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Il nuovo assalto all’Africa, eterno vaso di miele per i vecchi e i nuovi colonialisti
di Il Pungolo Rosso
Pur se occultato in mezzo a una nauseante melassa di stato vetero/neocoloniale, alle orecchie del “grande pubblico” (dalle micro-informazioni) dovrebbe essere arrivato in questi giorni il nome coltan, l’oro bianco degli ultimi tre decenni. Il sottosuolo del Congo ne detiene l’80% delle riserve mondiali, ed è questa la causa prima (a seguire i diamanti, l’uranio, il cobalto, il patrimonio idro-elettrico, etc.) del terribile massacro avvenuto a cavallo del secolo in Congo, che lo ha trasformato, anche a guerra “finita”, in un permanente terreno di scontri armati, condotti sostanzialmente per procura. Per procura delle società multinazionali affamate del minerale, e dei vecchi e nuovi colonialisti.
Il coltan, una miscela complessa di columbite e tantalite, è un minerale preziosissimo per la fabbricazione di telefoni cellulari, computer portatili, GPS, auto (air bag), equipaggiamenti chimici, satelliti, armi guidate, motori di jet, missili, macchine fotografiche, apparecchi per la visione notturna, televisori al plasma, console per i videogiochi, strumenti per l’odontoiatria e la chirurgia, a causa della sua eccezionale resistenza al calore e alla corrosione, della sua capacità di aumentare la rifrangenza del vetro, di ottimizzare il consumo di corrente elettrica, nonché per il suo contenuto di uranio, e chi più ne ha più ne metta. L’inizio dell’estrazione dei minerali che compongono il coltan precede la seconda guerra mondiale, ma è solo degli ultimi tre decenni lo scatenato arrembaggio mondiale al coltan, guidato dalle multinazionali dell’elettronica, della chimica, etc. statunitensi, francesi, giapponesi, tedesche, britanniche e via dicendo: Apple, Microsoft, Thomson, Sony, Nokia, Bayer, etc., con l’accompagnamento dei relativi stati (e ambasciate) – la massima delle multinazionali italiane traffica, invece, soprattutto in petrolio, gas, energia elettrica.
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L’effetto lockdown sulla scuola
di Monica Di Barbora
Nota: il testo è stato redatto a conclusione dell’anno scolastico 2019/20; l’impianto dell’articolo è strutturato, quindi, sulla prima esperienza di didattica a distanza nel periodo marzo/giugno. Sono stati, tuttavia, inseriti degli aggiornamenti a novembre a fronte di alcuni recenti studi e importanti novità
Ne siamo usciti peggiori. Fare un bilancio della didattica emergenziale online che vada oltre la mera valutazione pedagogica ma provi a pensare al sistema dell’istruzione come parte fondamentale di un più ampio contesto sociale non consente un grande ottimismo. Sgombriamo subito il campo da ogni fraintendimento: i/le docenti, nella maggioranza dei casi, si sono messi in gioco con grande disponibilità e creatività. E bambine e bambini, ragazze e ragazzi hanno affrontato, in età critiche e delicate, una situazione complessa per la quale nessuno li aveva preparati. Inoltre, era oggettivamente difficile immaginare un’alternativa plausibile in una situazione così drammatica.
Ciononostante i problemi emersi sono considerevoli e coinvolgono una pluralità di piani, al di là delle valutazioni più strettamente didattiche. In generale, possiamo dire che la chiusura delle scuole ha generato un incremento delle diseguaglianze in diversi ambiti. Il punto è che lo stravolgimento comportato dal confinamento si è innestato su un sistema che dalle disparità trae vantaggio.
Per quanto riguarda, più nello specifico, il settore scolastico, è sotto gli occhi di tutti che si tratta di un contesto in enorme sofferenza. Riforme avviate e abbandonate che si succedono praticamente a ogni avvicendamento ministeriale; strutture fatiscenti; problemi annosi nel sistema di reclutamento del personale; scarso riconoscimento economico e sociale della classe docente (ricorderete gli strali della ministra Gelmini contro la scuola “stipendificio” a fronte di stipendi tra i più bassi d’Europa); contenimento delle spese, quando non veri e propri tagli (si veda il rapporto Ocse 2019 che mette a confronto le scuole dei paesi europei su una pluralità di parametri tra cui gli stipendi della classe docente).
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Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano
di Marco Cerotto
Il libro «Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano», dedicato per l’espressione della volontà unanime agli operai della Whirlpool di Napoli, è anzitutto il risultato di un lavoro teorico collettivo, nato dalle molteplici assonanze che uniscono il gruppo di ricerca napoletano e il Groupe de recherches matérialistes parigino, rispecchiante l’esito fruttuoso di un incontro seminaraiale svoltosi tra il 20 e il 21 dicembre 2018 presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Napoli “Federico II”.
Questo testo si propone di rintracciare le influenze delle potenze assiologiche del neomarxismo italiano nella particolare soggettività di classe emergente nel cosiddetto «lungo decennio», orientandosi ad analizzare la complessità della produzione critica dell’operaismo italiano elaborata sin dai primi anni Sessanta, la quale approda alla lucida constatazione dell’affermazione di una figura potenzialmente rivoluzionaria negli sviluppi neocapitalistici, come l’operaio-massa, confrontandosi con il rapido susseguirsi dei differenti cicli di lotte operaie e con la formazione delle prime organizzazioni classiste dopo il biennio rosso del 1968-69.
Nella prima parte del testo «All’origine della Nuova Sinistra», e in particolare nel saggio che apre il libro «Il dibattito sull’autonomia nel Partito socialista italiano», Mariamargherita Scotti mette in evidenza come i germi della «Nuova Sinistra» siano presenti principalmente nel Psi, probabilmente per la peculiare tradizione politico-culturale di questo partito, che nei meriti e nei limiti lo differenziava notevolmente dal Partito comunista. «Autonomia» è il concetto che viene recuperato per spiegare l’esistenza di questo filone «critico» collocato preminentemente nel Psi, all’interno del quale figure politiche come Gianni Bosio e Raniero Panzieri vengono elevate a precursori teorici del marxismo critico.
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Finitudine ed escatologia nell’era del presente esteso
di Roberto Paura
Un mondo a venire dopo la vita? Le risposte di Bart Ehrman, Brunetto Salvarani e Telmo Pievani
Se dovessimo svolgere un sondaggio su quale sia considerato oggi il modo migliore di morire, scopriremmo che le risposte sono quasi unanimi: all’improvviso, meglio se nel sonno, senza nemmeno accorgersene. Chiudere gli occhi e non svegliarsi più. Eppure, nel passato poche cose avrebbero atterrito più di questa. Morire improvvisamente senza la possibilità di ottenere il conforto dei sacramenti e della remissione dei peccati avrebbe potuto compromettere ogni speranza di salvezza nell’aldilà. Il trapasso, dopotutto, può ben essere doloroso, ma ha una durata limitata; l’eternità, invece, è davvero lunga, e nessuno vorrebbe trascorrerla tra i tormenti. Così scriveva ad esempio il teologo bizantino Giovanni Crisostomo nella sua Omelia sul Vangelo di Giovanni: “Se dovesse accadere (Dio non voglia!) che per una morte improvvisa dovessimo lasciare questa terra non battezzati, anche se saremo ricolmi di ogni virtù, il nostro destino non potrà che essere l’inferno e il verme velenoso e il fuoco inestinguibile e catene indissolubili” (cit. in Ehrman, 2020).
All’apogeo di quella grande costruzione sociale occidentale che fu la Cristianità, nemmeno la morte assicurava la fine di ogni preoccupazione per il “caro estinto”. In virtù della “comunione dei santi” – lo stretto legame che, secondo la teologia cattolica, esiste tra i vivi e i morti – la preghiera per chiedere l’intercessione dei santi a favore delle anime dei defunti, spesso attraverso messe in suffragio, serviva ad abbreviare il periodo di penitenza nel Purgatorio, dove si riteneva che finisse la maggior parte delle anime (i dannati, va da sé, finiscono all’inferno, soprattutto se sono morti senza essersi potuti pentire, da cui la paura di una morte improvvisa; i santi, che finiscono direttamente in paradiso, sono obiettivamente pochi).
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L’alleanza deflazionista
di Yakov Feygin*
Pubblichiamo un’analisi sulla coalizione deflazionista scritta da Yakov Feygin, già ricercatore ad Harvard, e originariamente pubblicata sul sito “Phenomenal World”
Un modo efficace per scrivere la storia degli ultimi trent’anni del ventesimo secolo”, scrisse l’economista Albert Hirschman nel 1985,”potrebbe essere quello di concentrarsi sulle reazioni distintive dei vari paesi al medesimo problema dell’inflazione mondiale“. Dal momento che stava scrivendo proprio mentre la “grande inflazione” globale degli anni ’70 era in fase calante, Hirschman non poteva prevedere quanto avesse ragione.
Come ha scritto recentemente Claudia Sahm sul New York Times, la paura della grande inflazione degli anni ’70 domina ancora il pensiero della Federal Reserve, anche se i suoi recenti messaggi fanno presagire che il vento stia cambiando. In commenti recenti, l’avvertimento di Larry Summers che gli assegni da duemila dollari avrebbero fatto sì che l’economia si surriscaldasse eccessivamente così da generare inflazione ha tradito una cecità decennale sull’argomento.
Gli economisti non hanno una buona comprensione di ciò che causa l’inflazione. Nei programmi introduttivi dei corsi di macroeconomia, il mantra di Milton Friedman “l’inflazione è sempre un fenomeno monetario” rimane centrale: con questa affermazione, Friedman intende che un’eccessiva crescita dei prezzi avviene quando uno Stato allenta le proprie politiche sull’offerta di moneta, espandendo così la base monetaria. Recenti ricerche hanno però messo in discussione questa popolare dottrina.
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Ricordo di Domenico Mario Nuti
di Joseph Halevi
Il 22 dicembre del 2020 è venuto a mancare Domenico Mario Nuti, Professore di economia (in pensione dal 2010) all’Università La Sapienza di Roma. Si tratta di una perdita profonda che lascia un grande vuoto. Ho conosciuto Mario Nuti agli inizi degli anni Settanta in Gran Bretagna, incontrandolo più tardi a Fiesole quando era Professore presso l’Istituto Universitario Europeo. Fu Nuti a caldeggiare come referente ufficiale, assieme a Paolo Sylos Labini, la mia candidatura ed assunzione presso la facoltà di economia dell’Università di Sydney che avvenne alla fine di quella stessa decade. Il mio personale ricordo é di grande stima ed affetto, malgrado la lontananza e la diversità nella natura degli impegni avessero diluito fino ad annullarla la frequentazione reciproca. E’ nello spirito della profonda ammirazione ed affetto che nutro per Mario Nuti che presento le note che seguono.
Nuti nacque ad Arezzo il 16 agosto del 1937 e nel 1962 si laureò in giurisprudenza alla Sapienza, allora ancora chiamata Università degli Studi di Roma. Il resto dell’anno ed il 1963 lo passò a Varsavia come fellow dell’Accademia delle Scienze polacca studiando con Michal Kalecki ed Oskar Lange, due personalità cruciali del pensiero economico in generale e di quello marxista e della pianificazione socialista in particolare. Da Varsavia si trasferì a Cambridge ove nel 1970 ottenne il Ph.D. in economia con Maurice Dobb, un’altra figura di primissimo piano per le teorie economiche di matrice marxiana ed anche per l’elaborazione di criteri di pianificazione in condizioni di emancipazione dal sottosviluppo, e con Nicholas Kaldor, il fondatore della teoria della crescita post-keynesiana.
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Su di noi e sugli interventi di Formenti e Visalli
di Riccardo Bernini
La prima questione posta a dibattito pare essere se reputare chiusa o ancora aperta la “fase politica” sulla quale ND è stata poggiata. Con quel che ne consegue.
In cosa consisteva questa “fase politica”?
A connotarla non credo fosse solo il manifestarsi in Italia di populismo e sovranismo, attraverso M5S e Lega, quali “contenitori dell’ira” dei variegati “ceti medi”.
In ballo era la crisi della rappresentazione politico-istituzionale della seconda Repubblica, una gabbia che chiudeva e chiude nel dominio totalitario neo-liberale l’alternarsi al governo di destra e sinistra. O, ancora più radicalmente, una crisi che segnava lo scollamento tra questa rappresentazione e la società, nel più complessivo divergere dalla democrazia del liberalismo.
Prima di officiare pubbliche esequie al M5S, visti i sommovimenti interni, attenderei un attimo. Almeno il tempo dell’autopsia a corpo freddo.
Trovo altresì che le manovre che hanno portato al governo Draghi abbiano confermato la tendenza allo scollamento dalla società delle “alternanze prive di alternativa”, proprio nel momento in cui da destra a sinistra gli viene garantita una maggioranza parlamentare ben superiore al credito concesso dall’opinione pubblica.
La procurata impotenza della democrazia istituzionale italiana della seconda Repubblica, subalterna e de-sovranizzata dalla globalizzazione nell’ordine euro-occidentale, vero motivo del distacco dalla società, ritorna a motivo della sua esautorazione, coprendone l’origine e le responsabilità.
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La crisi di governo come spettacolo
di Fabio Ciabatti
La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del solito teatrino della politica si tratta, perché puntare ossessivamente i riflettori su questi attori di serie B? In realtà quello che è andato in scena con la complicità di giornali, televisioni e media digitali non è tanto una rappresentazione teatrale di pessima fattura quanto un vero e proprio spettacolo, nel senso che a questo termine attribuiva Debord.
“Lo spettacolo – sostiene il padre del situazionismo – riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”.1 Per quel che qui ci interessa possiamo sostenere che lo spettacolo della crisi di governo ha riunificato, a suo modo, la sfera politica e quella economica; la prima intesa come l’istanza che si presume possa garantire l’interesse generale e la coesione complessiva di una società, la seconda come l’ambito in cui i singoli capitali organizzano la produzione finalizzata al perseguimento del profitto.
A questo proposito chiediamo un po’ di pazienza perché vorremmo ribadire, come si sarebbe detto un tempo, alcune banalità di base. E ci piace farlo, a mo’ di omaggio, attraverso un testo di qualche anno fa di Ellen Meiksins Wood, importante esponente del marxismo politico, scomparsa nel gennaio di cinque anni fa.2
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Il governo dei Giavazzi
di Lorenzo Zamponi
La nomina dell'economista liberista come consigliere a Palazzo Chigi getta le ombre del passato sulla riconversione ecologica promessa da Mario Draghi
Una restaurazione, senza neanche passare per la rivoluzione. È difficile non pensarla in questi termini, di fronte all’ipotesi, riportata da molti organi di stampa, che sia Francesco Giavazzi a sostituire Mariana Mazzucato, teorica dello «stato imprenditore» e di un nuovo modello keynesiano nell’innovazione, nel ruolo di consigliere economico della Presidenza del Consiglio. Sarebbe il quarto incarico governativo a nostra memoria per il professore della Bocconi: dirigente del Ministero del Tesoro tra il 1992 e il 1994, a occuparsi di privatizzazioni, poi consigliere economico di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi quando quest’ultimo era definito da Guido Rossi «l’unica merchant bank in cui non si parla inglese», tra il 1998 e il 2000, e infine consulente di Mario Monti per la spending review nel 2012. Anni meravigliosi, in cui sono state poste le fondamenta dell’economia pubblica italiana come la conosciamo ora.
Un suo ritorno a Palazzo Chigi, già anticipato, del resto, dall’utilizzo di frasi intere tratte da un suo editoriale dello scorso anno nel discorso con cui il presidente del consiglio Mario Draghi ha chiesto la fiducia alle camere, sarebbe un segnale molto netto dell’impostazione ideologica che Draghi intende dare al proprio governo. Dopo settimane di chiacchiere su keynesismo e liberalsocialismo e di stucchevoli riferimenti a Federico Caffè come «maestro» del presidente del consiglio, a prevalere nell’organigramma dell’esecutivo sarebbe una scuola nettamente diversa.
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Una teoria della storia come macchina del tempo
di McKenzie Wark
Pubblichiamo un estratto dal nostro prossimo libro, Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire di McKenzie Wark
Non sappiamo più cosa sia il socialismo, o come ottenerlo,
eppure resta il nostro obiettivo.
Deng Xiaoping
Mettiamo che hai una macchina del tempo. Diciamo che la fai viaggiare fino a tornare alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Una volta a destinazione, ne esci fuori e vai alla ricerca delle persone che, a quei tempi, erano importanti. Spieghi loro alcune cose di quanto sta succedendo nel XXI secolo. Alcune delle storie che racconti per alcune di queste persone hanno senso, altre sembrano del tutto folli.
Per esempio, mettiamo che la macchina del tempo ti abbia portato nella Cina della metà degli anni Settanta, e ti trovi a spiegare che, entro la fine del secondo decennio del secolo successivo, il destino dei mercati globali sarà nelle mani del Partito Comunista Cinese. Suonerebbe abbastanza folle. Tra la metà e la fine degli anni Settanta, la Cina ha visto la caduta della Banda dei Quattro, il maoismo all’acqua di rose di Hua Guogeng e, infine, l’ascesa al potere di Deng Xiaoping. Ma persino allora la Cina attuale sarebbe stata inimmaginabile per chiunque – tranne che per Deng Xiaoping.
Se viaggiassi con la macchina del tempo fino all’Unione Sovietica della metà degli anni Settanta, le reazioni sarebbero più diverse. Leonid Brežnev è al potere da più di dieci anni, e sembra che lo sarà per sempre. Le guerre per procura non vanno poi così male, visti i buoni risultati in Angola e la vittoria schiacciante in Vietnam, almeno fino all’invasione sovietica dell’Afganistan nel 1979.
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I conti che non tornano della pandemia. Un dibattito in corso
di Silvia D’Autilia
Il senso di possibile può essere definito come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, senza considerare ciò che è più importante di ciò che non è.
(R. Musil – L’uomo senza qualità)
Prologo
Qualche settimana fa, con il titolo “Non indispensabili allo sforzo critico del paese”, Andrea Muni firmava qui su Charta Sporca un pezzo sull’immiserimento del dibattito nell’ambito della presente emergenza sanitaria. Terminava la sua riflessione con una richiesta, diciamo un desiderio, quello di poter approfondire il tema con altre persone con le quali discutere cos’abbia prodotto e accelerato questa mancanza di approfondimento rispetto alle trasformazioni da cui siamo stati interessati.
Un punto di partenza
C’è una parola che fin dalla seconda riga riassume bene il succo dell’intero testo: estraneità. È quel senso di non-appartenenza a un clima politico, culturale e mediatico che nel raccontare una realtà già di per sé onerosa, ne svilisce l’ampiezza e la complessità. È un vento gelido di approssimazione, che per non curarsi capillarmente dei dettagli, preferisce amputarli, asfaltarli dietro etichette, minimizzazioni e griglie dicotomiche per cui se da una parte ci sono i responsabili benpensanti, dall’altra ci sono evidentemente gli stolti.
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La «cura», il «lavoro di cura», l’odio di classe
di Elisabetta Teghil
I nostri avversari sono gli avversari dell’umanità. Non è vero che abbiano “ragione dal loro punto di vista”: il torto sta nel loro punto di vista. Forse è inevitabile che siano così, ma non è necessario che esistano. E’ comprensibile che si difendano, ma essi difendono preda e privilegi, e comprendere in questo caso non deve significare perdonare.
Bertolt Brecht
Nel contesto attuale di emergenza attuata per la così detta pandemia c’è un discorso che rimbalza in varie accezioni su testate giornalistiche, in interpellanze parlamentari, in articoli di opinione, in prese di posizione politiche negli ambiti più diversi. E’ quello della <cura>.
Si dice che abbiamo perso di vista un aspetto molto importante della vita cioè il prendersi cura del pianeta in cui viviamo, degli altri, dei più fragili,della società nel suo complesso e di noi stesse/i e che quindi abbiamo trascurato le cose che contano. Chi ha trascurato cosa? E che noi donne che siamo particolarmente attrezzate e sensibili alla cura degli altri dovremmo essere considerate con particolare attenzione, gratificate, anche economicamente, e prese come esempio.
Note di premessa
Il lavoro di cura è quel carico di lavoro quotidiano, ininterrotto ed estorto gratuitamente che il sistema patriarcale e capitalista, in questo momento neoliberista, pretende dalle donne e che viene “naturalizzato” come congeniale al genere femminile.
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Interpretare Bordiga
recensione di Alessandro Mantovani
Sul libro di Pietro Basso: Bordiga. Una presentazione, ed. Punto Rosso, 2021
“In Italia sono più tenaci di quanto non si creda certi motivi del primo internazionalismo”. (A. Viglongo, Bordiga impolitico “La rivoluzione Liberale”, n. 33, 30 ottobre 1923
Son passati più di cinquant’anni dalla sua morte, ma parlare di Bordiga è ancora difficile. Certo, le assurde falsificazioni stalinistiche che ne facevano un controrivoluzionario quando non una pedina del fascismo, sono ormai finite nella discarica della storia; coperte da una coltre di vergogna sono anche le ricostruzioni in salsa togliattiana che lo rimuovevano, in favore di Gramsci, dal ruolo di primo piano avuto nella fondazione e direzione del Partito comunista d’Italia dal 1921 al 1923. Continua però a godere di “cattiva stampa”, e la maggior parte di chi ne parla – per lo più senza conoscerlo o conoscendolo molto poco – ripete, sotto il manto dell’autorità di Lenin e Trotzky, il mantra del Bordiga dottrinario e settario. L’intento sottaciuto di tali accuse è quasi sempre quello di giustificare le più ardite piroette politiche odierne, lo scomporsi e ricomporsi di alleanze puramente strumentali ed elettoralistiche, contrabbandate come attuali applicazioni del fronte unico e via cantando.
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Esistono scenari alternativi allo stato di cose presente?
Dieci autori cercano di rispondere
di Carlo Formenti
Qui di seguito anticipo la mia Introduzione al volume collettaneo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro", che sarà in libreria il prossimo 11 marzo per i tipi di Meltemi
Il progetto di questo libro è nato nell’autunno del 2019 da uno scambio di idee fra Pierluigi Fagan, Piero Pagliani e il sottoscritto. Fagan ci ha segnalato La grande regressione, un volume collettaneo del 2017 a cura di Heinrich Geiselberger (pubblicato in italiano da Feltrinelli) che raccoglieva 14 interventi di vari autori (fra cui Arjun Appadurai, Zygmunt Bauman, Nancy Fraser, Bruno Latour e Slavoj Zizek) invitati a fare il punto sullo “stato del mondo” dopo le crisi che lo hanno investito dall’inizio del nuovo millennio. Per quanto interessante, questa rassegna ha un limite: tutti i contributi analizzano da diversi punti di vista la crisi, ma senza prospettare possibili vie d’uscita, quasi gli autori si limitassero a ripetere il detto di Gramsci che recita “il vecchio muore ma il nuovo non può ancora nascere”. Perciò ci siamo chiesti perché non compiere un passo ulteriore, immaginando possibili scenari alternativi allo stato di cose presente, senza scadere in sterili esercizi di futurologia. Dopodiché abbiamo iniziato a cercare interlocutori disposti a condividere il rischio dell’impresa.
Tradurre quella suggestione nel prodotto editoriale che avete in mano non è stato compito banale. La pandemia del Covid19 ha reso più complicato trovare compagni di avventura e distribuirci gli argomenti da affrontare, ma soprattutto ha rallentato lo scambio di idee e informazioni nel corso della stesura dei contributi, obbligandoci a interagire esclusivamente attraverso i canali virtuali.
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Smith e Marx sono davvero così diversi?
di Alessandro Guerriero
Questo articolo vuole evidenziare le similitudini presenti tra l’analisi di Smith e quella di Marx sull’origine del profitto, due autori spesso ritenuti molto distanti tra loro e dunque raramente confrontati
Nei passi delle loro due opere principali, ovvero “La Ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith e “Il Capitale” di Karl Marx, è possibile invece trovare delle somiglianze. Questo alla luce del fatto che Marx si basa sulla teoria del valore-lavoro, che è presente già in Smith circa cento anni prima.
Una delle possibili similitudini attiene al profitto: Marx nel primo libro del capitale vuole svelare quello che gli economisti classici (leggi Smith e Ricardo) non avevano spiegato, ossia quale sia l’origine del profitto.
Secondo Marx la risposta si trova nel fatto che in una società capitalistica, poiché i mezzi di produzione sono nelle mani dei capitalisti, il lavoratore deve vendere la propria forza lavoro per avere in cambio un salario. Quest’ultima dunque si trasforma in una merce che si scambia sul mercato (per forza lavoro si intende la capacità astratta di ogni persona nel lavorare).
Semplificando, nella società moderna ogni lavoratore è obbligato a lavorare per avere un salario e quindi vende la sua forza-lavoro, che diventa infine una merce scambiata al suo prezzo naturale, ovvero il salario.
Per esempio, una merce comune potrebbe essere un orologio: generalizzando, l’orologiaio vende la sua merce, ovvero l’orologio, a 100 euro. La stessa cosa fa il lavoratore, che vende la sua merce, ovvero la forza lavoro, ad una cifra pari al suo salario.
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Se siamo una "classe" di pazienti
di Andrea Sartori
Quello di classe è il concetto di cui il pensiero filosofico e sociale contemporaneo è orfano. La lotta contro lo sfruttamento del lavoro e la sofferenza (pàthos, in greco) che tale sfruttamento provoca, infatti, non è più condotta in nome d’una classe di lavoratori in relazione dialettica o antagonistica con il capitale, ma in nome d’un diritto civile alla giustizia sociale, declinata nei suoi vari aspetti. Il miglioramento delle condizioni economico-sociali è posto sullo stesso piano del diritto a un equo trattamento di genere e alla non-discriminazione su base etnica, religiosa, culturale. Il problema del lavoro e l’appartenenza di classe perdono pertanto la loro connotazione marxista e confluiscono nel variegato alveo delle identità influenzate da più o meno distorte relazioni sociali e di dominio. Ognuna di queste identità è da rivendicare a proprio modo, data l’assenza per esse d’una cornice concettuale comune. In altri termini, non v’è – o non vi sarebbe – un ambito economico sottostante a condizionare quelle identità: identità dei propri corpi e delle proprie tradizioni culturali, identità religiose e identità legate a uno specifico gruppo sociale o etnico storicamente sottoprivilegiato e negletto dalle istituzioni.
È tuttavia lecito chiedersi se la coppia lavoro/capitale davvero non svolga più alcun ruolo di primo piano nel determinare le condizioni di vita di ciascuno. A quest’interrogativo si potrebbe legare un altro quesito: la nozione tecnico-operativa e sociologicamente delimitata di classe è scomparsa perché ha perso importanza o perché, all’opposto, se ne è inflazionato a dismisura il significato, al punto da renderlo non più circoscrivibile, e pertanto invisibile per eccesso (e non per mancanza) di diffusione?
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Nell’inferno del saccheggio africano
di Michele Castaldo
L’uccisione nella Repubblica Democratica del Congo dell’ambasciatore italiano e del carabiniere che gli faceva da scorta offre l’occasione per riflettere su quello che è un vero e proprio inferno causato dalle potenze coloniali in quel continente in una fase di crisi, come quella attuale, del moto-modo di produzione capitalistico, aggravata per di più dalla pandemia del Covid-19.
Ovviamente si sprecano da una parte le parole di riprovazione e di orrore nei confronti dei responsabili del fatto di sangue, mentre dalla parte opposta si sprecano gli elogi per le qualità delle due vittime cadute nell’imboscata in quel paese. E il popolo “beve”. Passano pochi giorni e tutto si dimentica, tutto riprende come prima. Eppure
tutti quelli che devono sapere sanno, ma tutti fingono di non sapere. Tutti conoscono la verità, ovvero gli interessi da cui sono mosse determinate strutture statali e/o umanitarie, ma tutti mentono spudoratamente sapendo di mentire. Eppure la verità è talmente evidente in certi ambienti che nel darne notizia – come nel caso del telegiornale delle 20 de La7, il suo direttore Mentana dice due cose in netto contrasto fra loro: « Diamo notizia del tremendo fatto di sangue avvenuto nel Congo, un paese poverissimo », per poi proseguire affermando, poche parole dopo: « una nazione ricchissima di materie prime di importanza strategica ». Una realtà talmente forte che, come la tosse, non può essere contenuta e fuoriesce dalle labbra di un noto asservito al potere del capitale.
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I cicli economici in Minsky
I. La lettura di Keynes di Minsky
di Bollettino Culturale
Introduzione
Hyman Philip Minsky (1919-1996) è stato uno dei principali specialisti in teoria monetaria e finanziaria nella seconda metà del XX secolo. Ha formulato la sua ipotesi di instabilità finanziaria (d'ora in poi, IIF), mostrando che le economie capitaliste in espansione sono intrinsecamente instabili e inclini alle crisi, quindi, la sua ipotesi contribuisce anche alla spiegazione dei cicli economici.
Se Schumpeter sviluppa la sua analisi dei cicli economici basandosi sulle innovazioni nei mercati dei prodotti non finanziari, Minsky, a sua volta, elabora la sua interpretazione dei cicli sulla base delle innovazioni derivanti dalle dinamiche dei fenomeni monetari presenti nelle economie capitaliste finanziariamente sofisticate. Il principio centrale dell'organizzazione della sua teoria si basa sul già citato IIF, su cui si basa il paradigma di Wall Street, il cui significato racchiude la pietra angolare di tutta la sua analisi: il primato e l'assoluta centralità delle relazioni finanziarie sulla comprensione di qualsiasi fenomeno in un'economia capitalista finanziariamente sofisticata.
Minsky ha contribuito a:
a) un'interpretazione “finanziaria” della Teoria Generale e una critica della sua interpretazione convenzionale;
b) un contributo teorico fondamentale, l'ipotesi di instabilità finanziaria e altre sussidiarie, come la sua teoria dell'inflazione;
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‘Il capitale disumano’. Ritratto di un tecnocrate, dal faceto al serio
di Alba Vastano
Draghi è oggi il premier eletto con standing ovation finale, perché tutto il sistema parlamentare odierno è conforme alle politiche neoliberiste europee di cui Draghi è il simbolo e l’esecutore. Per comprendere qual è il compito di un tecnocrate dell’austerity, basterebbe fare riferimento ad una letterina che ci arrivò il 5 agosto 2011. Ripercorrere la sua escalation nel mondo dell’alta finanza europea e l’esecuzione capitale avvenuta sugli Stati nazionali, svelando la sua vera natura di strangolatore di popoli, è un atto di chiarezza e di onestà
Via Conte. Habemus Mario Draghi al governo. I suoi ormai fedelissimi estimatori dal centro destra al centrosinistra sostengono che, da super esperto qual è, sia l’uomo che saprà risolvere in breve i tanti guai derivanti da anni di crisi dovuta all’incompetenza dei governanti precedenti. Sono in molti, infatti, nelle fila dei partiti parlamentari, a fidarsi delle competenze di alto spessore del banchiere dell’Ue. Tranne una piccola frangia di occasionali dissidenti, tutte le forze parlamentari sono entrate a far parte del bacino delle larghe intese, realizzando un’anomalia governativa che fino a ieri sembrava impossibile. Ebbene, grazie alla nuova accozzaglia politica di centro destra e centrosinistra, i fini matematici, con l’occasione, sono riusciti a superare l’impossibile fino ad oggi: sommare le pere con le mele.
Tutti a festeggiare la bizantina intesa e a magnificare sua eccellenza, mister Europe, dimenticando le beghe pubbliche da osteria, di cui sono stati attori protagonisti fino a ieri e a cui ormai eravamo, da spettatori inermi, avvezzi e quasi rassegnati. Perché le continue schermaglie parlamentari movimentavano, a volte spassosamente, le nostre giornate, specie in questi tempi spenti di pandemia, in cui l’informazione mainstream ha impennate notevoli nello share televisivo.
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La ristrutturazione capitalistica europea passa per la scuola
di Rete dei comunisti
È finita l’era dei supplenti al Ministero dell’Istruzione
La nomina di un economista a capo del Ministero dell’Istruzione è solo l’ultimo e conseguente passo del cambio di rotta che si è impresso alla direzione dell’istruzione nel capitalismo maturo, che data almeno dal Rapporto Faure del 1972, ossia da quando si cerca di conglobare l’istruzione direttamente nella sfera economica, per rispondere a quella crisi economica che abbiamo definito sistemica che inizia negli stessi anni.
In Europa i destini dell’istruzione sono stati affidati da un trentennio agli organi decisionali della UE, i quali con le loro “raccomandazioni” hanno guidato i ministeri dell’educazione dei paesi membri. Da questo punto di vista, lo abbiamo ribadito più volte, tra i ministri italiani non c’è fondamentale differenza, e il loro colore politico è soltanto un fatto superficiale (tolto il fatto che quelli di centrosinistra sono più zelanti degli altri).
I ministri dell’istruzione italiani degli ultimi decenni sono passati dall’essere degli accademici e/o politici come i democristiani Mattarella, Russo Jervolino, Bianco, ai “sinistri” Luigi Berlinguer (docente di diritto e rettore dell’Università di Siena) a accademici umanisti come Tullio De Mauro, per giungere a gente priva di “competenze” come la Gelmini, la Moratti, o debolissime come la ministra Azzolina. In mezzo, una pletora di ministri più o meno inutili o dal peso specifico pari a zero in termini di “progetto politico”.
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Rinascimento cyberpunk: da Neuromante a Mr. Robot
di Giovanni De Matteo
Ricognizione sul genere alla luce dei classici ristampati in “Cyberpunk” e della serie Mr. Robot
In principio era il cowboy della consolle. L’hacker, il pirata del cyberspazio, lo scorridore dell’interfaccia.
La sua comparsa in letteratura è graduale e comincia a prendere forma dalla metà degli anni Settanta, prima con Rete globale di John Brunner (1975) e pochi anni dopo con Vernor Vinge e Il vero nome (1981), che già preludono agli sviluppi successivi ma, come i loro protagonisti assillati dall’anonimato e dalla copertura delle rispettive identità, sono ancora delle ombre vagamente delineate. L’irruzione formale del nuovo protagonista sulla scena della fantascienza si ha all’inizio degli anni Ottanta, grazie ai racconti di William Gibson Johnny Mnemonico (1981) e soprattutto La notte che bruciammo Chrome (1982), e poi a un romanzo di culto, che ne riprende le premesse e le spinge alle estreme conseguenze, segnando uno spartiacque nella storia della fantascienza (e non solo).
“Case aveva ventiquattro anni. A ventidue era un cowboy, un pirata del software, uno dei più bravi nello Sprawl. Era stato addestrato dai migliori in assoluto, da McCoy Pauley e Bobby Quine, leggende del ramo. Aveva operato in un trip quasi permanente di adrenalina, un effetto collaterale della giovinezza e dell’efficienza, collegato a un deck da cyberspazio su misura che proiettava la sua coscienza disincarnata in un’allucinazione consensuale: la matrice. Ladro, aveva lavorato per altri ladri più ricchi, che gli avevano fornito l’arcano software per penetrare le brillanti difese innalzate dalle reti delle multinazionali, per aprirsi un varco in banche-dati pressoché sterminate”
(Gibson, 2021).
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La Cina contemporanea, erede principale dell’Ottobre Rosso e del bolscevismo
Per il centesimo anniversario del partito comunista cinese
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Quale tipo di eredità politica lascia e proietta fino ai nostri giorni l’epocale rivoluzione bolscevica del 1917, l’eroico “assalto al cielo” condotto con successo un secolo fa dagli operai e contadini dell’ex impero zarista, diretti dal partito di Lenin?
Dove si cristallizza concretamente l’attualità politico-sociale e il significato odierno, vivo e contemporaneo della Rivoluzione d’Ottobre?
Si tratta di una domanda semplice che trova una risposta politico-teorica altrettanto chiara, anche se sgradita e indigesta per larga parte della sinistra antagonista italiana, affetta sia da una prolungata impotenza politica di tipo anarcoide che da un puerile eurocentrismo: l’erede principale dell’Ottobre Rosso, all’inizio del terzo millennio, è costituito dalla Cina prevalentemente socialista dei nostri giorni.
Si è ormai attuata proprio quella scissione epocale tra “Oriente avanzato” (avanzato sul piano politico-sociale, e ai nostri giorni anche in campo tecnologico-produttivo) e “Occidente arretrato” (arretrato e reazionario sul piano politico-sociale) che Lenin aveva previsto, in modo geniale e provocatorio, fin dal maggio 1913 in un suo splendido articolo dal titolo omonimo e pubblicato sulla Pravda, scritto che il cosiddetto marxismo occidentale, da Otto Bauer fino ad arrivare a Toni Negri e a Žižek, evita come la peste bubbonica.
Certo, la sedimentazione concreta che rimane ancora oggi della rivoluzione bolscevica si rivela e si mostra anche nella memoria collettiva favorevole rispetto ad essa che è emersa di recente all’interno dalla coscienza di milioni di operai, contadini e intellettuali di sinistra di tutto il mondo, a partire ovviamente dal gigantesco continente-Russia.
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Alcune note sul discorso di fiducia di Mario Draghi al Senato
di Alessandro Visalli
Siamo davanti a tempi davvero complessi. Tempi nei quali ci si divide, e giustamente.
A volte solo perché si era già divisi e si era giunti ad un crocicchio nel quale sembrava di stare insieme, ma provenendo da sentieri diversi. Un attimo si era stati nello stesso posto, ma, in effetti, la traiettoria era diversa. Ognuno aveva una sua dinamica.
Altre volte si era nello stesso posto e tempo perché, ad un certo grado, si condivideva un’urgenza primaria, ma questa, al cambiare del contesto necessariamente si dissolve repentinamente. I fatti impongono infatti sempre nuovi ordinamenti, e ci si scopre diversi. Improvvisamente l’amico diviene avversario.
Uno dei termini di maggiore divisione è il giudizio sul governo che si presenta, dichiarandosi necessario.
Capita allora che un discorso[1] per certi versi mediocre, piuttosto banale (ma non privo di chiarezza, a suo modo, di una sua scolastica), nell’articolo[2] di Carlo Galli diventa “concreto e di alto respiro”. Oppure è il senso dell’urgenza e della priorità che fa dire[3] a Mario Tronti che c’è “nientedimeno” che da ridisegnare i confini della divisione dei poteri e si è in presenza di un mutamento di clima politico che rende possibile l’elezione di un capo dello Stato “di sicura garanzia”.
Ovunque, insomma, nelle diverse parti ed anime della borghesia italiana, si respira un clima di sollievo: l’ubriacatura del 2018 si può archiviare, le plebi possono essere ricacciate nei piani bassi dai quali avevano rumorosamente cercato di risalire. Finalmente!
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Stretti tra Popper e Voltaire: il vicolo cieco del liberalismo
di V. Siracusano Raffa
I sostenitori del ban a Trump saranno in qualche modo consapevoli del paradosso della tolleranza: teorizzata da Karl Popper, tale situazione apparentemente senza via d’uscita è data dal fatto che una società tollerante è destinata ad essere travolta dagli intolleranti al suo interno, per cui è necessario che si dimostri intollerante nei loro riguardi. Una posizione un po’ più complessa è forse quella del filosofo Rawls, per il quale la società giusta deve tollerare gli intolleranti e limitarli solo nella misura in cui i tolleranti temono per la sicurezza loro e del sistema nel suo complesso. Dall’altra parte ci sono i voltairiani della domenica, che spesso citano il filosofo illuminista a sproposito perché la ormai celebre frase “non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo” è apocrifa, in quanto se ne trova traccia solo nella biografia redatta da Evelyne Beatrice Hall sotto pseudonimo, che la mise tra virgolette per errore. Tale posizione comunque implica che non si possa limitare l’espressione altrui, qualunque siano le conseguenze.Tra questi due estremi spesso si naviga a vista, e il soggetto coinvolto e le circostanze specifiche hanno un ruolo non trascurabile nel determinare i termini della questione. Nel frattempo, con l’avvento di internet sembra che la libertà di espressione possa raggiungere nuove vette, e contemporaneamente si avverte la necessità di mettere dei paletti affinché il diritto di tutti ad esprimersi liberamente non leda altri diritti. Internet va regolamentato? Di certo il tecnoentusiasmo secondo cui la rete, democratica ed immensamente libera, ci avrebbe a sua volta liberato si è dimostrata un’ingenua utopia.
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La società, lo stato, il capitalismo del futuro
Gianni Saporetti intervista Salvatore Biasco
La pandemia ci ha fatto ripensare al ruolo dello stato come protagonista dell’organizzazione sia della società che della produzione; il rinnovo della macchina amministrativa mai attuato e i tanti punti su cui intervenire, con la partecipazione dei cittadini, dalla sanità, all’habitat, alla scuola, ai giovani; le disuguaglianze da combattere e la possibilità di condizionare il capitalismo a partire dal problema ambientale, ma non solo. Intervista a Salvatore Biasco, economista, già professore ordinario alla Università La Sapienza di Roma, ha ricevuto diversi riconoscimenti in campo accademico e culturale ed è presente nel dibattito pubblico con saggi in vari campi raccolti nel suo sito www.salvatore-biasco.it.
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Vorremmo parlare del Recovery Plan e di questa cifra stratosferica su cui tutti stanno almanaccando. Come interpreti ciò che sta succedendo? Tu cosa pensi che sarebbe giusto fare?
Mah, interpretare quel che succede con categorie politiche è un azzardo, anche perché dai tempi di Bertinotti abbiamo imparato che, ad di là di ciò che è scritto nei trattati di politologia, esiste anche l’elemento follia (e avventurismo) nella politica.
Possiamo invece dire qualcosa su ciò che oggi sarebbe desiderabile accadesse riguardo al Recovery Plan (noi continuiamo a chiamarlo così, ma in realtà si chiama Piano per la Nuova Generazione, Next Generation Plan). Sarebbe bene tener presente la sua destinazione. Quel che è certo è che siamo in un momento in cui bisogna prendere una strada o l’altra, dare una direzione al futuro del paese.
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