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C’è vita su Marx? Cronache MarXZiane n. 1
di Giorgio Gattei
Per il diritto d’autore: devo il titolo di questa prima parte delle “Cronache marxziane” a Riccardo Bellofiore che l’ha posto (perchè ispirato dalla canzone di David Bowie “Life on Mars”?) in testa alla sua introduzione a Marx inattuale (Edizioni Efesto, Roma, 2019). Ma quel titolo è finito lì, che lo svolgimento successivo è stato di tutt’altro tenore, mentre io l’ho preso sul serio e quindi….
1. Come il pianeta Nettuno nel Sistema solare, anche il pianeta Marx è stato individuato nella Costellazione dell’Economia inizialmente solo per via speculativa a seguito di una discrepanza, inspiegabile nella traiettoria del valore rispetto ad ogni altro corpo economico già conosciuto, che lasciava intendere che in quello spazio di cielo dovesse esserci presenza di qualcosa di anomalo, anche se al momento non individuabile. E’ stata questa la grande intuizione dell’astronomo britannico Adam Smith, peraltro autore di una Storia dell’astronomia pubblicata postuma in cui teorizzava che «un sistema di pensiero è una macchina immaginativa inventata per collegare nell’immaginazione i vari movimenti ed effetti che nella realtà già si compiono». Per questo nella Ricchezza delle stelle (1776) egli aveva mostrato come ci fosse nel cielo un luogo economico in cui il valore delle merci misurato come “lavoro contenuto” (V = L) non coincideva più con la misura in “lavoro comandato” (o Salario: V = Lw), come invece avrebbe dovuto essere, essendo questo dovuto al semplice fatto che il salario unitario w pagato per ogni ora di lavoro L doveva risultare minore di 1, così che Lw < L. Ciò lo giustificava perché, mentre nello “stadio naturale” dell’economia (ossia dovunque) «tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore,.. non appena il capitale si è accumulato nelle mani di persone singole, alcune di loro naturalmente lo impiegheranno nel mettere al lavoro uomini operosi», a cui pagheranno un salario tale per cui «il valore che gli operai aggiungono ai materiali si dividerà in due parti, di cui una paga il loro salario e l’altra i profitti di chi li impiega». Ed era una anomalia inaspettata nell’ordine dei sistemi economici, con l’effetto che «nel prezzo delle merci i profitti costituiscono una componente del tutto diversa dai salari del lavoro e regolata da principi del tutto diversi». Sì, ma quali?
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Il prometeismo rosso da Weishaupt a Stalin
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Capitolo 10 tratto dal libro Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?
Dopo Campanella, Adam Weishaupt (1748-1830) diede nuovo vigore sul piano teorico al titanismo di matrice cooperativa.
Attorno al 1776 il giovane Weishaupt, infatti, formò, nello stato clericale della Baviera la setta segreta degli “Illuminati di Baviera”; al pari delle organizzazioni massoniche, essa aveva una rigida gerarchia interna mediante la creazione di diversi livelli di adesione, sotto la guida indiscussa di Weishaupt, ma a differenza di quasi tutte le altre associazioni laiche e anticlericali di quel periodo il suo principale promotore espresse inequivocabili tendenze allo stesso tempo prometeiche e comuniste, formando la matrice per una dinamica di sviluppo degli Illuminati che rimase invariata per quasi un decennio, prima della stretta repressiva contro l’organizzazione avviata nel 1787 da parte degli apparati di repressione bavarese.
Il creativo Weishaupt, che non a caso all’interno dell’organizzazione aveva preso l’eroica denominazione glorioso di Spartacus, manifestò chiaramente ai seguaci più stretti le due finalità principali degli Illuminati.
Se all’inizio il leader si limitò solo ad avviare un’azione capillare di diffusione delle opere e libri dell’illuminismo, visto che la Baviera proibiva gran parte di tali scritti, in realtà il pensiero panteista di Adam Weishaupt era molto più profondo e sosteneva che “ogni uomo capace di trovare in se stesso la Luce interiore… diventa uguale a Gesù, ossia Uomo-Re…”. Infatti l’insegnamento segreto che veniva impartito agli adepti asseriva che “… tutte le religioni si fondano sull’impostura e le chimere, che tutte finiscono per rendere l’uomo debole, strisciante e superstizioso, che tutto, nel mondo, è materia e che Dio e il mondo non sono che un’unica cosa”.
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Guy Debord lettore di Hegel. La nottola di Minerva che scruta lo spettacolo
di Afshin Kaveh
A prescindere dai concetti e dalle categorie hegeliane in sé, la figura di Hegel è citata più volte nelle tesi di La società dello spettacolo tanto che sorprende che, ancora oggi, non si riesca a cogliere l’influenza esercitata su Debord da Hegel
Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata;
e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere;
la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto
In una lettera del 10 aprile 1969 alla sezione italiana dell’Internazionale Situazionista[1], indirizzata in particolar modo alla figura di Paolo Salvadori, Guy Debord elencava una serie di correzioni da apportare al lavoro di traduzione italiana de La société du spectacle. In un particolare passaggio in conclusione della missiva, Debord, riferendosi al §123 del proprio libro, indicava come erroneo – fraintendendo così la traduzione – il passaggio «que les ouvriers deviennent dialecticiens» e che Salvadori, giustamente, riportava come: «che gli operai diventino dialettici». Secondo Debord si trattava invece «di dire che essi diventino dialecticiens (non dialectiques)» e, per far meglio comprendere la differenza sostanziale tra le due forme, scriveva che «per esempio: la Storia è dialectique; Hegel è un dialecticien»[2]. Compresa la correttezza della traduzione Debord, in una risposta a Salvadori allegata a una lettera per Gianfranco Sanguinetti del 16 aprile 1969, concludeva, scrivendolo direttamente in italiano, con: «ho capito che sono un dialettico!». La lettera in questione è interessante anche per un post scriptum in cui Debord informava Salvadori di aver ritrovato e riletto alcuni suoi appunti che aveva preso direttamente dalla lettura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, nell’edizione francese di Aubier-Montaigne (le stesse curate da Jean Hyppolite, uno dei più rinomati conoscitori e promotori di Hegel nella Francia dell’epoca e di cui Debord non solo leggerà gli scritti, ma ne seguirà persino qualche lezione, da non iscritto, al Collège de France, prendendo diverse pagine di appunti), ed è proprio quest’opera a emergere in più occasioni nel confronto epistolare per la traduzione del proprio libro.
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USA, la crisi dell’economia a debito e l’indebolimento del dollaro
di Domenico Moro
La pandemia ha messo a nudo e accentuato le fragilità delle basi economiche su cui si regge l’imperialismo americano, aumentando le basi materiali del conflitto che lo oppone alla Cina.
Recentemente, il presidente della Banca centrale Usa (Fed), Jerome Powell, ha dichiarato che lo stimolo monetario non basta, ci vuole un maxi stimolo fiscale.
In sostanza, non basta che la Fed tenga il costo del denaro a tassi d’interesse bassissimi e che inondi l’economia di liquidità, c’è bisogno che lo Stato aumenti le sue spese per sostenere l’economia in crisi, senza preoccuparsi di creare alti livelli di debito e deficit.
Powell si è espresso sulla falsariga di quanto affermato da Draghi, in riferimento alla Ue, e dal Fondo monetario internazionale (Fmi), secondo il quale una riduzione prematura della spesa pubblica dei governi può essere rischiosa per l’economia mondiale. Per la verità, gli Usa avevano già stanziato, per contrastare la crisi, una cifra ben superiore ai fondi stanziati dalla Ue, pari a 2.200 miliardi di dollari, con il Cares Act, che però è ora esaurito. Infatti, l’intervento di Powell si inserisce nel dibattito congressuale sull’entità del nuovo provvedimento di spesa, che vede i democratici proporre un nuovo stimolo di 2.200 miliardi, a cui i repubblicani hanno opposto una controproposta di 1.600 miliardi, che Trump ha a sua volta proposto di innalzare a 1.800 miliardi.
Gli Usa, però, devono fare i conti con una situazione del debito piuttosto grave, che può frenare la ripresa. Il debito pubblico è passato dal 108,7% del 2019 al 131% sul Pil previsto dall’Fmi per il 2020, mentre il deficit balzerà dal 6,3% al 18,7% sul Pil[1].
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Stati Uniti oggi: breve ragguaglio sulla conflittualità di classe
di Bruno Cartosio
La storia dell’ultimo mezzo secolo è «la storia della fuoruscita del capitale dalla regolamentazione sociale entro cui era stato costretto dopo il 1945». Prendo a prestito le parole di Wolfgang Streeck – e dietro le parole buona parte dell’analisi contenuta nel suo Tempo guadagnato – per racchiudere in una frase un ragionamento che ho sviluppato altrove (in Dollari e no) e che non è possibile riproporre qui se non nella forma sintetica del giudizio storico-politico. La rottura del «contratto sociale», o «patto newdealista», imperniato sul riconoscimento reciproco tra grande capitale e organizzazione operaia, tutelato dallo Stato, è stata la precondizione per la reazione neoliberista che negli Stati Uniti ha avuto in Ronald Reagan il suo eroe eponimo. Da allora l’arco temporale della Terza rivoluzione industriale ha largamente coinciso con quello del neoliberismo hayek-friedmaniano, che ha cambiato la fisionomia delle élite capitalistiche, alterato in profondità la composizione sociale del mondo del lavoro e riportato indietro l’orologio del comando padronale sui lavoratori. Poi, gli eventi che tra il 2008 e oggi hanno sollevato ogni velo residuo sulla crisi epocale in atto. Infine, Trump e ora il Covid-19, e nel dramma della pandemia la sollevazione innescata dalla risposta afroamericana al razzismo intrinseco agli omicidi polizieschi. La grande, socialmente composita sollevazione si è rarefatta – le rubano spazio le ansie preelettorali, cui si è aggiunto il contagio di Trump – ma non si è spenta. Né si sono interrotti gli scatti di conflittualità che la «nuova» classe operaia, anch’essa composita e spesso precaria, ha aperto in questi ultimi anni lontano dalle fabbriche. Sul mondo del lavoro e su questa conflittualità sarà focalizzata qui l’attenzione. (Alla politica del razzismo e alla sollevazione degli ultimi mesi Officina Primo Maggio ha dedicato nel giugno scorso l’opuscolo Uprising/Sollevazione. Voci dagli USA).
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Fratelli di tutto il mondo, affratellatevi!
Brevi note sul “papa comunista”
di Roberto Fineschi
L’enciclica di Francesco caldeggia nella sostanza la versione più soft dello stato corporativo ed è coerente con la dottrina sociale della chiesa. I comunisti devono invece porsi il problema di trasformare la struttura sociale
Fratelli tutti, l’ultima enciclica di papa Francesco, ha suscitato reazioni diverse ed è stata salutata (o deprecata) per le sue “aperture”. Vediamo i contenuti per capire quanto questo papa sia quel pericoloso “comunista” che viene dipinto dalle fazioni più retrive del mondo cattolico.
1) Critica del presente
L’enciclica prende di petto alcune delle questioni più scottanti dell’attualità sociale e politica, assumendo posizioni chiare. Critica alcuni punti chiave colpendo su due fronti: da una parte le modalità e le istituzioni della gestione neoliberista; dall’altra gli atteggiamenti più duri e intransigenti riconducibili a schieramenti cosiddetti populisti. Ne ha in sostanza per tutti; vediamo in che termini.
1.1) Critica del neoliberismo
Il papa non le manda a dire: l’economia finanziaria e le sue speculazioni sono una delle principali cause dell’attuale crisi mondiale (§§ 12, 52, 53 ,75, 109, 144); i suoi effetti perversi determinano rapporti squilibrati con i paesi più poveri e quindi il loro sfruttamento (§§ 122, 125, 126); causano la vuota e omologante cultura globalistica (§ 100) e il paradossale individualismo che gli fa specchio (§§ 12, 105, 144).
Non basta: il problema di fondo è il mercato! È mera illusione pensare che possa autoregolarsi (§§ 33, 109), questo è un dogma neoliberale (§ 168)! È addirittura necessario pensare a istituzioni che lo regolino, a una sua gestione mondiale (§ 138). Senza questo tipo di regolazione, libertà e giustizia restano irrealizzabili (§§ 103, 108, 170-172).
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Il Covid, la “sinistra radicale” e Gagliardini
di Militant
24 giugno 2020, è la ventisettesima giornata di un campionato appena ricominciato dopo il lockdown e in uno stadio Meazza completamente vuoto per via delle norme anti Covid si affrontano Inter e Sassuolo. Al diciottesimo del secondo tempo, mentre la squadra di casa è in vantaggio di una lunghezza, Lautaro Martinez entra in area dalla sinistra e passa il pallone indietro a Lukaku, l’attaccante belga tira di prima intenzione e sulla miracolosa respinta del portiere emiliano il pallone capita tra i piedi di Roberto Gagliardini. Il centrocampista nerazzurro si trova solo, a porta vuota, a poco più di un metro dalla rete e, incredibilmente, sbaglia, e manda il pallone contro la traversa e divorandosi un gol già fatto. Ecco, se dovessimo immaginarci una rappresentazione plastica della cosiddetta sinistra radicale italiana oggi, l’errore di Gagliardini ne sarebbe un esempio quasi perfetto.
La crisi epidemica, ancor di più di quella economica e sociale in cui siamo immersi, ha fatto emergere in maniera eclatante tutte le contraddizioni di un sistema dominato dal profitto. E lo ha fatto in una maniera assolutamente intellegibile anche da parte del cosiddetto “uomo della strada”, sicuramente molto di più di quanto non fosse accaduto 12 anni prima con la crisi dei mutui subprime. Questa volta non bisogna certo sapere cosa sia il capitale fittizio o essere addentro ai processi di finanziarizzazione dell’economia per rendersi conto di come, in un’epoca caratterizzata da un’abbondanza di merci e da una capacità produttiva senza precedenti nella storia dell’umanità, in tutti paesi, compresi quelli “avanzati”, si stanno manifestando in maniera paradossale tutta una serie di carenze e di penurie che sono costate la vita a migliaia di persone.
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Schizofrenia digitale e autoritarismo accademico
Rocco De Angelis intervista Federico Bertoni
Impressioni e riflessioni di un docente dell'Università di Bologna sul rapporto tra docenti e studenti nel contesto della didattica mista. La netta posizione dell’intervistato in merito alla didattica blended, alla didattica a distanza e alle nuove tecnologie e modalità di apprendimento, ci permette di cogliere, attraverso le parole di un insider, i limiti e i punti di potenziale forza di questi processi, i quali sono presenti da molti anni (non solo nel mondo della formazione) e che con la pandemia da Covid-19 hanno avuta impressa una forte accelerata. Un tentativo per provare ad uscire dal dualismo tra apocalittici e integrati.
Uno sguardo sulle trasformazioni in senso neoliberista dell’università e le ipotesi in merito al divenire business delle esperienze didattiche degli ultimi mesi, una fase che Federico Bertoni nel suo “Insegnare (e vivere) ai tempi del Coronavirus” vede come un passaggio obbligato, al quale seguirà la fase della raccolta cocci, un’analisi e delle ipotesi tutte da verificare.
* * * *
Per cominciare, che ruolo ha all’interno dell’università? Quali corsi tiene?
Sono Professore Ordinario nell’Università di Bologna presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, dove insegno Teoria della Letteratura.
Che ruolo ricopre secondo lei l’università oggi e quali sono i principali elementi di trasformazione e passaggi nuovi avvenuti o che hanno subito un’accelerazione con la pandemia? Quali le continuità e quali i punti di rottura col passato?
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Domenico Losurdo: Nietzsche, il ribelle aristocratico
di Maurizio Brignoli
Losurdo, Domenico, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 1167
Domenico Losurdo sviluppa in Nietzsche, il ribelle aristocratico una scrupolosa e dettagliata ricostruzione del contesto storico e del dibattito culturale coevo quali premesse per comprendere l’evoluzione della carica dissacratoria del pensatore di Röcken.
Fin dalla Nascita della tragedia è possibile vedere come gli spunti politici non siano esterni alla riflessione estetica e come la grecità sia una categoria filosofica elaborata in contrapposizione al mondo moderno, soprattutto alla Francia contemporanea attraversata dalle rivoluzioni. Il pericolo mortale, che sfocia nella rivolta servile della Comune, ha le sue origini nell’illusione moderna della possibilità di conoscere e trasformare la realtà, eliminandone la componente tragica e negativa. Causa di ciò è l’ottimismo, la fede nella felicità terrena di tutti che produce lo scontento nel ceto degli schiavi e li porta a sentire come ingiusta la propria condizione. La crisi della grecità tragica sta nell’ottimismo socratico che crede nell’insegnabilità della virtù e nell’attesa di un mondo felice. Il popolo tedesco, che ha sconfitto la Francia socratica della rivolta servile, deve essere l’erede della civiltà greca.
Se questa critica alla sovversiva idea di felicità comune è diffusa fra Sette e Ottocento, l’originalità di Nietzsche consiste proprio nel procedere il più indietro possibile nell’individuare l’origine della sovversione. Mentre l’ottimismo moderno porta alla rivolta e il cristianesimo alla fuga dal mondo, l’arte-religione greca promuove la felicità dell’esistenza, nonostante la coscienza del dolore della schiavitù che è a fondamento di ogni civiltà. Riflessione estetica e politica sono così strettamente unite ed è la politica a costituire l’aspetto principale che permette di cogliere l’unità tra i riferimenti al movimento socialista e alla guerra franco-prussiana e le analisi della tragedia eschilea e wagneriana.
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“Donne di repressione”
di Elisabetta Teghil
“Ogni donna, del percorso della sua crescita, porta dentro di sé uno o più marchi indelebili di illibertà. Sono segni del potere, iniziazioni a quel maschile e al suo rispetto, sono seduzioni dell’alterità vincente che ci hanno fatto sentire vive dentro gli stereotipi di questa cultura e ce li hanno fatti assumere come nostri, dentro e fuori di noi: il risultato è una complicità con e per ciò che è “vincente”.” Daniela Pellegrini.[1]
L’8 marzo del 2019 il Consiglio superiore della Magistratura ha pubblicato i dati che ufficializzavano il così detto sorpasso rosa: su 9401 magistrati ordinari, 5103 erano donne, cioè il 53% del totale. E se guardiamo ai giovani magistrati in tirocinio, il dato è ancora più netto, perché la percentuale di donne è del 66%, 231 su un totale di 351.
In Italia poi fra i direttori di carcere, e usiamo volutamente il maschile sottraendoci all’ uso politicamente corretto di un femminile che costituisce un artificio e suona come un coccio rotto, le donne sono il 60%. Sei su dieci. Moltissime poi sono nei corpi di polizia e di controllo in senso lato.
Qualche giorno fa la portavoce del Movimento No Tav, Dana Lauriola, è stata arrestata all’alba e trasferita al carcere delle Vallette a Torino. Dana deve scontare una condanna definitiva a due anni per una protesta NoTav del 2012 in cui fu occupata l’area del casello autostradale di Avigliana facendo passare gli automobilisti senza pagare il pedaggio. Il legale di Dana aveva chiesto l’applicazione delle misure alternative che vengono normalmente concesse in questi casi, applicazione che è stata respinta tanto che l’avvocato difensore ha dichiarato che in trent’anni di professione non gli era mai capitato un caso analogo. La paradossale sentenza è stata emessa dal Tribunale di sorveglianza di Torino nella persona del giudice Elena Bonu.
Il giudice è una donna.
Il movimento NoTav ha già fatto esperienze di questo tipo. Nella vicenda di Maya, tanto per citare un altro caso, uno dei tanti. Maya, compagna No Tav, nel 2017 aveva denunciato le violenze e gli insulti subiti da parte della polizia di Torino e venne interrogata sia come parte lesa, perché aveva sporto denuncia, ma anche come indagata, non si sa bene di cosa.
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L’economia del debito e la Critica del valore
di Giordano Sivini
Dopo l'arrivo dell'ultimo ospite non invitato, il Coronavirus , oggi ci troviamo ormai, come si suol dire «sommersi di debiti». E questo inoltre, a quanto pare, succede in un contesto dove il dibattito sembra pendere dalla parte di che ne invoca ancora di più, di debito. Ed ecco che la mail di Giordano, con allegato questo testo che pubblico volentieri, è quanto mai benvenuta perché interviene in una discussione che - per quanto sopita a causa della preponderanza di cose che appaiono come più urgenti da discutere - mantiene una sua enorme importanza, al fine di sapere di che cosa oggi stiamo parlando. Mi riferisco qui alla polemica postuma (a causa della precoce morte di Robert Kurz) tra "Denaro senza valore" di Kurz, per l'appunto, e "La grande svalorizzazione" di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, dove per la prima volta fanno capolino - sospinte da Lohoff come se fossero i "topi di Willard" - le cosiddette «merci di second'ordine»; che poi, sempre secondo Lofoff, sarebbero quei titoli, o "merci derivate" che «permettono all’impresa di capitalizzare il valore futuro non ancora realizzato». Insomma, una sorta di teoria monetaria del valore che in qualche modo può essere ancora in grado di «salvare il capitalismo», e simultaneamente «fare giustizia» invece della teoria di Kurz, il quale non avrebbe fatto altro che perpetuare una interpretazione erronea del capitale fittizio. Ed ecco che il credito di Lohoff viene ad assomigliare ad una sorta di gatto di Schoeringer, che, finché non apri la scatola, rimane allo stesso tempo vivo e morto, plusvalore reale e denaro senza valore, il tutto a seconda se quel capitale fittizio sia coperto o scoperto. Roba da ... apprendisti stregoni! Alla quale viene da rispondere citando Kurz:
«Certo, fu la crisi economica mondiale a generare il keynesismo ma non fu il "modello di regolazione" politico del keynesismo a superare la crisi e a "politicizzare" il boom del dopoguerra, bensì la crescita, insita nel processo stesso della produzione di merce, che prese l’avvio ancora una volta, su di un livello di sviluppo superiore, in virtù della generalizzazione delle nuove produzioni di massa fordiste ad elevata intensità di lavoro.
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Epidemia del lavoro stagnante
di Carla Filosa
Scrive Marx nel suo Discorso sulla questione del libero scambio (Bruxelles, gennaio 1848):
“Bowring[1] presenta gli operai come mezzi di produzione che è necessario sostituire con altri mezzi di produzione meno costosi. Egli finge di vedere nel lavoro di cui parla un lavoro del tutto eccezionale, e nella macchina che ha schiacciato i tessitori una macchina altrettanto eccezionale. Dimentica che non vi è lavoro manuale che non sia suscettibile di subire da un momento all’altro la sorte dell’industria tessile…
Il dottor Ure… parla di alcuni mali individuali e dice, nel medesimo tempo, che questi mali individuali mandano in rovina intere classi; il quale parla di sofferenze passeggere del periodo di transizione e in pari tempo non dissimula il fatto che queste sofferenze passeggere hanno significato per i più il passaggio dalla vita alla morte e per i restanti il passaggio da una condizione migliore a una peggiore.
Quando dice, in seguito, che le sventure di questi operai sono inseparabili dal progresso dell’industria e necessarie al benessere nazionale, egli afferma semplicemente che il benessere della classe borghese ha per condizione necessaria la miseria della classe lavoratrice…
Voi, migliaia di operai che morite, non doletevene. Voi potete morire in tutta tranquillità. La vostra classe non perirà. Essa sarà sempre tanto numerosa che il capitale la potrà decimare senza temere di annientarla. D’altronde, come volete che il capitale trovi un impiego utile se non avesse cura di tenersi costantemente in serbo la materia da sfruttare, gli operai, per sfruttarli di nuovo?”
Se queste parole fossero state scritte in questi ultimi tempi – non tradite da nomi noti di due secoli fa – avremmo dato un significato esclusivamente virale alle “sofferenze” e al “passaggio dalla vita alla morte”, come pure un’interpretazione di un inconscio o di un pensiero inespresso di molti capitalisti da quel “Voi, migliaia di operai…” fino al “di nuovo”.
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Superando il realismo capitalista
di Bollettino Culturale
Frédéric Lordon propone una teoria delle attuali condizioni soggettive di (im)possibilità per la mobilitazione produttiva delle persone nel quadro delle strategie di valorizzazione e accumulazione del capitale. A sua volta, Mark Fisher valuta il modus operandi del cosiddetto "realismo capitalista", descrivendone l’impatto depressivo sulle nostre capacità critiche e immaginative e, quindi, sul loro potere di bloccare ogni prospettiva di emancipazione. Propongo di rivedere brevemente gli approcci di entrambi gli autori, evidenziandone i possibili limiti e considerando la loro rilevanza strategica in relazione a un compito urgente. Mi riferisco, concretamente, alla necessità di mappare nuovamente i punti di incoerenza e possibile rottura del processo di sussunzione delle nostre vite al movimento dispotico del capitale.
In “Capitalismo, desiderio e servitù”, Lordon identifica le condizioni per mantenere il dominio capitalista nella sua fase postfordista e neoliberista. Oggigiorno, l'allineamento del desiderio collettivo a favore della redditività del capitale assumerebbe caratteristiche totalitarie. Ciò nella misura in cui mira a trasformare l'attività lavorativa stessa, cioè il processo lavorativo, in una fonte intransitiva di piacere e soddisfazione. L'atto di lavorare, cioè di trasferire valore alla merce o assicurare il trasferimento e la realizzazione di quel valore, è promosso ideologicamente come momento di realizzazione personale. Pertanto, non sarebbe più sufficiente mobilitare le persone attraverso il bisogno / desiderio di un salario, diventa essenziale convertire il processo lavorativo in una fonte di felicità in sé.
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La battaglia delle idee: come è stata costruita l’egemonia statunitense
di Alessandra Ciattini
L’egemonia culturale statunitense non è casuale, ma è stata promossa dal secondo dopoguerra da istituzioni ben finanziate e organizzate come la CIA
È noto che l’espressione battaglia delle idee viene già utilizzata da Marx negli anni ’40 dell’’800 e successivamente da Gramsci allo scopo di sottolineare che la lotta per la costruzione di un nuovo modello di società tocca in maniera profonda anche la coscienza degli individui e il loro modo di concepire la vita collettiva.
Negli anni ’80, all’epoca dello scontro con gli Stati Uniti per la restituzione al padre del piccolo Elián González, Fidel Castro rilancia questo termine e dà impulso ad una serie di importanti misure, il cui scopo è quello di elevare il livello intellettuale dei cubani; tra queste cito lo sviluppo di un programma educativo volto ad estendere la preparazione universitaria, la creazione di un canale televisivo educativo (Universitad para todos), che si è mostrato molto utile in questa fase di confinamento per l’insegnamento a tutti i livelli, l’universalizzazione dell’università; quest’ultima, il cui scopo era quello di consentire l’accesso all’università di tutti i lavoratori sociali con l’aiuto dell’impegno volontario dei docenti, purtroppo non ha dato buoni risultati.
Successivamente, dopo il dissolvimento del blocco dell’est, e quindi con l’impossibilità di contrapporre il capitalismo ad un altro modello di società, il governo cubano decise di incrementare questa politica, passando da un atteggiamento difensivo ad uno aggressivo, colpevolizzando con insistenza l’attuale sistema economico-sociale dei gravi problemi con cui si deve confrontare l’umanità. In questo contesto nel 2003 si costituì ad opera di intellettuali cubani e messicani la Rete degli intellettuali in difesa dell’umanità, che ha avuto un illustre antecedente nell’Alleanza internazionale degli scrittori, il cui primo Congresso si tenne a Parigi nel 1935. La Rete è animata dalla volontà di opporsi alla barbarie, all’ingiustizia, a difendere la pace, la dignità umana e a preservare ciò che caratterizza l’essere umano in quanto tale.
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La fabbrica del consenso economico
di Thomas Fazi
Per capire come la teoria economica mainstream, costruita e riprodotta nei circoli intellettuali e accademici, viene veicolata, mediaticamente, nella cultura di massa, dobbiamo prima fare una breve premessa su come funziona la propaganda nei moderni regimi occidentali cosiddetti liberal-democratici (cioè nei regimi in cui, per intenderci, vigono elezioni a suffragio universale, libertà di associazione e libertà di stampa).
In questi paesi la propaganda assume forme ben diverse da quelle che solitamente assume nei regimi non democratici – cioè in cui non vigono le condizioni di cui sopra –, dove tendenzialmente esiste un controllo top-down diretto e pressoché assoluto del flusso di informazioni che arriva ai cittadini, tanto tramite i media ufficiali (che perlopiù sono direttamente sotto il controllo del governo) quanto, oggi sempre di più, tramite i social network e persino i sistemi di chat. Pensiamo per esempio alla Cina.
Ora, un tale livello di controllo – ma soprattutto un controllo così esplicito dell’informazione – sarebbe ovviamente considerato inaccettabile nei paesi occidentali (almeno per ora). Dunque in Occidente, in particolare in seguito all’ascesa della comunicazione di massa nel secondo dopoguerra – e quindi al progressivo proliferare delle fonti di informazione “indipendenti” (cioè non soggette a controllo governativo, diversamente dalla televisione pubblica, per esempio), che oggi con internet tendono praticamente all’infinito –, le élite politico-economiche occidentali sono dovute ricorrere a strategie alternative per assicurarsi un controllo sulla narrazione pubblica (controllo che – attenzione – è ancora più fondamentale nei regimi democratici, proprio perché in essi esiste effettivamente il rischio che possa essere eletto un governo ostile agli interessi delle élite).
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La lotta all’UE nella strategia dei comunisti
di Redazione politica
L’Ordine Nuovo ha inaugurato alcune settimane fa sulle sue pagine una rubrica su l’Unione Europea. L’obiettivo dichiarato è favorire la discussione su una tematica complessa, le cui differenti visioni concorrono a dividere il movimento comunista a livello internazionale e all’interno dei vari Paesi. Questi contrasti, in alcuni casi, rispecchiano differenze profonde: valutazioni dissimili sulla natura delle istituzioni borghesi e nella concezione dello Stato, letture antitetiche dello scontro interimperialista. In altri casi, invece, il centro del dibattito non è tanto la natura dell’UE o la sua riformabilità, quanto differenti impostazioni tattiche che, complice l’arretratezza dello scontro di classe, finiscono per tradursi in un dibattito sulle intenzioni dai pochi risvolti reali, più utile a dividere che a fare i necessari passi in avanti nell’elaborazione.
Sul carattere irriformabile e reazionario dell’UE ci siamo soffermati già precedentemente,[1] evidenziando come essa sia stata strumento per l’abbattimento delle condizioni di vita dei lavoratori e abbia favorito i processi di riduzione degli spazi democratici, sdoganando, attraverso l’attività di lobbying, le pressioni delle grandi aziende private sugli indirizzi politici ed economici dell’Unione. Continue conferme della giustezza di questa lettura arrivano dalla quotidianità delle politiche europee che seguiremo a trattare nei nostri articoli.
Qui vogliamo, piuttosto, parlare di quale sia il compito dei comunisti nella battaglia contro l’UE con quanti condividono con noi la convinzione che nessuna Europa dei popoli sia possibile in regime capitalistico, che l’Unione Europea sia un’alleanza imperialista attraverso la quale il capitale monopolistico europeo persegue i propri interessi e che, per questa loro natura, le istituzioni europee siano irriformabili ed intrinsecamente contrarie agli interessi dei popoli europei.
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I ‘postumi’ del Sì
Alba Vastano intervista il professor Paolo Maddalena
“La concentrazione dei poteri in un uomo solo al comando e la corrispondente riduzione di poteri del Parlamento muterebbe la gerarchia delle fonti, poiché in pratica sposterebbe il potere sovrano dal Parlamento (e cioè dal Popolo) al Governo, con la inevitabile conseguenza che la legge avrebbe la pari forza delle norme e dei principi costituzionali. In sostanza, sarebbe cancellata la Costituzione”
P. Maddalena
Siamo ormai ad un mese dal referendum confermativo che ha chiamato gli elettori ad esprimersi, votando Sì o No, sulla legge costituzionale al taglio dei parlamentari “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 240 del 12 ottobre 2019 . L’art. 138 della Costituzione prevede che una legge può essere sottoposta a referendum se ne facciano domanda, entro 3 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta, un quinto dei membri di una camera o 500mila elettori o 5 consigli regionali. La richiesta di referendum è stata firmata da 71 senatori e approvata dall’ufficio centrale per il referendum dalla Corte di Cassazione.
Una forte e partecipata campagna per il No, forse inaspettata, ha visto coinvolti molti Costituzionalisti e tanti personaggi della cultura italiana. Tanto da far sperare in una svolta rispetto ai fautori per il Sì. Non è andata, ma era anche prevedibile, vista la forte adesione dei partiti parlamentari e dei loro fidelizzati fra gli elettori. Nonostante la sconfitta del No, quel 30 per cento e oltre avrà un peso sulle scelte future del Parlamento nella nuova legislatura post elezioni politiche del 2023?
Delle ragioni del No e delle conseguenze della vittoria del Sì risponde nell’intervista che segue, Paolo Maddalena, costituzionalista, vice presidente emerito della Corte costituzionale.
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Ricerca di una nuova direzione
Sulla logica del Cln
di Nuova Direzione
La crisi
La spinta generata dalla crisi sanitaria ancora in corso sta determinando conseguenze dirette ed indirette molto forti. In particolare, si registra un’accentuazione della divaricazione tra sezioni del paese, sia in termini geografici sia di specializzazione, e l’impatto altamente differenziato sul mondo del lavoro (principalmente sull’asse tra impieghi stabili e precari e tra lavoratori autonomi e dipendenti). È evidente l’allargamento di una profonda linea di divaricazione, già presente e costitutiva della retorica neoliberale, tra i settori dei ceti salariati ancora protetti dalle garanzie novecentesche e il vasto mondo dei lavoratori precari senza diritti, in particolare nelle imprese piccole ed a basso livello tecnologico e di competitività, i numerosissimi finti autonomi del settore dei servizi (in particolare nel turismo e settori affini), gli operatori in proprio del commercio al dettaglio, i professionisti e parte del ceto medio produttivo ed imprenditoriale in crescente difficoltà. I primi antepongono la protezione, richiedendola, alla continuità dell’impegno lavorativo mentre i secondi, impregnati dello spirito libertario e della retorica del self-help tipica del mondo neoliberale, sono impauriti soprattutto della potenziale disoccupazione, o del fallimento delle loro attività, passano in secondo piano i rischi sanitari individuali e collettivi (che tendono ad essere negati). La seconda area tende a mobilitarsi contro le misure di protezione sanitaria, percependole come una minaccia concreta e una violazione della propria libertà individuale. La prima costituisce la base, al momento maggioritaria, di consenso alle misure governative di protezione attiva nei confronti dei rischi epidemici (che riguardano molto più la tenuta del fragile sistema sanitario nazionale che non la mortalità diretta in condizioni ottimali, che resta bassa).
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Pandemia nel capitalismo del XXI secolo*
di Alessandra Ciattini, Marco Antonio Pirrone
In questi ultimi mesi molto si è scritto e si è detto sulla pandemia, prodotta dal Coronavirus SARS-CoV2, che ha come esito il COVID 19[1] e che sta facendo morti in tutto il mondo, colpendo soprattutto quegli strati sociali che, per le loro stesse condizioni di vita, non sanno come difendersi.
Il libro ritorna sull’argomento, esaminando il gioco interattivo dei diversi fattori che stanno alle radici di questo drammatico fenomeno sociale e che costituisce un ennesimo avvertimento, dai più inascoltato, sulle reali condizioni del nostro pianeta e sulla possibilità che la vita possa continuare a riprodursi in esso.
All’interno dell’analisi di questi diversi fattori abbiamo voluto prestare una particolare attenzione alla dimensione economica, convinti che vi sia una stretta correlazione tra il modo di produzione capitalistico, la manipolazione della natura - e lo sconvolgimento degli assetti ecologici e della biodiversità che esso determina - e la genesi degli eventi pandemici. A questo proposito, non a caso, alcuni studiosi definiscono l’era attuale l’era del Capitalocene, ossia l’era del dominio e della diffusione del capitale sull’intero pianeta, con particolare attenzione proprio alle conseguenze sull’ecosistema di tale dominio.
Per sviluppare al meglio questa impostazione e per connettere la sfera economica agli altri aspetti della vita sociale siamo ricorsi ai contributi di vari specialisti (biologi, virologi, medici, sociologi, filosofi, economisti, giuristi), dotati però di una sensibilità antiriduzionistica. Ossia capaci di focalizzare la dimensione di loro pertinenza senza offuscare le complesse relazioni tra questa e gli altri livelli della vita sociale.
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Lo Stato come leva competitiva del capitale nella crisi
di Domenico Moro
Recentemente sul Sole24ore, il quotidiano di Confindustria, è stato pubblicato un articolo dal titolo significativo: “L’Europa superi il pregiudizio contro gli investimenti pubblici”[1].
Nell’articolo si parla di uno studio dell’Università Cattolica di Milano e di SciencePO di Parigi, a cura di Floriana Carniglia e Francesco Saraceno, che denuncia “il pregiudizio contro gli investimenti pubblici che risale almeno agli anni ’80 ma ha caratterizzato specialmente la fase di consolidamento fiscale fra 2010 e 2015.” Lo studio si concentra sulla parte della spesa pubblica rappresentata dagli investimenti, sottolineando che gli Stati hanno scaricato proprio sugli investimenti i costi dell’austerità. Gli investimenti vanno ripresi, dice il rapporto, ma in modo che siano considerati “non solo come fattore a sostegno della domanda aggregata ma anche come fattore funzionale alla produttività di lungo termine e alla crescita potenziale.” In questo senso, sono da rilanciare non solo gli investimenti pubblici tradizionali in infrastrutture materiali, come quelle di trasporto, ma anche quelli che allarghino la definizione stessa di investimento, inteso come tutto ciò che è funzionale alla produttività di lungo termine e alla crescita potenziale, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, nel capitale sociale, la spesa mirata a sostenere gli investimenti privati, la lotta all’emergenza climatica e la gestione delle pandemie.
In particolare, sulle politiche per l’emergenza climatica si richiedono investimenti in larga scala, non solo pubblici ma anche quelli attinti al mercato dei capitali privati.
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Lavoro fluidificabile
di Carla Filosa
Il prolungamento produttivo della giornata lavorativa, realizzato sia allungando sia diminuendo l’orario di lavoro, si attua mediante l’accorciamento del tempo che i lavoratori hanno da vivere, nell’usura incondizionata delle energie vitali pur di rendere liquida al massimo possibile la forza-lavoro
Sollecitati dalla “Mozione conclusiva dell’assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici combattive” tenutasi il 27 settembre 2020 a Bologna, cerchiamo di mettere a fuoco il 3° paragrafo della mozione, quello in cui si inizia “All’attacco a salari e diritti dobbiamo allora contrapporre una piattaforma generale di lotta…” con “parole d’ordine storiche del movimento operaio”.
Nell’ottica di sostanziare la potenzialità delle rivendicazioni proposte si cercherà di approfondire le modalità con cui il padronato ha fin qui condotto la sua lotta di classe nei confronti di un proletariato ormai mondiale, generato appunto dall’estensione planetaria del sistema di capitale impropriamente chiamata globalizzazione. Sapere o capire come viene fatto variare il salario, in base alle sole esigenze produttive dei capitali, significa poter poi lottare nella certezza di incidere significativamente sul sistema di sfruttamento non solo inarrestabile, ma programmato in continuo aumento dalla crisi strutturale raddoppiata da quella sanitaria sopraggiunta. Cominciamo a considerare che una qualsiasi giornata lavorativa può essere variata a discrezione, sulla base della quantità di plusvalore prodotto (cioè ricchezza prodotta e non remunerata, di cui non si ha mai consapevolezza) dal lavoro superfluo. Questa quota di ricchezza va distinta da quella remunerata prodotta nella trasformazione lavorativa per la necessaria ricostituzione della forza-lavoro, e che si presenta nell’operare concreto del cosiddetto lavoro necessario. Questa distinzione, specifica del modo capitalistico di produzione, può diventare visibile solo se si ha accesso alla conoscenza teorica di questo modo di produzione, mentre invece rimane oscura nell’unificazione apparente della giornata lavorativa determinata dall’orario di lavoro in base a cui si percepisce un salario.
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Il lavoro nelle tradizioni politiche moderne: bilancio e prospettive*
di Carlo Galli
Non si può parlare di lavoro, in chiave storica e teorica, senza confrontarsi con le principali categorie del discorso filosofico-politico: soggetto, proprietà, Stato, società, pubblico/privato, libertà/alienazione, disciplinamento; insomma con la nozione di politica moderna in generale. Infatti, il lavoro interseca le quattro grandi invenzioni della modernità: lo Stato, il mercato, il partito e la tecnoscienza.
Il mondo antico conosce il lavoro, naturalmente, ma nella teorizzazione classica il lavoro ha scarso rilievo. Certamente, in Platone (Repubblica 369b-374d) e in Aristotele (Politica 1252b) c’è l’idea che la città è prima di tutto cooperazione, un operare comune, e che questo cooperare grava sulla città, la fonda e la determina; ma c’è, altrettanto chiaramente, l’idea che ciò che è importante – l’attività di governo, o l’attività della filosofia, variamente intrecciate o addirittura coincidenti –, non è il lavoro. La politica ha a che fare con la libertà, la filosofia, la scienza, la guerra e la gloria, mentre il lavoro appartiene al regno della necessità. Del resto, mai i Greci hanno sentito il bisogno di pensare una divinità del lavoro: i Titani lavorano perché sconfitti; Afrodite è la dea della universale fecondità, della riproduzione ma non della produzione, e il suo infelice marito, Efesto, benché lavori è il dio del fuoco; Demetra è la dea delle messi, non la dea dei contadini; Ermes è il dio della comunicazione, del commercio e anche del furto; ma il dio del lavoro si cercherebbe invano: il lavoro non è cosa da dei.
Una delle poche voci importanti del mondo greco in cui il lavoro diventa una realtà politica è l’Epitaphios Logos, il discorso di Pericle che commemora i caduti ateniesi del primo anno (431/430 a.C.) della guerra del Peloponneso, riportato, probabilmente con fedeltà, da Tucidide nel II libro della Guerra del Peloponneso.
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Trump e la Cina: un braccio di ferro lungo quattro anni
di Gino Fontana
l dossier “AMERICANA” realizzato congiuntamente da Osservatorio Globalizzazione e Kritica Economica arriva alla terza puntata, la prima pubblicata sulle nostre colonne, con questo ampio e approfondito articolo di Gino Fontana, che traccia un bilancio dei rapporti tra Usa e Cina nell’era Trump
Uno spettro di aggira per gli Stati Uniti, lo spettro delle elezioni presidenziali. Quattro anni fa, in pochi avrebbero scommesso sul successo di Trump e il giorno dopo la vittoria dei repubblicani, molti si sono chiesti che ne sarebbe stato degli Stati Uniti d’America. Quattro anni di amministrazione Trump hanno portato a rivedere le priorità e gli interessi internazionali della Casa Bianca. In questo articolo, cercheremo di analizzare i quattro anni di politica estera dell’amministrazione Trump prendendo in considerazione i rapporti con un altro grande Paese, la Cina.
Cina e Stati Uniti non sono solamente legati da rapporti economici, ma rappresentano due superpotenze in grado di proiettare la loro influenza oltre i propri confini. Entrambi rappresentano un terzo del prodotto interno lordo mondiale. Pechino e Washington sono anche i maggiori investitori in spese militari, nonché i due maggiori Paesi che emettono CO2. Come già trattato in precedenti articoli, i rapporti sino-americani stanno definendo la natura dell’ordine internazionale del XXI secolo. Esistono molte opinioni differenti in merito all’evoluzione dei rapporti tra Pechino e Washington. Alcuni accademici parlano del modello “Chimerica”, sottolineando come il fattore dell’interdipendenza sia peculiare nelle relazioni tra i due giganti. Altri invece, riprendono la teoria della “trappola di Tucidide” sostenendo che le due superpotenze sono destinate allo scontro o ad una nuova guerra fredda. Come cita Mario Del pero in Ispi, report four years of Trump 2020, si tratta di un bipolarismo spurio, nel quale vi è una distribuzione di potere asimmetrica con la predominanza di un polo (quello a guida americana) sull’altro. Tuttavia, Pechino rimane in grado di sfidare la leadership di Washington, se non globalmente, almeno in alcune aree strategiche come la zona Asia-Pacifico.
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Walter Benjamin, un pensiero per tempi bui
di Dario Gentili
Il filosofo morto 80 anni fa è un'icona, nonostante la complessità del suo pensiero. Ciò accade perché, anche in una fase in cui non parevano esserci vie di fuga dall'oppressione, intravide la possibilità di invertire il corso della storia
Le ricorrenze rappresentano talvolta l’occasione per strappare – per qualche settimana o per qualche mese – all’oblio o a una trasmissione affidata esclusivamente agli specialisti il pensiero e l’opera di un autore. Quella della rammemorazione delle ricorrenze – se non godono di per sé di una celebrazione già solennemente imbastita – è un esercizio a cui si è dedicato anche Walter Benjamin. A ottant’anni dalla sua morte, tuttavia, il suo non è certo il caso di un pensatore scomparso dai radar delle mode culturali (e dunque non solo accademiche) e di cui ci si augura o si promuove la riscoperta. Anzi, a partire dagli anni Sessanta (vale la pena ricordare che, in vita e fino ad allora, era un autore praticamente disconosciuto), Benjamin è uno dei pochi filosofi che ha oltrepassato i confini dei circuiti accademici per far capolino non di rado nella cosiddetta cultura popolare. È stato ed è fonte d’ispirazione se non oggetto di film, rappresentazioni teatrali, romanzi, racconti, dipinti, e la sua stessa immagine è stata riprodotta – per mezzo di quella «riproducibilità tecnica» che lui indicò come destino dell’arte – in vari stili e fattezze. Per non parlare della frequenza con cui le citazioni tratte dai suoi scritti campeggiano ovunque, dalle mostre d’arte alle pagine Facebook. E sarebbe da rilevarne l’ironia della sorte per un pensatore i cui scritti sono stati spesso tacciati di oscurità ed ermetismo, aspetto che tra l’altro fece da argomento per la sua bocciatura all’abilitazione per l’accesso all’università tedesca (ben prima che il suo essere ebreo potesse comunque precludergliela).
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Catastrofe o rivoluzione1
di Emiliano Brancaccio
L’ex capo economista del Fondo monetario internazionale ha sostenuto che per scongiurare una futura “catastrofe” serve una “rivoluzione” keynesiana della politica economica. La sua tesi viene qui sottoposta a esame critico sulla base di un criterio di indagine scientifica del processo storico definito «legge di riproduzione e tendenza del capitale». Da questo metodo di ricerca scaturisce una previsione: la libertà del capitale e la sua tendenza a centralizzarsi in sempre meno mani costituiscono una minaccia per le altre libertà e per le istituzioni liberaldemocratiche del nostro tempo. Dinanzi a una simile prospettiva Keynes non basta, come non basta invocare un reddito. L’unica rivoluzione in grado di scongiurare una catastrofe dei diritti risiede nel recupero e nel rilancio della più forte leva nella storia delle lotte politiche: la pianificazione collettiva, intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato. Una sfida che mette in discussione un’intera architettura di credenze e impone una riflessione a tutti i movimenti di lotta e di emancipazione del nostro tempo, tuttora chiusi nell’angusto recinto di un paradigma liberale già in crisi
Prologo
Per scongiurare una futura “catastrofe” sociale serve una “rivoluzione” della politica economica. Così parlò Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo monetario internazionale, in occasione di un dibattito e un simposio ispirati da un libretto critico a lui dedicato (Blanchard e Brancaccio 2019; Blanchard e Summers 2019; Brancaccio 2020). Che un grande cardinale delle istituzioni economiche mondiali adoperi espressioni così avventuristiche è un fatto inusuale. Ma l’aspetto davvero sorprendente è che tale fatto risale a prima del tracollo causato dal coronavirus. Tanto più dopo la pandemia, allora, diventa urgente cercare di capire se l’evocazione blanchardiana del bivio “catastrofe o rivoluzione” sia mera voce dal sen fuggita o piuttosto segno di svolta di uno spirito del tempo che inizia a muovere da farsa a tragedia. A tale interrogativo è dedicato questo scritto.
A chi intenda cimentarsi nella lettura, sarà utile lanciare un avvertimento. Sebbene intessuto di fili accademici, questo saggio risulterà estraneo alle pratiche discorsive dell’ordinario comunicare scientifico. Qui si cercherà infatti di rinnovare un antico esercizio, eracliteo e materialista: di intendere logos come scienza. Scienza non parziale ma generale, per giunta, quindi inevitabilmente colma di vuoti come un formaggio svizzero. Su questi vuoti, prevediamo, gli specialisti contemporanei avvertiranno insofferenza mentre sarà indulgente l’osservatore avvezzo alla critica e alla crescita della conoscenza (Lakatos e Musgrave 1976). Costui è consapevole che solo una visione generale consente di visualizzare quei vuoti, e quindi crea le premesse per tentare di perimetrarli e superarli.
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Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
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