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“Il progetto e la sponda”
Dalla distruzione delle istanze collettive alla distruzione del soggetto
di Elisabetta Teghil
<Dire fare baciare lettera testamento…>
Filastrocca per un gioco infantile
Vi ricordate questo gioco infantile? Era basato sulle penitenze. Il malcapitato/a doveva pagare pegno e sottostare a delle penitenze che suo malgrado era lui/lei stesso/a a scegliere. Ad occhi chiusi doveva toccare la mano di un compagno/a scegliendo un dito: le cinque dita della mano corrispondevano a dire, fare, baciare, lettera, testamento e ad una relativa penitenza ed era veramente difficile dire quale fosse la peggiore.
Con riferimento alla situazione politica, economica, sociale e personale, gli italiani non sanno quale dito scegliere, qualunque sia la loro scelta pagheranno pesantemente. E non solo gli italiani/e, parliamo del nostro paese solo per semplicità di riferimenti e perché siamo qui.
Il neoliberismo si è caratterizzato per la distruzione delle istanze e delle strutture collettive, per la destituzione di partiti, sindacati, forme politiche organizzate, delle stesse istituzioni rappresentative delle nostre democrazie occidentali diventate democrazie autoritarie e democrazie di mercato in cui l’uno e l’altro aspetto non sono in contraddizione bensì due facce della stessa medaglia. Le grandi raffigurazioni politiche ma anche sociali ma anche religiose che costituivano nei secoli passati il riferimento in cui la persona poteva ritrovarsi e costituirsi sono state smontate in nome dell’autonomia del soggetto a cui è stato imposto il farsi da sé in una costruzione personale che viene propagandata come il massimo della libertà di scelta, di azione, di realizzazione. Si sperimenta così una nuova condizione soggettiva della quale però nessuno possiede le chiavi di interpretazione, tanto meno le nuove generazioni a cui è stata negata perfino la conoscenza e l’esperienza del passato recente.
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Le catene globali del valore dopo la pandemia
di Andrea Muratore
“Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”: quanto dichiarato alla rivista francese Le Grand Continent da una scienziata di valore come Ilaria Capua in riferimento all’esplosività della diffusione globale del coronavirus[1] si può traslare alla discussione sulle conseguenze economiche del Covid-19[2].
Il virus, prima ancora che creare ex novo fattori di instabilità nell’economia, accelera e complica le tendenze già esistenti, funge da elemento di cesura. Per alcune settimane, la globalizzazione ha preso due strade divergenti. Da un lato, è accelerata nella sua componente immateriale, con le piattaforme tecnologiche, i social network e le aziende specializzate nell’elaborazione dati e nelle discipline più innovative[3] che hanno lavorato a pieno regime acquisendo ulteriore centralità nei sistemi produttivi. Dall’altro si è gradualmente paralizzata[4] sul fronte dei commerci internazionali e della produzione industriale, facendo emergere come preponderante il tema della gestione delle catene del valore.
Le catene del valore “globali” saranno al centro di numerosi discorsi di tema politico ed economico nella fase post-pandemica[5]: e anche qui notiamo come non ci si trovi di fronte a nuovi scenari aperti dalla pandemia, ma a un’accelerazione dettata dall’impatto del virus sugli equilibri globali.
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Come dominare il nostro futuro digitale
di Alessandro Visalli
Andrew McAfee, Erik Brynjolfsson: “La macchina e la folla. Come dominare il nostro futuro digitale”, Feltrinelli, 2020
Il libro di McAfee e Brynjolfsson[1] è stato pubblicato nel 2017 e segue di tre anni il best seller di cui abbiamo già parlato[2], “La nuova rivoluzione delle macchine”[3]. Ne è in qualche modo un aggiornamento. Se il testo del 2014 impostava il suo discorso sulla base di una sorta di determinismo tecnologico (le tendenze economiche e sociali, per esse l’ineguaglianza di cui in quegli anni si parla molto[4], sarebbero determinate dall’evoluzione tecnologica, anziché, ad esempio, dalla stagnazione secolare derivante da deficit di domanda e dinamiche demografiche[5], o da dinamiche del sovraindebitamento[6]), in questo segue implicitamente la stessa strada e ne esplora le conseguenze più recenti. In modo ancora più pronunciato, in questo testo gli autori prendono posizione per l’esaltazione, sopra ogni rischio tecnologico di disintermediazione del lavoro e della mente umana, della “genialità del libero mercato” e per la sua capacità di “inventare” soluzioni ai problemi che esso stesso crea.
Siamo da tempo in una sorta di compromesso sociale, fondato su un consenso che si ripresenta spesso anche in forme apparentemente imprevedibili[7], che fa leva sul consumo anziché sull’integrazione sociale ed il lavoro. A causa di questa condizione l’insieme di determinanti e di nessi nei quali siamo immersi erode costantemente le condizioni della riproduzione della vita e rende instabili le nostre società. La lettura di libri come quello di Brynjolfsson e McAfee aiuta a focalizzare una delle più potenti di queste determinanti: la tecnologia (informatica, Ia, meccanizzazione/automazione) e le nuove modalità di comunicazione, creazione, distribuzione ed accumulo di informazione. E, precisamente, consente di misurare il grado di spiazzamento (in rapidità e magnitudine) del lavoro in tutte le sue dimensioni.
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Sdoppiamento
di Giorgio Galli
Pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Galli, intitolata “Sdoppiamento” al libro di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli “Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?” che uscirà a novembre con la casa editrice Aurora
Gli elaboratori della teoria dello sdoppiamento, che l’hanno utilizzata per una originale interpretazione della successione dei modi produzione, si impegnano, in questo libro, ad applicarla ad una ricostruzione storica che, appunto, a quella basata sul succedersi dei modi di produzione, può efficacemente accompagnarsi, ma che presenta forti tratti di novità. Il succedersi millenario dei modi di produzione, sino all’odierno capitalismo globalizzato delle multinazionali, ha costantemente dato luogo a società nelle quali gruppi privilegiati sfruttavano maggioranze sottomesse e talvolta ribelli, con relative contese (la marxiana lotta di classe): è quella che nella teoria dello sdoppiamento viene definita linea nera, la società classista fondata sullo sfruttamento, nella quale però coesisteva, pur molto minoritaria, una linea rossa del collettivismo egualitario.
Mentre questa linea interpretativa, a mio avviso un arricchimento di quella marxista, è occasione di ulteriori approfondimenti, i suoi autori propongono un secondo sdoppiamento, questa volta a livello culturale e, quindi, marxisticamente, sovrastrutturale livello che definiscono prometeico, del quale danno questa iniziale definizione: “Una complessa e contradditoria corrente culturale e politica che risale all’era paleolitica e che ha accumulato quasi tremila anni di storia scritta in Europa, che ai nostri giorni si materializza anche nelle avanzate scoperte scientifiche sul potenziamento genetico della nostra specie, col processo di sdoppiamento verificatosi sin dalle origini fra la corrente fraterno-cooperativa e quella del titanismo elitario-classista”: anche a questo livello, dunque, una linea nera prevalente e una linea rossa minoritaria, che hanno ritmato lo sviluppo umano per ben trentamila anni”. In precedenza, come detto, la tesi era stata avanzata a livello economico in due libri dell’editrice Aurora, “Microsoft o Linux?” e “Effetto di sdoppiamento, il ‘paradosso di Lenin’ e la politica struttura”, quest’ultimo con mio intervento al quale voglio aggiungere qualche considerazione circa “Microsoft o Linux?”.
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Covid fase attuale. Lettere aperte di medici, scuole usa&getta, allarmi, ricorsi, speranze africane
di Alba Tecla Bosco
La confusione continua a essere grande sotto il cielo e lo sarà anche nella nebbia d’autunno. I politici italiani amano ripetere che con le loro misure di contrasto al Covid-19 si stanno scrivendo pagine di storia. Del resto, fin dall’inizio della pandemia, governi, media, addetti ai lavori hanno parlato di guerra, linee del fronte, armi, nemico unico, eroi. Dopo molti mesi la narrazione rimane invariata. Tuttavia c’è chi si fa domande
L’educazione usa e getta
Rigorosamente monouso dovranno essere le montagne di mascherine che si useranno in classe. Il 1 settembre così ha deciso il Comitato tecnico scientifico (Cts) di nomina governativa che detta le linee anti-Covid agli italiani. Niente mascherine cosiddette di comunità di stoffa, lavabili e riutilizzabili (e meno che mai autoprodotte), pur ammesse dai Dpcm dei mesi scorsi. Ogni mattina, senza creare assembramenti per carità, le monouso saranno distribuite a tutti. Undici milioni al giorno, ha annunciato il commissario al Covid Domenico Arcuri. E insieme, 170.000 litri di gel igienizzante x le mani a settimana (https://www.orizzontescuola.it/ritorno-in-classe-arcuri-saranno-distribuiti-11-milioni-di-mascherine-al-giorno-e-170-mila-litri-di-gel-igienizzante-a-settimana/).
Anche a non voler contestare l’utilità sanitaria e l’accettabilità psico-pedagogica dei dispositivi in ambiente scolastico, rimane il loro onere ambientale. Non solo mascherine, non solo gel, non solo «sanificazione» a gogò. Dalle scuole usciranno verso la rottamazione tre milioni di banchi, sostituiti dai nuovi arrivi: quelli a rotelle per il tablet, e gli altri monoposto. Usciranno anche un numero difficilmente quantificabile di piatti e stoviglie di plastica, visto che (https://www.peopleforplanet.it/scuola-post-covid-e-pasti-monoporzioni-in-mensa-ce-chi-dice-no/), come denuncia la petizione di Foodinsider.it con Food Watcher e MenoPerPiù, il ministero dell’istruzione indica il lunch box e le monoporzioni come una soluzione per consumare il pasto in classe uno dei possibili scenari della mensa scolastica antiCovid che si prefigura è questo: pasti in monoporzioni di plastica sigillate e menù semplificati stile fast food. Un disastro i contenitori, un disastro il contenuto.
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Che fare nella crisi?
Ascanio Bernardeschi intervista Alan Freeman
La crisi del capitalismo ha come cause la questione ecologica, la natura dell’accumulazione capitalistica e le crescenti diseguaglianze fra nazioni. L’immissione di liquidità non può risolvere questi problemi. Serve il ritorno del protagonismo delle classi lavoratrici e una politica estera indipendente
Alan Freeman, uno dei principali economisti della Greater London Authority ai tempi di Ken Livingstone, è stato docente universitario ed è uno dei massimi esponenti della scuola del Temporary Single System Interpretation (TSSI). Ha pubblicato, come autore e curatore, diversi libri sulla teoria del valore di Marx. Attualmente è condirettore del Geopolitical Economy Research Group e anche in tale veste è autore di diversi libri sui cambiamenti che stanno intervenendo a livello geopolitico. Le sue pubblicazioni si possono trovare qui.
Dopo l’intervista a Domenico Moro, continuiamo con Alan, che ringraziamo per la disponibilità, le nostre interviste a economisti e lavoratori militanti sulla situazione che si va affermando a seguito della pandemia che ha investito il modo e soprattutto i paesi a conduzione liberista, molto più impreparati ad affrontare l’emergenza sanitaria.
* * * *
Domanda (D). Alan, la pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi economica e l’ha inasprita. Noi riteniamo però che essa sia intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale e che pertanto non possa essere considerata l’unica responsabile dei problemi economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa crisi?
Risposta (R). Tutte le crisi sono la conseguenza di una combinazione di cause. Il problema non è di utilizzare questo fatto ovvio in una maniera facile e superficiale per evitare decisioni difficili, come fanno molti commentatori, ma, per poter agire, di identificare in ciascuna crisi particolare quali cause particolari operano.
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Marx, Althusser, Foucault e il presente
intervista a Jacques Bidet
Jacques Bidet, nato nel 1935 da una famiglia di contadini, è un filosofo e teorico sociale francese, attualmente professore emerito all’Université Paris-Nanterre.
Già membro del Partito Comunista Algerino clandestino negli anni ‘60 e del Partito Comunista Francese, nel 1986 fonda con Jacques Texier la rivista Actuel Marx, tra le più importanti riviste teoriche marxiste del mondo.
Tra i suoi libri principali ricordiamo “Que faire du « Capital » ? : Matériaux pour une refondation”; “Altermarxisme : un autre marxisme pour un autre monde”; “Foucault avec Marx”; “Explication et reconstruction du « Capital »” e “Théorie de la modernité, suivi de Marx et le marché”. Quest’ultimi due libri sono disponibili anche in italiano.
* * * *
1. La ricerca di una teoria generale della modernità, ti ha portato all’elaborazione dell’idea della metastruttura, un livello più astratto della struttura, in cui convivono mercato ed organizzazione, ribaltante con un segno di classe nel capitalismo. Questa metastruttura è il riferimento per i subalterni per ribaltare con le proprie lotte il capitalismo e costruire un ordine contrassegnato dalla libertà, l'uguaglianza e la razionalità. Dire che nelle modernità convivono mercato ed organizzazione, mi sembra un voler tornare al progetto originario di Marx di distinguere ciò che è proprio del capitalismo e ciò che non gli appartiene. Come ci aiuta questa riflessione nel ricostruire la teoria di Marx?
R 1. Marx espresse con forza nei Grundrisse - e cito spesso questo testo, che mi sembra molto significativo - l'idea che dal momento in cui consideriamo il processo lavorativo nella sua dimensione sociale, ci troviamo di fronte a due possibilità di coordinamento razionale, sia del mercato che dell'organizzazione.
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Fra Antropocene e Capitalocene
di Marino Badiale
1. La scoperta dell’Antropocene
La nozione di Antropocene è diventata un tema di riflessione di grande importanza nel dibattito culturale moderno. Introdotta nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, essa intende indicare il fatto che la specie umana è ormai divenuta un fattore di modifica delle dinamiche del pianeta, paragonabile quindi alle forze naturali che hanno agito, da milioni o miliardi di anni, sul pianeta stesso. La nozione di Antropocene viene proposta come una effettiva nuova epoca geologica, che pone termine all’Olocene, iniziato con la fine dell’ultima glaciazione. Su questa proposta la comunità scientifica non ha ancora preso una decisione finale, ma il termine, come si è detto, si è ormai imposto nel dibattito culturale, toccando ambiti molto vari, dall’arte alla filosofia e alla politica [1]. In attesa di una decisione da parte delle organizzazioni scientifiche competenti su questo piano, l’inizio dell’Antropocene è assegnato, da diversi autori, a diversi momenti della storia, che spaziano dalla scoperta dell’agricoltura agli anni ‘50 del Novecento. Mi sembra che le datazioni più lontane tendano a nascondere la novità rappresentata dalla modernità, e personalmente condivido l’opinione di chi propone per l’inizio dell’Antropocene una data che non sia più lontana dell’inizio della rivoluzione industriale. Un altro rilievo importante da fare è che la nozione di Antropocene potrebbe apparire, sul piano assiologico, abbastanza neutrale, cioè come un dato di fatto che non si caratterizza né in senso positivo né in senso negativo. La preoccupazione per le conseguenze dell’attività umana sul mondo, e la sensazione diffusa che la specie umana stia distruggendo le stesse condizioni oggettive della propria esistenza, hanno però l’effetto di togliere questa apparente neutralità, per cui la discussione sulla nozione di Antropocene si carica quasi sempre di una forte preoccupazione per le sorti della biosfera e della specie umana al suo interno.
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Appunti storico-psicologici per una “nuova” genealogia delle odierne schiavitù
di Andrea Muni
Nella cultura occidentale lo schiavo è qualcosa come un rimosso. Il riemergere della figura dello schiavo nel lavoratore moderno si presenta quindi, secondo lo schema freudiano, come un ritorno del rimosso.
G. Agamben, L’uso dei corpi
Una pratica millenaria, un istituto giuridico, una tecnica seduttiva. Le molte facce della schiavitù non cessano di affascinarci, indignarci, intrigarci. Forse perché “schiavitù” è una parola che si trova all’incrocio, all’articolazione di tutta una serie di questioni estremamente attuali e, troppo spesso, rimosse. Una nozione-ragno, un concetto viscoso – vertiginosamente oscillante tra il giuridico/politico e l’erotico/psicologico –, che rifiuta definizioni di sorvolo e racchiude in sé un prezioso segreto “strategico” (individuale e politico).
Questo pretestuoso tentativo di nobilitare moralmente lo schiavo è quanto di più fuorviante possiamo incontrare nelle nostre ricerche sulla schiavitù
1) Il primo problema metodologico di una “nuova” genealogia delle odierne schiavitù consiste nell’aggirare la pesantissima deformazione storica prodotta dall’autocommiserante immagine cristiana del fedele come servo/schiavo (di dio e del suo Prossimo). Questa auto-rappresentazione, e questo pretestuoso tentativo di nobilitare moralmente lo schiavo – peraltro magistralmente smascherato dal Nietzsche della Genealogia – è quanto di più fuorviante possiamo incontrare nelle nostre ricerche sulla schiavitù. È infatti una via che conduce alla radice storico-ideologica di quello che oggi viene denunciato come “buonismo”: una narrazione tanto potente quanto irrealistica, un boomerang ideologico a tutto vantaggio di chi gli schiavi li sfrutta.
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Maxiprocessi, zamponi e tortellini
di Giovanni Iozzoli
Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.
I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .
Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.
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Le contraddizioni delle soluzioni “keynesiane” al problema della disoccupazione e la sfida del “piano del lavoro”
di Riccardo Bellofiore
INTRODUZIONE a «Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione», a cura di Jacopo Foggi, Castelvecchi, Roma, 2019, pp. 17-27 [con saggi di Riccardo Bellofiore, Sergio Cesaratto, Guglielmo Forges Davanzati, Mathew Forstater, Claudio Gnesutta, Philip Harvey, Enrico Sergio Levrero, William Mitchell, Mario Seccareccia, Pavlina Tcherneva, Randall Wray et al.]
Il libro sui piani di lavoro garantito curato in modo esemplare da Jacopo Foggi per lo CSEPI è un volume importante, tanto per la qualità e la completezza di quello che contiene e che dice, quanto per quello che resta sullo sfondo e rimane ancora da articolare con più precisione e ricchezza, e magari da mettere meglio a fuoco. In queste poche righe di introduzione mi propongo di presentare al lettore, senza alcuna possibile pretesa di completezza, alcune considerazioni evidentemente soggettive, essendo io stesso parte attiva di questo dibattito in corso.
Il problema della disoccupazione in Italia è un problema che affonda le radici nel passato. Anche limitandoci al secondo dopoguerra, non solo esso non è stato mai risolto, ma alla sua risoluzione non hanno affatto contribuito né la apertura al commercio internazionale, né il miracolo economico, né gli abortiti tentativi di programmazione: semmai, l’emigrazione. La svolta degli anni ’80 prima peggiorò le cose, poi provvide una falsa soluzione nella sottoccupazione dovuta alla caduta della produttività e alla precarizzazione. Si può dubitare che sia mai davvero esistita da noi una fase keynesiana (molti guardano con nostalgia malriposta ai cosiddetti trent’anni gloriosi), e il keynesismo criminale stigmatizzato da de Cecco ne fu un povero sostituto. Il che lascia dubitare che sia possibile una soluzione keynesiana oggi, fondata sulla sola espansione della domanda effettiva, che rovesci l’austerità che ci accompagna da decenni. Si può dire che in varia forma la disoccupazione si sia tramandata tanto nello sviluppo quanto nella crisi, come anche che la crisi italiana sia di lunga durata, e risalga in realtà alle occasioni perse di metà anni ’60. È una crisi che ha aspetti strutturali, non solo congiunturali: e la stessa cosa si può dire della problematica della disoccupazione. La crisi recente, successiva alla nuova “grande crisi” esplosa nel 2007-2008 e aggravata dalle dinamiche interne all’area europea, va relativizzata come parte di questo quadro complessivo.
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Il post-Covid e la riforma dello Stato
di Emilio Carnevali
La pandemia di Coronavirus può essere l’occasione per ripensare radicalmente i compiti e gli obiettivi delle istituzioni pubbliche. Ma perché tale occasione non vada sprecata, occorre uno Stato che “funzioni davvero”. Qualche buon esempio (e qualcuno meno buono) dall’esperienza del Regno Unito
We shall meet again: è stato con un diretto riferimento alle vicende della guerra che la regina Elisabetta ha voluto sostenere il morale dei suoi sudditi durante i giorni più bui del lockdown nel Regno Unito. We shall meet again – “Ci rincontreremo” – cantava infatti la mitica Vera Lynn visitando i soldati al fronte, mentre le bombe della Luftwaffe riducevano in macerie le città inglesi.
Nell’epoca del coronavirus il ricorso a paragoni con le vicende belliche è stato assai diffuso. Si è cercato così di dare riconoscimento alla gravità degli eventi in corso, ma anche di trasmettere il senso della speranza in un “dopo”, nella ricostruzione che inevitabilmente seguirà.
Il secondo dopoguerra ha visto la nascita dello stato sociale nella sua accezione moderna. Fu proprio la straordinaria mobilitazione collettiva innescata dallo sforzo bellico a gettare le basi per un nuovo patto sociale che attribuiva a stati e governi compiti estremamente più ambiziosi che in passato: ad esempio, il celebre Rapporto Beveridge – o, come da titolo originale, il Report on Social Insurance and Allied Services – fu pubblicato in Inghilterra quando le sorti della guerra erano ancora molto incerte (1942).
Oggi molti auspicano che la ricostruzione “post-Covid” possa essere l’occasione per un analogo salto di qualità della nostra convivenza civile, soprattutto per quanto concerne la “riconversione ecologica” dei nostri sistemi produttivi.
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Beirut Addio
di Marco Pondrelli
Questo articolo scritto dal direttore del sito Marco Pondrelli compare in contemporanea su ‘marx21’ e su Ragioni&Conflitti
L'esplosione del 4 agosto al porto di Beirut ha provocato una vera e propria strage, ovviamente la politica e la stampa, italiane e non solo, sanno già chi sono i responsabili: i 'terroristi' di Hezbollah. Questa propaganda prolifera sulla scarsa conoscenza del Libano e di tutto il Medio Oriente (o Vicino Oriente). Quando si parla di politica internazionale queste posizioni sono la norma ma è solo grazie all'elargizione di luoghi comuni a piene mani che si possono fare affermazioni a dir poco azzardate come, ad esempio, definire l'Iran antisemita, dimenticando (o forse ignorando) quali sono le popolazioni semitiche e che, tolto Israele, la più grande comunità ebraica del Medio Oriente si trova in Iran, dove gli ebrei non solo godono di molti più diritti dei palestinesi ma sono anche presenti in Parlamento.
È necessaria quindi un'analisi che espunga questi luoghi comuni e che si basi sulla lettura della realtà e non su interpretazioni fantasiose.
Enigma Libano
Un bel film di Ziad Doueri, l'insulto, uscito nel 2017 racconta un processo in cui sono coinvolti un cristiano ed un rifugiato palestinese, è un processo che spacca il paese, perché viene a caricarsi di significati che vanno oltre la contesta fra due persone. È un film che rappresenta bene l'attuale Libano, un paese prostrato da infinite guerre.
Un piccolo excursus storico è il punto da cui partire per capire come quella che un tempo era conosciuta come la Svizzera del Medio Oriente sia ora persa in una durissima crisi: politica, economica e sociale.
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“Verso un’economia di merda”
In ricordo di David Graeber
di Franco Berardi (Bifo)
Conobbi David a Sapporo, nell’anno 2008 nella palestra dove si teneva la riunione iniziale delle giornate di contro-summit, mentre il G8 si riuniva in qualche luogo iper-protetto della città capitale dell’Hokkaido. Eravamo arrivati da poche ore, io e Claudia dall’Italia, David da Londra, e avevamo un sonno bestiale. Mentre i compagni giapponesi facevano i discorsini introduttivi al contro-summit, David si stese per terra e si addormentò per un po’.
Quando la riunione si concluse lui si alzò tutto stropicciato e ce ne andammo all’Hotel dove eravamo ospitati, o per meglio dire inscatolati. Ma la sera bussò alla nostra porta e ci chiese se avevamo qualcosa contro il mal di pancia. Avevamo quel che occorreva e lui si fermò per un’oretta a raccontarci quando era stato in Madagascar, e la percezione del tempo nella cultura africana e il fatto che è inutile darsi appuntamento qui o là tanto nessuno va mai agli appuntamenti, si dice tanto per dire allora ci vediamo alle tre al caffè, poi è inutile che ci vai tanto non ci trovi nessuno. Magari puoi fermarti lì in attesa che prima o poi quello con cui avevi preso appuntamento passi di lì casualmente e allora sai che festa, che gioia, che fortuna vederti.
Nel settembre del 2008 (ci conoscevamo da poco) mentre crollava la Lehman Brothers e altri colossi barcollavano, David mi mandò un messaggio che diceva: Non so se ho le traveggole ma mi sembra di capire che il capitalismo è finito.
Poi ci rivedemmo a New York con il nostro comune amico Sabu Kosho. E poi ci rivedemmo a Londra un paio di volte. L’ultima volta che ci siamo visti è stato un anno fa. E’ venuto a Bologna con Nika, e io li ho portati a vedere il Compianto di Niccolò dell’Arca nella chiesa di Santa Maria della Vita.
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Tutti pazzi per Keynes…
Con due parole del Lord ai suoi adulatori di sinistra
di pieffe
Un re taumaturgo (*) ha stregato gran parte dell’extra-sinistra italiana: John Maynard Keynes. Intendiamoci: fra coloro che si ritengono portatori di un “progetto di sinistra”, di una “alternativa di classe”, di una “trasformazione radicale” della società (espressioni che da tempo sostituiscono il riferimento diretto alla rivoluzione e all’abbattimento dello Stato borghese, concetti non spendibili con facilità, specie in vista “delle necessarie aggregazioni elettorali”), ben pochi si riferiscono esplicitamente all’opera e alle ricette di questo economista come al proprio evangelo.
E tuttavia oggi la maggioranza di coloro che si pretendono comunisti, e che quasi sempre alla critica del capitalismo prediligono le invettive contro “il liberismo” o “l’ordoliberismo”, hanno da tempo scelto il keynesismo come l’orizzonte strategico entro cui collocare la propria azione politica. E identificano le soluzioni e gli elementi programmatici di una ipotetica azione di classe, o almeno i suoi “primi passi”, proprio a partire dal modus operandi di quella che per lunghi anni è stata la politica ufficiale dei principali Stati capitalistici.
Togliatti, togliattismo e “democrazia progressiva”
Una tale dipendenza è del tutto spiegabile, se consideriamo le tradizioni politiche da cui la maggior parte degli attuali “comunisti italiani” discende – tradizioni politiche tutte saldamente incardinate nella collaborazione di classe, nella rivendicazione della “democrazia progressiva”, nella lunga marcia dentro le istituzioni borghesi, a partire dalla glorificazione della Costituzione della Repubblica borghese post-fascista, che avrebbe avuto il merito di rappresentare la forma politica nuova entro cui poteva e doveva darsi l’emancipazione della classe operaia. Il togliattismo, insomma, come adattamento dello stalinismo alle condizioni italiane, e radice comune di tanta parte delle “opposizioni” oggi esistenti.
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Note in margine a un testo esplicito, ovvero Come si preparano gli insegnanti italiani alla scuola che verrà?
di Giada Ceri
La prolissità non è un eccesso di parole, annotò Nicolás Gómez Dávila fra i suoi Escolios a un texto implícito (1977), ma una carenza di idee.
L’aforisma trova conferma nell’inesausto discorso sulla scuola italiana, riassunto – si fa per dire: son quattrocento pagine e passa – in uno dei tanti manuali per aspiranti insegnanti su cui io e altre decine di migliaia aspiranti insegnanti ci prepariamo al concorso previsto per l’autunno. Nel frattempo aspettiamo di conoscere il punteggio che verrà assegnato nelle diaboliche gps, le graduatorie provinciali dalle quali saranno scelti i supplenti nei prossimi due anni. (Le province, a proposito: vero emblema di resilienza nell’architettura costituzionale italiana.) Oltre settecentocinquantamila domande pervenute sulla piattaforma digitale del Miur: non il milione che era atteso, ma accontentiamoci.
Nel frattempo, a poche settimane dall’inizio del nuovo anno scolastico, si continua a dare i numeri – quanti alunni per classe? quante immissioni in ruolo? quante aule da predisporre? … – ma la voce degli studenti non si sente più. Le loro bocche (anzi: rime buccali, copyright Comitato tecnico-scientifico istituito per l’emergenza coronavirus) non si sono più aperte dopo aver rivendicato il diritto alla notte prima degli esami – la maturità essendo uno dei riti collettivi nel calendario annuale di questo Paese, tra il festival di Sanremo e la classifica delle estati più calde dell’ultimo secolo. Non hanno niente da dire su come immaginano e vorrebbero la “loro” scuola? O invece parlano ma non sono ascoltate?
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"Bastone e carota"
L’audizione del Commissario Gentiloni sul Next Recovery Eu
di Alessandro Visalli
Il Commissario Europeo Gentiloni ha svolto il primo settembre un’audizione presso le Commissioni Bilancio e Politiche della Ue della Camera e Senato nella quale ha descritto il meccanismo del “Next Generation Eu”, risposta europea alla crisi creata dalla emergenza sanitaria dovuta al virus ed alla sua malattia (Covid-19)[1].
Nei primi venticinque minuti Gentiloni ha presentato il meccanismo del “Next Generation Eu” come cruciale per il futuro e come sfida. Enfatizzando inoltre la novità data dalla raccolta di ingenti risorse a debito comune e il loro impiego, bisogna qui fare attenzione, per la “ripresa e riconversione” delle economie europee. La domanda immediatamente pertinente è quindi: riconversione per cosa? Questo il punto qualificante, per costringere (con carota e bastone, come mostrava Gabriele Pastrello[2]) le economie europee ad andare insieme verso una maggiore competitività, resilienza e sostenibilità (l'ordine vero è l'opposto di quello enunciato dal Commissario).
Il pacchetto di strumenti risponderebbe quindi ad una situazione potenzialmente esplosiva sia nel breve termine (abbiamo milioni di nuovi disoccupati ed intere filiere produttive, in particolare nei servizi, in grandissima sofferenza) e nel medio periodo (con la radicale crisi del modello export-led che ha guidato fino ad ora la Ue, in quanto imposto dai paesi nordici) e nel lungo (con lo spostamento dei rapporti di forza internazionali).
Questo esito è stato prodotto dalla durissima trattativa condotta nel Consiglio Europeo Straordinario del 17-21 luglio[3] che ha portato in extremis ad un accordo tra i “frugali” e i “mediterranei”, grazie all’allineamento con questi ultimi del “Gruppo di Visegrad”.
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La grande bufala del MES sanitario senza condizioni
di Guido Ortona
C’è ancora chi sostiene che i fondi MES per combattere il Covid non sarebbero sottoposti a nessuna condizionalità. Eppure queste ultime sono esplicitamente scritte nei documenti ufficiali (che a quanto pare molti si sono dimenticati di leggere)
1. Premessa
Ogni tanto si riapre il dibattito sul possibile ricorso al Meccanismo Europeo di Stabilità per finanziare le spese anti-covid. Chi è a favore di ciò avanza due argomenti: il primo è che i fondi sono disponibili subito; il secondo che ricorrere ad essi non comporta condizioni. Il primo argomento ha qualche fondamento, come vedremo, ma non molti; il secondo è completamente sbagliato, e vedremo perché. Per affrontare seriamente l’argomento dovremo fare un viaggio piuttosto noioso attraverso alcuni documenti ufficiali del MES e dell’Unione Europea. Purtroppo ciò è inevitabile: per citare Einstein, bisogna essere più semplici possibile, ma non più di così. È utile ricordare che il MES è un’entità a sé stante nell’ambito europeo, con un suo board di governatori, un suo consiglio d’amministrazione e un suo statuto; quindi “fare ricorso al MES” NON significa “chiedere all’Europa un prestito straordinario che si chiama MES”, bensì “chiedere un prestito al MES che verrà concesso secondo le regole fissate dal suo statuto, salvo eventuali deroghe”. Anticipiamo che l’unica deroga adottata è che si dà per assodato che tutti gli Stati membri hanno i conti abbastanza in ordine per potere rivolgersi al MES, senza l’istruttoria preliminare normalmente richiesta.
2. Il testo ufficiale
Il testo cui faremo riferimento è un documento ufficiale del board del MES dell’8 maggio 2020, il term sheet, cioè la specificazione delle clausole che regolano il prestito per affrontare il Covid. È in inglese, non ho trovato (e forse non esiste) la versione in italiano. La traduzione è mia. Per evitare accuse di cattiva traduzione riporterò fra parentesi il testo inglese.
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Per un ampliamento della concezione materialistica della storia
di Vox Populi
1. Una questione storica
La “tradizione” marxista, per via delle sue origini, si è sempre concentrata sulla questione della produzione e dell’organizzazione: infatti, il suo luogo privilegiato di analisi della realtà (il luogo di produzione), le relazioni a cui presta attenzione (il modo di produzione), i suoi intenti politici e sociali (rivoluzione sociale) oltre che la priorità data a determinati fattori (quelli materiali e strutturali su quelli immateriali e sovrastrutturali) ne hanno influenzato fortemente il corso della teoria e della pratica.
Nel corso di circa un secolo e mezzo di diffusione del marxismo abbiamo avuto modo di assistere a varissime interpretazioni, elaborazioni, che spesso hanno ribadito la determinazione della struttura sulla sovrastruttura, altri invece hanno tentato di uscire da questo “riduzionismo” e “iper-materialismo”, talvolta proponendo delle interpretazioni astratte e volontaristiche. Trovo che il problema fondamentale non sia nella correttezza o scorrettezza delle tesi di Marx ed Engels: io sono della ferma opinione che la loro elaborazione teorica a riguardo sia corretta, date le mille e una volte che ha aiutato a vederci giusto nel corso degli eventi, talvolta per capire le cause reali di movimenti ideali, altre volte per riuscire a fare una piccola previsione per quanto concerne il futuro, per orientare le aspettative del movimento rivoluzionario.
Il problema che dobbiamo affrontare, però, è quello della completezza di tale “frammento” teorico, perché il pensiero che si è poi fondato sul loro non è errato nelle sue tesi di fondo ma tende a far valere tale determinazione in modo immediato sulla realtà ideale e complessiva, mentre nella realtà il rapporto è necessariamente mediato.
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Coronavirus: una mutazione antropologica
di Jean-Claude Paye e Tülay Umay
Conosciamo bene il concetto di stato di emergenza. Fa parte della nostra vita da una ventina d'anni, sia che lo stato d'emergenza sia stato dichiarato, come in Francia, sia che sia semplicemente il risultato di una costante trasformazione del diritto penale che distrugge, in nome della "lotta al terrorismo", l'essenziale delle libertà collettive e individuali. Questo processo, il cui scopo è la soppressione dello Stato di diritto, è stato definito "stato di emergenza permanente".
A questa trasformazione, a livello giuridico, si è ora aggiunta la nozione di "stato di emergenza sanitaria". Qui, in uno stato di emergenza sanitaria, la legge non è sospesa o addirittura abolita, non ha più motivo di esserlo. Il potere non è più diretto ai cittadini, ma solo ai malati o ai potenziali portatori di virus.
Quando il diritto è sospeso in stato di emergenza o soppresso in una dittatura, il suo posto rimane, anche se non è occupato. Nello "stato di emergenza sanitaria", è proprio il suo posto che scompare. Il diritto non è più semplicemente sospeso o soppresso, ma espulso. Chiuso, è semplicemente posto al di fuori del discorso, come se non fosse mai esistito.
Rinunciare alle nostre libertà...
La "lotta al terrorismo" ha permesso di sopprimere la maggior parte delle libertà pubbliche e private, attaccando atti concreti, ma soprattutto intenzioni attribuite alla persona perseguita, se queste sono "destinate a fare pressione su un governo o un'organizzazione internazionale". La lotta al terrorismo segna la fine della politica (1).
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la nozione di guerra è stata introdotta nel diritto penale attraverso la lotta al terrorismo e permette al potere esecutivo di designare, come nemici, i propri cittadini e gli avversari politici.
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Sul concetto di “nazionale-popolare” nelle attuali forme della cultura di massa
di Alessandro Barile
«Sommamente ridicola la fiducia riposta in noi [poeti] dal volgo, temeraria e indifendibile l’impresa di educare il popolo e la gioventù per mezzo dell’arte. Come potrebbe infatti fungere da educatore colui che irrimediabilmente e per sua propria natura è spinto verso l’abisso? È vero che vorremmo rinnegarlo, che vorremmo acquistare dignità; ma ovunque dirigiamo i nostri passi, l’abisso ci attrae. Così avviene che noi rinunciamo alla conoscenza che disgrega: poiché, mio Fedro, la conoscenza non possiede dignità né rigore; è consapevole, comprensiva, indulgente, priva di tenuta e di forma; ha simpatia per l’abisso, è l’abisso medesimo»
Thomas Mann, La morte a Venezia
Arte e politica non sono mai andate d’accordo, ma i consumi (e i costumi) culturali dei tempi che corrono invitano ad aggiornare una riflessione necessaria anche se non sentita come tale. Ci invita e anzi ci costringe un duplice movimento che stritola – di fatto è così – ogni discorso critico: da un lato, cent’anni dopo la riproducibilità benjaminiana, ci troviamo immersi in un bombardamento culturale continuo e inarrestabile, che ci invita, tramite i suoi supporti, i suoi dispositivi, la sua velocità e disintermediazione, a consumare costantemente e irriflessivamente “cultura”, sia essa visuale (cinema e serie tv, web series e televisione), che musicale (dai talent a Spotify) che “museale” (la mostra d’arte come “evento”, e come evento “furbo”, subito apprezzato dal grande pubblico in quanto scorciatoia educativa); dall’altro, il consumo così recepito viene sempre meno pensato, sottomesso a critica e valutato nelle sue potenzialità (che pure potrebbero esserci) e nei suoi problemi (evidenti e, proprio perché tali, subito accantonati).
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Pillole di saggezza sovversiva. Con qualche inciampo, inevitabile
di Dino Erba
Michele Fabiani: La negazione radicale, Edizioni Monte Bove, Spoleto (PG), 2020
Immaginiamo il dibattito elettorale degli ultimi lustri. La professoressa di sinistra con la «erre moscia» e il bullo televisivo delle nuove destre. Lei dice: «Vede cavo la vealtà è complessa». Al che lui fa: «Ma quale complessità, è tutta colpa degli immigrati!». Secondo voi, chi le vince le prossime elezioni?. MICHELE FABIANI, p. 8.
La saggezza cui mi riferisco è quella nascosta dall’ideologia dominante che, come la religione e la scienza, ricorre all’Ufficio complicazione affari semplici (UCAS), gestito da filosofi, politologi, sociologi e compagnia cantante, per evitare che la miseria della sua essenza diventi evidente. E, come nella favola, un bimbo esclami: «Il re è nudo»!
Di fronte a tante bugie dalle gambe corte, il disvelamento potrebbe apparire semplice. Ma se così fosse, non saremmo avviluppati in mille lacci e lacciuoli che intralciano una coerente pratica sovversiva. Certo, le difficoltà materiali ci sono: dalla necessità di sostentarsi (vitto/alloggio...) all’oppressivo confronto/scontro con le istituzioni (Stato). Ma queste difficoltà, direbbe Totò, sarebbero quisquilie, pinzillacchere ... se fosse palpabile la prospettiva per superarle. Ma palpabile non è. E neppure percepita.
Con piacere, seguo Michele nel suo viaggio filosofico-politico, col desiderio di suscitarne l’interesse. Ma tante, troppe sono le questioni al fuoco che è inevitabile la banalizzazione. Son costretto a un’estrema sintesi d 222 pagine, in cui Michele sintetizza più di Ventidue secoli di filosofia e, soprattutto, di porcherie politiche.
Alla ricerca del conflitto perduto
Ed è con l’intento di rendere percepibile (se non palpabile) la prospettiva di superamento sovversivo/rivoluzionario (l’Aufhebung, direbbe Hegel) che si cimenta Michele Fabiani.
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Come tradire Rousseau tra riforma costituzionale e democrazia diretta
di Daniele Gullì
Nei giorni 20 e 21 di settembre ci sarà il Referendum che chiamerà gli elettori a pronunciarsi sulla Riforma Costituzionale che prevede il taglio del numero dei parlamentari. Approvata con il voto favorevole e trasversale di buona parte dell’arco parlamentare, la Riforma prevede una sostanziosa riduzione del numero dei seggi di Camera e Senato. Un cambiamento istituzionale fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, tanto da esser stato il punto principale ed imprescindibile dell’accordo di governo fatto l’estate del 2019 con il Partito Democratico. Se verrà confermato dalla consultazione referendaria, l’organo legislativo della Repubblica italiana, a partire dalla XX Legislatura, sarà composto da 400 deputati e 200 senatori, diventando, di fatto, con un parlamentare ogni 160 mila abitanti, il Parlamento con il rapporto di rappresentanza peggiore dell’intera Unione Europea.
Il Movimento 5 Stelle, dopo esser stato scaricato, oramai un anno fa, dell’ex alleato leghista, ha scelto la riduzione del numero dei parlamentari come primaria battaglia sulla quale accentrare il proprio armamentario comunicativo e propagandistico.
Mosso dalla necessità di rimettere a lucido la propria immagine del bagno sporco di realismo politico in cui si è calato da quando è al Governo, nel tentativo di tornare a rimarcare una netta differenza con i vecchi partiti, il M5S ha rispolverato il mantra della lotta alla casta. Il taglio alle poltrone, secondo il racconto dei proponenti, oltre che apportare un risparmio di spesa per le casse pubbliche, infliggerebbe un colpo ben assestato ai privilegi del mondo della politica. Una posizione curiosa, non tanto perché avanzata dalla forza di maggioranza del Governo in carica, ma perché proposta da chi, fino a due anni fa urlava, saliva sui tetti e si stracciava le vesti in difesa del ruolo centrale che il Parlamento dovrebbe ricoprire all’interno del sistema istituzionale e politico italiano.
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La crisi tra Recovery Fund e MES
intervista a Joseph Halevi
Premessa: quest’intervista è stata condotta mentre stava scoppiando la pandemia del Coronavirus. Quindi è stato aggiunto un post scriptum redatto dall’intervistato in guisa di aggiornamento.
* * * *
D.: Riguardo alla crisi economica derivante dalla diffusione su scala internazionale della pandemia si stanno facendo molti paragoni storici: con il 1929, con il 2008…e così via. Secondo te hanno senso?
R.: No. Perché questi si possono fare solo ex-post, attraverso le analisi comparate per vedere le differenze. Per esempio, la crisi del decennio1929-1939, che si risolse con la “bella” guerra che portò la piena occupazione negli USA, mentre Hitler col suo banchiere Schacht, inventore dei buoni speciali che funzionavano da moneta parallela permettendo il riarmo senza dare nell’occhio, raggiunse la piena occupazione già nella seconda metà degli anni trenta.
Il paragone si può fare con le crisi precedenti, quelle di fine ‘800, quella tra il 1870 e il 1875, su cui Paolo Sylos Labini scrisse un fantastico saggio, il migliore che abbia mai letto, eppure il mondo universitario del pianeta l’ho girato obtorto collo in lungo ed in largo per 45 anni ormai, senza essermi imbattuto in uno di ugual spessore. Il saggio si intitola “Alcuni aspetti dello sviluppo economico di un paese capitalistico oggi progredito (l’Inghilterra)” e venne pubblicato nella collezione di saggi di Paolo Sylos Labini stesso intitolata Problemi dello sviluppo economico, uscita nel 1970 presso la casa editrice Laterza. Sylos Labini svolse un’analisi comparata ta la crisi del 1870-75 e quella del 1930 sia per la Gran Bretagna che per gli Stati Uniti.
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Nominativi fritti e mappamondi: didattica della ‘ripartenza’ e dichiarazioni d’agosto tra dire e fare
di Orsetta Innocenti
La cosiddetta ‘ripartenza’ della scuola ha scandito i mesi estivi, tra una serie infinita di comunicati, note, smentite, da parte del Ministero dell’Istruzione, mentre, pedalando la loro autonomia, i presidi cercavano di far quadrare i metri, chiedendo più o meno disperatamente ai loro interlocutori provinciali, regionali e nazionali spazi, aule a norma, insegnanti in più (e dunque classi più piccole), che non sono arrivati.
Invece, molto si è parlato di banchi (più o meno rotelle) e di «rime buccali», di «didattica digitale integrata» (il nuovo nome della didattica a distanza) e di test sierologici; di capienza a scadenza (entro i 15 minuti non c’è assembramento) sui mezzi di trasporto. Molto ci sarebbe da eccepire, per ciascuno di questi punti, ognuno dei quali conferma l’impressione di provvisorietà con la quale si è guardato alla scuola nel suo complesso (e non è solo questione di emergenza sanitaria). Perché, è ovvio, gli spazi sono importanti, così come lo dovrebbe essere l’adozione di misure di prevenzione reali, conformi alla presente situazione epidemiologica e coerenti con quelle prese per ogni altro comparto: ma la verità è che, da giugno a fine agosto, per parlare di scuola, si è parlato di tutto, tranne che di scuola reale.
Abbiamo passato quasi quattro mesi in emergenza, facendo didattica di prossimità in una situazione inaudita prima ancora che anomala. Tutto questo ha lasciato – oltre che segni tangibili in ogni membro della comunità scolastica – tantissimi buchi neri, ha acuito distanze sociali e culturali, sottolineato differenze, per una serie di ragioni che iniziano a essere indagate in molti interventi da parte della comunità sociale e culturale[1].
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