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Guy Debord e l’eredità dello spettacolo
Da Marx a Lukács: plagiatore o teorico?
di Afshin Kaveh
È ormai innegabile quanto la lettura che si fa di Guy Debord, spesso, porti con sé il peso di una serie infinita di approssimazioni, vuoi per una certa attitudine alla distrazione di alcuni lettori (non sempre in buona fede) che non gli cedono il giusto posto tra le letture marxiste e vuoi perché, sia lo stesso personaggio che il proprio enunciato, risultano spesso criptici o, comunque, rivestono quell’alone misterioso di chi si è tenuto a debita distanza, non facendosi avvicinare se non da pochi e facendosi comprendere solo da chi lo leggeva cogliendo i suoi intenti «di nuocere alla società spettacolare»; a tal riguardo davvero «non ha mai detto nulla di eccessivo»[1] e, dal lato della barricata da cui poteva vantare di essersi posto, ha semplicemente detto ciò che andava detto, senza mezzi termini o sterili avvitamenti.
Sono del parere che le frasi più suggestive per meglio comprendere Debord, sia nella persona che nel pensiero, siano state pronunziate da chi lo conobbe personalmente. Mario Perniola lo ha definito in più occasioni «il pensatore più estremista della seconda metà del Novecento». Gianfranco Sanguinetti, a ben ragione, afferma che «senza la teoria dello spettacolo elaborata da Debord questo mondo rimarrebbe del tutto incomprensibile e incerto». Ma lungo una vita intera in cui le amicizie, seppur importanti, si sono sempre rapidamente succedute una dietro l’altra tra allontanamenti, spesso ingiustificati o proprio incomprensibili, dure critiche e tristi rotture, la più bella frase su Debord, a parer mio, è quella massima che scrisse a suo tempo Asger Jorn, l’unica amicizia che mantenne intensamente sino alla fine, senza mai separarsene o allontanarsene[2], in un sincero e continuo scambio di affetto e stima reciproca: «Guy Debord n’est pas mal connu; il est connu comme le mal»[3].
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Il braccino corto dell’Unione
di Antonio Lettieri
Le risorse messe in campo per contrastare gli effetti della crisi più grave del dopoguerra sono incomparabilmente minori di quelle varate da Stati Uniti o Giappone. Si continuano a seguire regole fallimentari: quando verrà chiesto all’Italia di tornare all’austerità, dovrà essere il nostro governo a prendersi la responsabilità di rifiutare
Ciò che maggiormente ci colpisce della pandemia del coronavirus è che conosciamo le conseguenze della malattia in molti, troppi casi irreparabili, ma non ne conosciamo il rimedio. La scienza medica ha bisogno di tempo. Il coronavirus c’impone in altri termini una fase più o meno lunga d’incertezza.
Non possiamo dire altrettanto delle sue conseguenze economiche. Conseguenze devastanti dal punto di vista sociale. Vi è un consenso sul fatto che si tratti della più grave crisi economica del dopo guerra. Il crollo dell’economia, la disoccupazione, il disagio sociale non si sono mai manifestati con altrettanta rapidità e ampiezza.
1. La pandemia ha investito l’intero pianeta e non ha risparmiato i paesi abituati a una condizione di benessere. La reazione dei governi è stata tuttavia diversa. Sono indicativi i casi degli Stati Uniti e del Giappone.
Negli Stati Uniti, Trump aveva inizialmente deliberato per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia un intervento di mille miliardi di dollari, un intervento manifestamente inadeguato. Il partito democratico ha imposto un investimento di risorse prossimo a 3000 miliardi di dollari. In sostanza, una mobilitazione di risorse pari a poco meno del 15 per cento del reddito nazionale. Per avere un termine di confronto, nel corso della crisi del 2008-2009, Paulson, ministro del tesoro di Bush, e poi Barack Obama, eletto alla presidenza, misero in campo 1500 miliardi per il salvataggio del sistema bancario e la ripresa dell’economia.
Ancora più significativo e stupefacente è l’intervento del governo giapponese che, avendo stanziato inizialmente risorse equivalenti a mille miliardi di dollari, nelle settimane successive le ha aumentate fino a un ammontare equivalente a 1700 miliardi – una dimensione equivalente a circa il 30 per cento del reddito nazionale giapponese.
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La Sovranità e lo scontro tra economia e politica
Ivan Giovi intervista Carlo Galli
Oggi sull’Osservatorio Globalizzazione abbiamo il paicere di intervistare il politologo Carlo Galli, professore di storia delle discipline politiche all’Alma Mater-Università di Bologna e già deputato nella XVII legislatura
OG: Professor Galli nel suo saggio “Sovranità” appare emblematica espressione “Sovranità è democrazia? Oggi si”: quali sono le funzioni economiche, politiche e sociali che, oggigiorno, impediscono il pieno esercizio della sovranità?
CG: La sovranità dello Stato oggi è fortemente limitata da una serie di determinazioni giuridiche, economiche e politiche; quelle politiche sono i trattati derivanti dalle nostre scelte di grande politica internazionale, per esempio l’adesione alla NATO. Sotto il profilo giuridico la sovranità di un paese e anche dell’Italia è limitata da trattati che regolano alcuni comportamenti internazionali del paese: il nostro ingresso nell’Onu ci ha privato dello Ius ad Bellum che peraltro era già messo in discussione nella nostra Costituzione. Poi ci sono motivazioni di carattere economico: la nostra adesione ai trattati che istituiscono l’Euro ci ha privato della sovranità monetaria. Sono privazioni in qualche modo volontarie perché giungono a compimento con un voto del Parlamento. Tuttavia, sono limitazioni, e quelle che i cittadini sentono maggiormente oggi sono quelle economiche. Lo Stato italiano resta sovrano come tutti gli Stati che fanno parte dell’unione europea, ma con una cessione di sovranità monetaria: è venuto meno quello gli economisti chiamano il signoraggio, il comando politico sulla moneta, cessato nel 1981 con il cosiddetto divorzio fra ministro del Tesoro e la Banca d’Italia. E ciò consegna lo Stato ai mercati.
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Il ruolo dei comunisti italiani
di Roberto Gabriele
Riceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione
In un periodo drammatico come questo di scombussolamento economico, sanitario e di equilibri politici nazionali e internazionali, sarebbe importante che da parte dei comunisti italiani si ponesse di nuovo il problema concreto di come affrontare le prospettive.
Sicuramente quelli che si ritengono comunisti pensano di avere un'opinione sulle cose che stanno avvenendo e gli interventi su Marx XXI lo dimostrano, ma il loro pensiero non si è trasformato ancora in un progetto politico che sia collegato alla situazione. Si rischia così di rimanere legati a una concezione di nicchia dell'impegno politico e di esprimere solo esigenze di analisi dei problemi senza trasformare questa analisi in un'ipotesi di lavoro e verificarla nella realtà.
I comunisti possono fare in Italia solo questo oppure si può (e si deve) fare un passo avanti? E' su questo che si dovrebbe aprire la discussione.
Certamente le sconfitte subite a partire dagli anni '90 del secolo scorso hanno lasciato il segno e molti compagni sono cauti e, giustamente, evitano di ricorrere a formazioni partitiche virtuali che possono soddisfare solo le manie di protagonismo di qualche cattivo maestro. Ma allora domandiamoci: qual è il ruolo oggi dei comunisti italiani? Sono destinati solo a mantenere viva una tradizione storica, oppure affinchè questa tradizione abbia un'incidenza reale, devono saper coniugare il loro punto di vista col corso degli avvenimenti?
Noi siamo ovviamente per la seconda ipotesi. La condizione però è che si mettano in chiaro alcuni punti essenziali su cui una nuova prospettiva si può aprire, il primo dei quali riguarda proprio il modello delle relazioni tra comunisti, cioè la forma in cui rapportarsi per superare la sconfitta e riprendere un cammino che non sia di pura testimonianza.
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Homo homini virus? Spazio urbano e disuguaglianze in tempo di pandemia
di Nicolò Bellanca
Nel ragionare sugli scenari post-pandemia, ciò che accadrà nelle città è decisivo. Non soltanto perché il 55% della popolazione planetaria è urbanizzato; né soltanto perché dalle città proviene il 75% del PIL globale, ottenuto consumando più di due terzi dell’energia e provocando il 70% delle emissioni inquinanti.[1]Ma anche e soprattutto perchénei contesti urbani è più facile, relativamente a contesti nazionali o sovranazionali,impostare e condurre grandi battaglie a favore dell’eguaglianza.
Questa tesi non è banale e, per (provare a) dimostrarla, occorrerebbe scrivere un intero libro.[2]Qui essa sarà saggiata lungo due tappe espositive: nella prima, illustreremo che cosa è successo nel corso della pandemia; nella seconda, valuteremo la portata di alcune idee e sperimentazioni sociali, che in anni recenti hanno cercato di realizzare forme radicali di rigenerazione urbana.
Le misure di “distanziamento sociale”, o meglio di “isolamento spaziale”, sono state il modo più diffuso per contenere il contagio virale. Ma se, assecondando questo approccio, ognuno di noi deve allontanarsi dagli altri, in quanto gli altri possono contaminarlo, il contesto più pericoloso dal quale fuggire è quello in cui massimamente si addensano le relazioni intersoggettive: la città. La ragione è apparentemente ovvia: accatastare le persone l’una sopra l’altra in palazzi e uffici, e imballarle in bus e vagoni della metropolitana, crea un terreno fertile ideale per le malattie trasmissibili.[3]In termini di filosofia sociale, la pandemia è stata quindi affrontata con il criterio per cuiHomo homini virus(l’uomo è veleno per l’uomo): la forma d’intervento più appropriata, per “svelenire” la società, consiste nello spezzare o almeno nel sospendere i nessi tra le persone, e tra le persone e i luoghi di vita.
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Dio non gioca a DAD
di Francesco Masala
Con a seguire articoli di Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Davide Viero, Martina Di Febo, Paolo Mottana, Enrico Euli, Federico Bertoni, Giorgio Agamben
Le lodi delle magnifiche sorti e progressive della didattica a distanza le lascio fuori da questo spazio, perché a essere larghi, di tutte le considerazioni possibili, quelle a favore sono al massimo il 5%.
Sento già gli entusiasti della dad (sempre minuscola) fremere, chi si contenta frema e goda.
Mi ricordano quei chirurghi che, alla domande dei parenti del malato, rispondono che l’operazione è andata bene, ma il paziente è morto.
Per la dad è lo stesso, l’operazione, per chi voleva guadagnare, in tutti i sensi, è andata bene, peccato che la scuola è morta, per quest’anno.
Ho avuto accesso ai risultati di un questionario inviato alle studentesse e studenti delle scuole superiori.
Indico alcune risposte significative.
Alla domanda che cosa ti piace di più della dad le risposte più frequenti sono state: non devo uscire e sto a casa in pigiama, e poi si studiano molte meno cose che a scuola.
Chiunque può capire perché qualcuno ami la dad, motivi chiaramente di ordine culturale, non ci sono dubbi.
Alla domanda se è più facile imbrogliare i docenti a scuola o con la dad, il 99,9% delle studentesse e degli studenti (senza mettersi d’accordo) risponde che con la dad è più facile imbrogliare (quale docente non ha visto ombre di genitori, gli occhi verso il telefonino o il libro, se la videocamera era accesa?)
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La società giusta di Thomas Piketty
di Francesco Guala
Nel corso della storia le guerre e le epidemie hanno periodicamente sconvolto le strutture economiche e sociali create dall’uomo. Secondo la maggior parte degli studiosi questi shock hanno avuto un effetto sia distruttore che equilibratore, spazzando via enormi ricchezze e quindi riducendo le disuguaglianze accumulatesi nel tempo. Oggi non sappiamo ancora quali saranno gli effetti del Coronavirus. C’è chi sostiene che i ricchi sono meglio attrezzati ad affrontare gli sconvolgimenti innescati dal contagio, e che quindi le disuguaglianze aumenteranno ulteriormente nel prossimo futuro. Altri invece intravedono la possibilità che una società più giusta ed equilibrata possa emergere dalla crisi.
Thomas Piketty è uno di questi. Circa sette anni fa usciva nelle librerie di mezzo mondo la traduzione di un voluminoso libro intitolato Il capitale nel ventunesimo secolo. Sarebbe diventato uno dei fenomeni editoriali del decennio, con centinaia di migliaia di copie vendute, elogiato da celebrità e premi Nobel. Nonostante le dimensioni (circa mille pagine), Il capitale nel ventunesimo secolo è un esempio interessante di scienza sociale accessibile al lettore medio. Utilizzando decine di grafici e pochissima teoria, Piketty sostiene una tesi molto semplice: dopo un periodo di declino nella parte centrale del ventesimo secolo, la disuguaglianza nell’accumulazione del capitale, all’interno della maggior parte dei paesi del mondo, è tornata ad aumentare in maniera vertiginosa, e continuerà a farlo.
Nel contesto della recessione seguita al crollo dei mercati finanziari, il successo del Capitale nel ventunesimo secolo non è difficile da spiegare. Il messaggio principale — la disuguaglianza è aumentata molto — è accompagnato da un’altra tesi largamente condivisa: la disuguaglianza è aumentata troppo, e dobbiamo intervenire rapidamente per invertire o almeno fermare questo trend.
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Perché siamo passati da Gramsci al PD?
di Alessandro Pascale
Mi è stato chiesto dalla redazione della nuova rivista Cumpanis un contributo sulla storia del PCI, con il tentativo di identificare le “degenerazioni” dell'organizzazione. “Degenerazione” è in effetti una brutta parola, che esprime in sé un netto giudizio politico negativo. È comprensibile che su questo tema si sia preferito utilizzare in passato un più neutro “mutazioni genetiche”, cercando di mantenere un giudizio descrittivo più che valoriale. D'altronde che ci sia stata complessivamente una degenerazione è innegabile. Basta ricordare l'adeguato sarcasmo con cui Costanzo Preve ha denunciato il passaggio “da Gramsci a Fassino” per rendere innegabile questo giudizio negativo. Forse è più corretto parlare di un susseguirsi e di un intrecciarsi di mutazioni genetiche, che sfociano in alcuni punti di svolta, veri e propri passaggi storici, in cui è avvenuto un cambiamento identitario, con un salto quantitativo e qualitativo, che rende il partito complessivamente sempre meno adatto ad affrontare la crisi generale del movimento comunista internazionale degli anni '80. L'insieme di queste mutazioni genetiche ha portato nel tempo ad una degenerazione, cosa acquisita quanto meno nel movimento comunista nostrano. C'è molta divisione invece sull'identificazione e sull'entità delle varie mutazioni genetiche avvenute nel corso della storia del movimento comunista italiano. Tali divisioni analitiche si riverberano purtroppo in divisioni politiche che rendono molto più difficile l'azione egemonica in seno al totalitarismo “liberale” in cui siamo immersi.
Dopo oltre 10 anni di militanza partitica e ricerca storico-politica, non posso certo pretendere di poter esaurire un lavoro di ricerca vastissimo, sul quale molti compagni si sono dedicati con profitto sicuramente maggiore negli ultimi anni.
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Astratto e concreto
di Salvatore Bravo
L’astratto e il concreto sono sincretici, in quanto l’astratto è il movimento di astrazione dal concreto. Ogni teoria è elaborata secondo un doppia movimento: il concreto è analizzato nelle sue innumerevoli variabili in movimento, ma vi è la necessità di astrarre da esse gli elementi principali riconfigurati in strutture stabili, in tale maniere sono sistematizzati. Le categorie che un autore ci offre e dona non sono applicabili in modo pedissequo al concreto, ma devono essere curvate alle diverse condizioni socio-storiche, in cui si è situati e che differiscono dal contesto dell’autore. Vi è sempre uno scarto tra l’autore ed il lettore, il quale dev’essere attraversato con la fatica della riconcettualizzazione.
Costanzo Preve nella lettura di Marx si è posto l’obiettivo di approssimarsi all’autore giudicandolo come autore classico della storia della filosofia. Le categorie e scoperte marxiane non riassumono l’intero del reale, ma consentono di utilizzare paradigmi interpretativi astratti dal reale concreto, i quali devono essere mediati dalle contingenze, e specialmente, devono fungere da forza plastica per elaborare nuovi processi dialettici e di significato. Non pochi marxisti, rileva Preve, nel loro dogmatismo hanno trasformato la parola di Marx in formule da applicare al reale concreto con l’effetto inevitabile di sclerotizzare la pluralità dei modelli organizzativi viventi nella storia in categorie insufficienti alla lettura del reale, la conseguenza è stata una scissione tra partito e storia reale, tra intellettuali e popoli, tale contraddizione adialettica ha favorito il fallimento dell’esperienza comunista:
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Siete pronti a liberarvi dell’economia?
di Bruno Latour
In mezzo al caos, alla crisi globale incombente, al dolore e alla sofferenza, c’è almeno una cosa che tutti hanno colto: c’è qualcosa di sbagliato nell’economia
«Il Capo dello Stato ha deciso di istituire una commissione di esperti internazionali per prepararsi alle grandi sfide», ha scritto Le Monde il 29 maggio e i giornalisti hanno aggiunto: «Si è deciso di preferire una commissione omogenea per profili e competenze, per raccogliere le opinioni degli accademici sulle grandi sfide. Ma il loro lavoro non sarà che un mattone tra gli altri, non esaurirà gli argomenti’, hanno rassicurato dall’Eliseo». Perché non mi sono sentito affatto «rassicurato»? Mi è tornata alla mente la Restaurazione, alla quale la Ripresa dopo il lockdown è probabile che assomigli sempre più: come per i Borboni del 1814, è molto probabile che la suddetta commissione, quantunque composta da menti eccelse, non abbia «dimenticato nulla e non abbia imparato nulla».
Sarebbe invece un peccato dissipare troppo rapidamente tutti i benefici di ciò che Covid-19 ha mostrato essere essenziale. In mezzo al caos, alla crisi globale incombente, al dolore e alla sofferenza, c’è almeno una cosa che tutti hanno colto: c’è qualcosa di sbagliato nell’economia. In primo luogo, naturalmente, perché sembra che se ne possa interrompere il funzionamento in un colpo solo. Non appare più come un movimento irreversibile, che non dovrebbe mai rallentare, né, naturalmente fermarsi, pena il disastro. In secondo luogo, perché tutti coloro che si sono trovati rinchiusi in casa hanno capito che i rapporti di classe, che si sosteneva seriamente che fossero stati cancellati, sono divenuti visibili come ai tempi di Dickens e di Proudhon: alla gerarchia dei valori è stato inferto un duro colpo, che aggiunge un nuovo significato alla famosa massima evangelica: «I primi (in cordata) saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi (nella corvée)»[1] (Matteo,19-30)…
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Il rimbalzo del gatto morto
di Leonardo Mazzei
Non ce ne voglia l’ignaro e simpatico felino, ma l’immagine è perfetta. In Borsa il “rimbalzo del gatto morto” descrive la ripresa, modesta e temporanea, di un titolo destinato a ricominciare alla svelta la sua corsa verso il basso. Che è esattamente quello che sta facendo l’economia italiana, nel suo complesso, dal 2008.
Nella figura sopra questo fenomeno è evidentissimo. Il primo “rimbalzo del gatto morto” si registra nel 2010-2011, poi seguito da una nuova recessione e da una sostanziale stagnazione fino al 2015. Qui inizia la ripresina del 2016-2018, il secondo balzo del micio deceduto, che ci condurrà alla stagnazione del 2019, fino alla catastrofica situazione attuale. Quando il grafico dell’Istat riporterà il tracollo in corso, il disastroso andamento dell’economia italiana risulterà ancora più chiaro.
Ma perché iniziare un articolo sulle prospettive economiche attuali con queste considerazioni? Primo, perché il passato, specie se non si cambia strada, ci parla inevitabilmente del futuro.
Secondo, perché la crisi del Covid è sopraggiunta quando l’economia italiana (e non solo) era già sull’orlo di una nuova recessione. Terzo, perché (come vedremo) tutte le previsioni economiche del momento indicano al massimo un nuovo rimbalzo del gatto morto. Quarto, perché gli effetti di lungo periodo dell’appartenenza all’eurozona solo questo consentono.
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Covid-19, l’opportunità per il progetto di classe dell’Università Italiana
I rapporti di forza non cambiano senza la lotta
di Noi Restiamo
Pubblichiamo questa analisi mentre ci prepariamo a scendere a Roma per la manifestazione nazionale del 10 giugno davanti al MIUR che abbiamo costruito insieme agli studenti medi dell’Opposizione Studentesca d’Alternativa e alle strutture sindacali delle educatrici delle funzioni locali, della scuola, dell’università e della ricerca della USB pubblico impiego. Una data che è il punto di arrivo di un percorso avviato in questi mesi di lockdown dalla campagna blocco affitto e utenze per giovani, studenti e precari e successivamente dai coordinamenti regionali per il diritto allo studio. Appuntamento che rappresenta una convergenza su una progettualità di lungo periodo di forze rappresentative di tutti i soggetti che compongono il mondo dell’istruzione, dell’alta formazione e della ricerca che lottano per un nuovo sistema formativo e di gestione della ricerca e dei saperi svincolati dalle esigenze del mercato e costruito a partire da una comprensione profonda della funzione di crescita generale e collettiva della società. Un punto di resistenza per un rilancio complessivo delle lotte nel mondo della formazione verso un autunno di lotta!
* * * *
In questo contributo analizziamo come la situazione emergenziale legata al diffondersi del Covid-19, virus con il quale probabilmente dovremo fare i conti ancora per diverso tempo, sia un’occasione per accelerare il processo di esclusione sociale e aziendalizzazione dell’istruzione universitaria.Un processo al quale dobbiamo saperci opporre fermamente.
Infatti, quando parliamo degli effetti che la crisi del Coronavirus avrà sull’Università e in generale sulle nostre vite dobbiamo tenere a mente le lapalissiane parole di Vittorio Colao, designato dal governo Conte per guidare la task force della cosiddetta “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese dopo la pandemia sanitaria. Ossia, «abbiamo l’opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi»[1].
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La “vera democrazia”
Introduzione
di Elisabetta Teghil
Elisabetta Teghil, Mai contro sole, Bordeaux 2018
«La “vera democrazia” si attuerà quando saremo tutt* colpevol*.»
La nostra società si sta esprimendo ed ha compiuto atti importanti nella realizzazione dello sfruttamento illimitato. Questa violenza strutturale si è incarnata nell’ideologia neoliberista che è una sorta di macchina infernale e che è stata veicolata attraverso la divinizzazione del potere dei mercati. Sotto gli occhi di tutti ci sono gli effetti di questa nuova organizzazione sociale a partire dalla miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate e lo straordinario aumento del divario fra i redditi. Quindi, un’affermazione scomposta della vita personale intesa come una sorta di darwinismo che instaura la lotta di tutti contro tutti, il cinismo come norma, la ricchezza come premio di questa selezione, la traduzione nella vita quotidiana con l’assuefazione alla precarietà, all’insicurezza e all’infelicità che permea l’esistenza. Con una precarizzazione così diffusa da ridurre il lavoratore/trice a mano d’opera docile sotto la permanente minaccia della disoccupazione. L’aspetto paradossale è che questo ordine economico e sociale si spaccia e si promuove sotto il segno della libertà e addirittura come società armoniosa.
E’ questo un momento storico che produce un inaudito cumulo di sofferenze. Tutto ciò a partire dal dominio assoluto della flessibilità con contratti a tempo determinato, con assunzioni ad interim, con una concorrenza spietata, non più quella tradizionale fra imprese, ma oggi all’interno della stessa impresa tra lavoratore e lavoratore con l’individualizzazione del rapporto salariale, con l’introduzione di colloqui preassunzione e successivamente di valutazione individuale. La valutazione permanente con una forte dipendenza gerarchica, con lo spacciare i lavoratori come categoria di operatori autonomi, con l’estensione a tutti del ”coinvolgimento” si traduce in un iperinvestimento sul lavoro e in una perenne condizione di insicurezza che tende ad abolire i riferimenti e le solidarietà collettive.
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Debito pubblico e lotta di classe nell'Unione europea
di Giulio Palermo
La crisi da coronavirus ha colto di sorpresa l’Unione europea. Quest’ultima era ancora alle prese con la crisi del debito pubblico iniziata nel 2009 e con un sistema bancario molto esposto su questo fronte. Nel campo dell’economia reale, poi, diversi paesi erano in recessione e, nonostante i livelli favorevoli dei tassi d’interesse, gli investimenti rimanevano compressi dalle basse aspettative di crescita e dalle difficili situazioni patrimoniali delle imprese. Sul mercato del lavoro, l’arretramento sul fronte dei salari e dei diritti, in un contesto di precarietà diffusa, non ha affatto stimolato la crescita — come promesso dalle ricette neoliberiste — ma, al contrario, ha compresso ulteriormente la domanda. Il blocco della produzione e le conseguenti tensioni sui mercati finanziari innescati dall’emergenza coronavirus si inseriscono in questo contesto di crisi preesistente.
Prima del coronavirus, l’Unione aveva affrontato la crisi del debito pubblico di singoli stati o, sarebbe più corretto dire, di singole banche. Nel caso della Grecia, ad esempio, la gestione della crisi da parte delle istituzioni europee fu un’abile manovra per salvare le banche francesi, tedesche e olandesi più esposte sui titoli del debito greco e far pagare tutto ai lavoratori greci. Perché una cosa è certa nei rapporti interni all’Unione: gli stati e i capitali nazionali non hanno tutti lo stesso ruolo e lo stesso peso. Dicendo di salvare lo stato greco, in realtà si salvavano le banche dei paesi europei più forti. Il tutto imponendo dure riforme contro i lavoratori greci redatte direttamente dalle istituzioni internazionali.
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Il labirinto del debito pubblico e privato in Italia
di Roberto Artoni
Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, l’Italia ha un forte debito pubblico, ma poco debito privato: nell’insieme ha una posizione più solida di altri paesi europei. Una mappa per non perdersi nel labirinto del debito, della finanza pubblica, delle politiche di bilancio
Nelle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco sul 2019, un passo è dedicato al confronto fra la situazione debitoria del nostro Paese e quella di altri Paesi dell’area euro. In particolare, nelle parole del governatore, “la posizione netta sull’estero dell’Italia ha raggiunto un sostanziale equilibrio”. “La ricchezza netta, reale e finanziaria delle famiglie italiani è elevata. Il debito delle famiglie è basso nel confronto internazionale ed è concentrato presso i nuclei con una maggiore capacità di sopportarne gli oneri“. “Nel complesso il debito era pari al 110 cento del Pil, oltre 50 punti in meno del valore medio dell’area dell’euro”.
Nella figura qui sotto è rappresentato il debito pubblico e privato in percentuale del prodotto interno di vari Paesi. Il debito pubblico italiano è pari al 130 % del Pil, contro poco meno del 100 % di Francia e Spagna; è invece sensibilmente inferiore in Olanda e Germania (intorno al 50 %). Il quadro è radicalmente diverso se si esaminano i debiti finanziari delle famiglie e delle imprese. In Olanda si raggiunge lo straordinario livello del 250 %, in Francia il 200 %, il 150 % in Spagna; infine, Italia e Germania si collocano intorno al 100%.
Questi dati devono essere ulteriormente elaborati se si vuole ottenere una descrizione più precisa della situazione finanziaria dei diversi Paesi, e individuare le opzioni di politica economica e istituzionale appropriate.
E’ mia opinione, infatti, che le analisi correnti tutte concentrate sul rapporto debito pubblico prodotto interno non rappresentino in modo compiuto la situazione finanziaria o le prospettive economiche e finanziarie che possono derivarne.
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In quale stato versa il padronato italiano?
Per una fenomenologia di Confindustria
di Lorenzo Delfino e Giacomo Salvarani
Dal negazionismo all’economia di guerra. La crisi
Il confindustriale è uomo pratico. Un secolo di addomesticamento nel capitalismo italiano ha reso mediocri le sue ambizioni. Decenni di gestione industriale l’hanno trasformato in un individuo refrattario a ogni avventura. Verrebbe perciò da sé credere che quest’abitudine a porsi solo problemi che può facilmente risolvere abbia portato il confindustriale a essere un capitalista discretamente realista. Non è così. Certo, il confindustriale per sua natura non può che detestare la fantasia, ma allo stesso tempo non si può nemmeno dire che apprezzi sempre la realtà!
A chi legge forse basteranno due istantanee del mese di marzo 2020 per suffragare questa nostra convinzione, restituendoci un perfetto spaccato della parabola schizofrenica che ha vissuto il povero confindustriale, che si è trovato prima a dover negare e poi pervertire la realtà. Il giorno 11, Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, dall’interno di una zona rossa del paese in cui si fa la fila anche per essere cremati, non esita a dichiarare: “Le fabbriche sono oggi il posto più sicuro”! È difficile per il confindustriale ammettere che qualcosa possa smuovere la sua realtà, che qualcosa possa sospendere i suoi profitti e la sua fetta di potere acquisito ormai tramandato per generazioni: questo lo manda su tutte le furie. Infatti, il confindustriale non si arrabbia solo per i soldi, a irritarlo davvero è l’idea che lo Stato possa dirgli cosa fare e che i suoi dipendenti poltriscano a casa, senza poterli licenziare. Non può proprio sopportarlo. Non può sopportarlo al punto che, dovendo fare i conti con la sua realtà, molti e molte dei suoi dipendenti non hanno poltrito mai, anzi. Nella lombarda Confindustriopolis, fiore all’occhiello della produzione nazionale, il 40% di operai e operaie non ha mai giovato del lockdown nazionale sulle poltrone di casa: il lavoro loro non si è mai interrotto.
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Il virus di Trump. Covid-19 e rapporti internazionali
di Andrea Catone*
Testo per l’Accademia marxista presso la CASS - Chinese Academy of Social Sciences
1. Due linee contrapposte. Il Covid-19 è un terreno di scontro tra progresso e reazione
È opinione comune che la pandemia, tuttora in corso, segni un punto di svolta nella storia mondiale, per cui si parlerà di un mondo prima e dopo il Covid-19. La pandemia ha aperto nel mondo una fase di crisi, che riveste caratteri generali, comuni a tutti i Paesi e si interseca con caratteri particolari propri di ciascun Paese. Come è stato per ogni crisi nella storia dell’umanità, anche questa crisi è aperta sostanzialmente verso due soluzioni antitetiche:
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Verso uno sbocco progressivo, che farà fare un importante passo avanti nel percorso storico dell’umanità, verso la realizzazione di quegli ideali di libertà, uguaglianza, solidarietà, sviluppo onnilaterale della persona umana (Marx) che furono alla base della rivoluzione francese del 1789 e poi delle rivoluzioni socialiste del XX secolo.
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Oppure uno sbocco regressivo, che bloccherà per una fase storica lo sviluppo umano, che costituirà un arretramento nelle istituzioni politiche, economiche, sociali, che produrrà maggiore disuguaglianza, maggiore povertà, maggiori ingiustizie sociali, accrescendo il pericolo di guerra.
Il Covid-19 è un terreno di scontro tra progresso e reazione.
Già nel corso di sviluppo della pandemia e della sua diffusione con ritmi, tempi, modalità ineguali nelle varie aree e Paesi del mondo e del contrasto ad essa, si sono manifestate due opposte tendenze:
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‘È il virus economico, stupido!’. Naturalizzazione della crisi e ritorni al futuro del capitalismo zombie
di Fabio Vighi
La risposta globale alla crisi da coronavirus ha visto, da una parte, la richiesta incondizionata del ritorno a una fantomatica ‘normalità’, e dall’altra l’intervento massiccio delle banche centrali impegnate nell’esercizio, ormai dilagante, della creazione di fiumi di denaro dal nulla. Ma mentre il futuro torna al passato e la crisi si naturalizza, il capitalismo va esaurendo i conigli da estrarre dal proprio cilindro
Nel mettere in ginocchio la catena di montaggio globale, il virus ci ha posto di fronte a una scelta ontologica, di quelle che capitano una sola volta nella vita: o tornare alle condizioni preesistenti, o iniziare a politicizzare forme di socializzazione alternative a quelle che ci hanno portato il contagio. Per quanto rivelatasi illusoria, l’apertura dello sguardo sul possibile di ‘un altro mondo’ è stata senza dubbio l’unica conseguenza entusiasmante dell’isolamento da pandemia. In questo senso, però, è significativo osservare come tutti i dibattiti mediatici su Covid-19 siano stati predefiniti dal mandato ideologico del ripristino dello status quo ante. Per quanto la crisi possa aver prodotto, nel nostro immaginario, scenari sociali diversi da quelli imposti dalla circolazione del capitale, in modo fin troppo prevedibile ha trionfato l’esigenza del ritorno al business as usual. Almeno una cosa, dunque, è certa: la risposta globale alla pandemia conferma la nostra rinuncia a mettere in discussione le basi materiali e ideologiche di una società del lavoro ormai avviata all’implosione. Evidentemente, si dirà, non siamo ancora pronti a investire energie e passioni politiche nella progettazione di un altro modello sociale – ma, si potrebbe controbattere, se non ora, quando? L’irresistibile bisogno di ‘normalità pre-covidiana’ sembrerebbe ratificare la nostra perversa sottomissione ai diktat di una forma esausta di razionalità economica che continua a essere vista come l’unica strada percorribile, nonostante le voragini che ormai ci inghiottono. In estrema sintesi, l’accumulazione capitalista deve continuare ad absurdum.
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La crisi? Inizierà a settembre. E assomiglia purtoppo al 1929
di Maurizio Novelli, Lemanik
L’esasperazione del modello basato sui profitti generati da un eccesso di leva finanziaria e da una finanza fuori controllo ha fallito. E ha prodotto il risultato opposto: la nazionalizzazione del sistema causata da eccessi di speculazione finanziaria, esattamente quanto accaduto dopo la crisi del 1929
La fine del lockdown può certamente indurre a pensare che la crisi sia ormai in fase di superamento e da qui in avanti possiamo iniziare a scontare una ripresa dell’attività economica ed un ritorno alla normalità. Ma in realtà, la crisi inizia adesso.
Più passa il tempo e più emerge chiara la sensazione che il settore finanziario non sembra aver capito l’impatto e le implicazioni di lungo periodo di questi eventi né di quello che accadrà all’economia reale.
Sebbene le analisi di consenso si concentrino in prevalenza sui rischi di ricadute dovute a possibili ritorni del contagio, è molto più importante pensare alle conseguenze economiche che ci attendono senza ulteriori ipotesi.
Ipotizzare altri danni provenienti dai rischi di un ritorno dei contagi non credo sia un esercizio utile, anche perché se dovesse accadere, tutti siamo consapevoli di quello che potrebbe accadere. È molto più interessante invece cercare di capire cosa ci si puo’ attendere, dando per scontato che il problema pandemico sia risolto, e ipotizzando quindi uno scenario “virus free”.
L’economia mondiale è arrivata all’appuntamento con il Covid 19 nella peggiore delle situazioni possibili, con alta vulnerabilità al debito e alla leva finanziaria speculativa, e la pandemia ha avuto un effetto catalizzatore su tutta una serie di problemi che ormai erano evidenti da tempo.
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Dirsi socialisti oggi? Parliamo di democrazia economica e autogestione
di Jacopo Foggi
Lasciamo un attimo le miserie del nostro presente e proviamo a riprendere il filo delle grandi questioni di fondo. Visto che negli ultimi anni si è più o meno ricominciato a parlare con una certa forza di socialismo e neosocialismo, e visto che, contrariamente a quanto pensano i nostri battaglieri anti-sovranisti, vi sono innumerevoli persone dall’indiscutibile profilo democratico che si riconoscono apertamente anche in principî schiettamente “comunisti”, vorrei azzardarmi a gettare alcuni sguardi che esplicitino e chiariscano aspetti e concezioni provenienti da queste tradizioni nei quali possano riconoscersi anche i moderni socialdemocratici, e che mi sembrano più utili ad orientare una politica ispirata a tali concetti – per altri e molti ovvi aspetti ormai irrimediabilmente compromessi e irricevibili. Qui cercherò di restare su un piano ancora generale e limitato ad alcuni principi economici, data l’impossibilità di presentare compiutamente e in poche pagine tra i concetti più discussi e dibattuti degli ultimi due secoli.
La ripresa di un’idea di comunismo e socialismo che sia capace di integrare in sé anche i valori democratici fondamentali della nostra tradizione europea (dall’Habeas Corpus alla divisione dei poteri e alle libertà di movimento, associazione, parola, espressione, religione, ecc.), cioè che non corra il rischio di ammiccare e prestare il fianco a forme sempre latenti di negazione del pluralismo, deve a mio avviso basarsi in particolare sui concetti di democrazia radicale, e di democrazia economica.
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Sintesi sociale, forma delle merci e legge del valore
di Bollettino Culturale
La merce fu il punto di partenza di Marx per la sua critica al capitalismo. Può essere definito come il prodotto del lavoro umano mediato dallo scambio. E ciò che chiamiamo "forma delle merci" non è altro che la trasformazione dei prodotti del lavoro in merci. Ma la merce sarebbe un elemento caratteristico, specifico o addirittura esclusivo del modo di produzione capitalista? Quando e dove il prodotto del lavoro umano è apparso per la prima volta in forma di merce?
Queste domande sono importanti, poiché la teoria di Sohn-Rethel si basa sul presupposto che la forma delle merci ha assunto un ruolo importante, come nesso sociale, sia nell'Antica Grecia che nel capitalismo. La domanda a cui dobbiamo rispondere, quindi, è: come possono gli stessi elementi (merce e denaro o forma di merce) costituire allo stesso tempo la sintesi sociale dell'Antica Grecia e del capitalismo, e di conseguenza offrire forme di conoscenza diverse, rispettivamente la filosofia greca e la scienza moderna? Questo problema ci impone di abbandonare la teoria di Sohn-Rethel o, al contrario, possiamo specificarla in modo che questa incoerenza possa essere risolta?
Sembra consensuale concepire l'emergere delle merci molto prima dell'emergere del capitalismo. E non solo per la merce, ma anche per il denaro. Tuttavia, la data esatta è molto difficile da specificare. Lo scambio di merci, secondo Engels, risale "a un'era precedente a tutta la storia scritta, che risale in Egitto ad almeno 3.500, forse 5.000 anni, a Babilonia, a 4.000 e forse 6.000 anni prima della nostra era".
Sohn-Rethel calcola che il denaro è diventato necessario dal VI secolo a.C. nelle transazioni verso l'estero per l'acquisizione di cereali da Naukratis e Ponto e per l'acquisizione di olio d'oliva e vino dall'Attica.
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Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere
di Alessandro Visalli
Su “La fionda” si sta svolgendo un dibattito di grande interesse che ha preso avvio il 21 maggio con un articolo[1] di Rolando Vitali, per poi alimentarsi in particolare con il denso articolo[2] di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti del 27 maggio, e al momento concludersi con il pezzo[3] del 4 giugno di Lorenzo Biondi. La posta di questo scambio è l’analisi strategica del presente e delle forze che in esso si muovono, e quindi l’identificazione delle azioni politiche e relative alleanze. Dunque, è una posta di primaria importanza.
Per confrontarsi con queste posizioni bisognerà ricostruire gli argomenti portati, in particolare dall’articolo centrale, e descrivere cosa sta accadendo in questa fase, quale è la forza che muove la situazione, come si può tentare di reagire ad essa.
Parte prima: l’argomentazione.
L’articolo di Melegari e Capoccetti, che svolge un ruolo centrale di sistemazione delle analisi e dei concetti, muove dal corretto sentore di un disastro incombente sul paese per dedurne l’urgenza di un’azione e, insieme, da quella che chiama “asfissia politica” dell’area del sovranismo costituzionale, democratico e di ispirazione socialista, al quale sente di appartenere. Ed al quale sono diretti, di converso, gli strali polemici di Vitali. Chiama “asfissia”, ovvero la mancanza di fiato e quindi di vita, “politica” la condizione nella quale si respinge l’energia vitale degli unici che effettivamente si muovono. Questa mossa è prodotta, a loro parere, da una non ben chiara, ritrosia a comprendere, o ad accettare, che la presunta dicotomia tra la piccola borghesia ed i ceti dei lavoratori dipendenti proletari sia stata ormai definitivamente superata, o almeno confusa, dalle trasformazioni neoliberali seguite al crollo del “compromesso keynesiano”.
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Attenti a quei due
di Giuseppe Germinario
La videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione della von der Leyen al Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione Europea, almeno nelle intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità. Lo stile adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente. Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto alla ricorrente tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole e rozza retorica intrisa di lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del clamore di tanti precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una battaglia politica vera tra i vari paesi europei e all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle classi dirigenti più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha confermato una volta di più l’attendismo e la passività del ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli uni hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli altri hanno mostrato scetticismo sulla sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle procedure e ai canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per credere!
Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo.
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La millenaria oppressione delle donne?
Elementi di una critica del femminismo
di Marino Badiale
I. Introduzione
Questo scritto vuole essere l’inizio di un lavoro di discussione critica di alcuni punti della visione femminista del mondo e della storia. Credo sia giusto provare a fare questo lavoro perché il femminismo (e più in generale, il “politicamente corretto”) è ormai diventato uno dei pilastri ideologici delle moderne società occidentali, e mi sembra doveroso esaminare criticamente i fondamenti razionali di tale visione del mondo e indicarne le debolezze. È curioso il fatto che questo lavoro critico sembra negletto, almeno all’interno del mondo intellettuale “ufficiale” (in particolare nell’accademia). Esiste certamente una produzione intellettuale di critici del femminismo (che si esprime tramite libri e, soprattutto, sul web), ma si tratta di elaborazioni che restano marginali e minoritarie. Sembra cioè che, mentre nel mondo intellettuale occidentale si può essere individualisti o comunitaristi, keynesiani o antikeynesiani, pro-Stato oppure pro-mercato, marxisti o antimarxisti, non si possa essere antifemministi. Questo è di per sé un tema interessante di riflessione, ma non è il tema di questo scritto. Preciso solo che, per quanto mi riguarda, “antifemminismo” non significa contestazione della tesi dell’uguaglianza fra gli esseri umani e della sostanziale unità del genere umano. Non è questo che intendo parlando di “critica del femminismo”; intendo piuttosto la critica di una interpretazione del mondo e della storia. Intendo cioè dire che nel mondo intellettuale contemporaneo vi è una notevole produzione di tesi e affermazioni di tipo femminista che riguardano la realtà degli esseri umani, presenti e passati, e che mi sembra un lavoro necessario quello di prendere in esame alcune di queste affermazioni per saggiarne la solidità, e rifiutarle se appaiono infondate. È questo il compito che mi propongo, in questo intervento e in altri che seguiranno.
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Il fascismo in Brasile
Diario alla vigilia di un possibile colpo di stato
di Alessandro Peregalli
Mentre il Brasile è già il secondo paese per numero di contagi di Covid-19, nonostante mantenga l’indice più basso di tamponi del Sudamerica (0.62ogni 1000 abitanti), e veleggia ormai spedito verso il secondo posto anche per numero di morti, una crisi politica sempre più acuta si innesta, e si potenzia vicendevolmente, con la crisi epidemica. Non si tratta di una semplice crisi “di governo”, è la crisi della democrazia liberale brasiliana.
Da alcuni anni, con la crescita esponenziale dell’estrema destra in tutto il mondo, si sprecano i paragoni tra il presente momento storico e quella che Eric Hobsbawm ha chiamato “Era della Catastrofe” (1914-45), e sulla possibilità o meno di parlare di fascismo contemporaneo. Il problema si pone a partire da due domande. La prima: le diverse espressioni della nuova destra, dal trumpismo negli USA al lepenismo in Francia, da Lega e FdI in Italia a Vox in Spagna, da Jair Bolsonaro in Brasile a Narenda Modi in India, da Viktor Orbán in Ungheria a Rodrigo Duterte nelle Filippine, da Tayyip Erdogan in Turchia al governo golpista ucraino, si possono tutte definire alla luce dell’espressione “neofascismo”? La seconda: laddove questi personaggi e forze politiche sono giunti al governo, hanno portato alla creazione di regimi politici fascisti?
E’ difficile dare risposte univoche a queste domande. E’ però evidente che esistono alcuni elementi comuni al di là delle specificità dei singoli contesti, considerando che anche i fascismi storici furono esperienze ben più eterogenee tra loro di quanto l’adozione di modelli “classici” faccia sembrare. E che, tanto nel caso dei fascismi storici come in quello delle nuove destre, si tratta di fenomeni che appaiono in momenti di turbolenza globale e di profonda crisi di riproduzione sociale del capitalismo.
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