ipertrofica della finanza, ormai sganciata dal reale: il debito globale ormai vale 3 o 4 volte il PIL del pianeta Terra.
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