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Il Circo Liberale – Dal Ferro arrugginito su Marx (1/3)
di Sergio_LON
“Il Circo Liberale” nasce con l’intento di discutere, criticamente e con un linguaggio tagliente, autori e intellettuali del pensiero liberale. Inauguro la rubrica con una serie di tre articoli su Riccardo Dal Ferro, divulgatore del pensiero liberale su youtube
Introduzione
Vorrei iniziare questo scritto porgendo le scuse ai miei pochi lettori. Avrei infatti voluto inaugurare questa rubrica partendo dalla critica di un autore classico del liberalismo, o che perlomeno sia considerato come una loro punta di diamante (un Popper, per esempio). Ma la mia poca tolleranza per le bestialità mi costringe ad iniziare da un divulgatore. Non solo: mi costringe ad iniziare da un divulgatore che ha una fastidiosissima sindrome della vittima. Nella live apparsa sul canale del Cerbero Podcast infatti, Riccardo Dal Ferro si è prodigato nel tentativo di spiegare il pensiero di Marx. Il risultato è stato analogo a quello che sarebbe accaduto se Adolf Hitler fosse stato chiamato a spiegare biologia: un pasticcio tragicomico. Comico, per la grande quantità di assurdità inanellate una dietro l’altra senza la minima coscienza di starle dicendo; tragico, perché il tipo ha una notevole influenza. Vorrei però spezzare una lancia in favore del leader nazionalsocialista: non avendo Hitler una laurea in biologia, è normale che dica idiozie su quel campo.
Cosa c’entra questo col vittimismo? Nel video, Rick si fa ripetutamente beffe di uno strawman del marxista, secondo cui “solo i marxisti possono parlare di Marx” (ponendolo in analogia con un altro strawman, quello del femminista, secondo cui “solo le donne possono parlare di femminismo”). Il sottotesto retorico è semplice: “povero me, so già che i marxisti che mi criticheranno lo faranno con argomenti stupidi!” Ma io voglio rassicurare il nostro furbacchione, e dirgli, con una carezza, che lui può parlare di ciò che vuole, finché lo fa con buoni argomenti.
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Gli Usa sono fottuti, parola di finanziere
di Claudio Conti
In calce un intervento di Maurizio Novelli
Dare un’occhiata a quel che pensano e scrivono gli “operatori sul mercato” (finanzieri, ossia “investitori professionali”) è sempre molto interessante. Permette infatti di vedere cosa c’è al di sotto dell’oceano di pessima informazione depistante che sgorga dai media mainstream.
Per la terza volta ci ha colpito l’analisi di Maurizio Novelli, del fondo di investimento svizzero Lemanik, che con grande disinvoltura elenca problemi del capitalismo attuale senza troppi giri di parole né rassicurazioni consolanti per i non addetti ai lavori.
Il titolo, anche stavolta su Milano Finanza, è decisamente “acchiappesco”: Perché è il momento di vendere Usa allo scoperto.
Le “vendite allo scoperto” sono una tecnica di mercato finanziario con cui si vendono titoli (azioni, bond statuali o aziendali, prodotti derivati, ecc) che non si possiedono. Come si fa? Ce li si fa “prestare” a termine prefissato, con la garanzia di restituirli al prezzo che avranno a quella scadenza.
Di fatto, una volta avuti li si vende massicciamente al prezzo di oggi, quindi si provoca un’offerta esagerata di quei titoli sul mercato, dunque un abbassamento drastico del loro prezzo in modo da resituirli avendoci guadagnato la differenza tra il prezzo attuale e quello futuro abbassato scientemente.
Speculazione pura, certo, ma dagli effetti molto reali.
Ma perché un finanziere svizzero (di lingua italiana) è pronto a speculare su titoli statunitensi di ogni tipo manco fossero i Cct italiani ai tempi della lira?
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Il gioco tedesco
di Leonardo Mazzei
Ci siamo già occupati della virulenta campagna politico-mediatica a favore del Mes che imperversa ormai da settimane nel nostro Paese. Abbiamo spiegato come la volontà di attivare questo meccanismo niente abbia a che fare con le enormi necessità economiche dell’Italia. Cosa c’è allora dietro a tanta foga, a tante falsità diffuse a piene mani dalle forze sistemiche? Ecco una domanda che può portarci lontano.
Ricapitoliamo anzitutto i termini della questione. Qualora attivato il Mes può fornire all’Italia un prestito pari al 2% del Pil, in soldoni 36 miliardi di euro. La propaganda vorrebbe farci credere che, a differenza di quello “vecchio”, il “nuovo” Mes sia privo di stringenti condizioni, ma – come abbiamo spiegato qui – ciò è falso. Al “nuovo” Mes si accede sì incondizionatamente, ma le regole statutarie di questa trappola ammazza-Stati scatteranno per statuto subito dopo.
Il Mes non è però figlio unico. Esso fa invece parte di un’allegra famigliola di tre pargoli generati dall’oligarchia eurista. Gli altri due fratelli si chiamano Sure e Recovery fund (adesso rinominato dalla fantasiosa anagrafe brussellese come Next generation EU). Secondo la narrazione prevalente delle èlite italiote, i tre fratelli (Mes compreso) sarebbero ormai pura espressione del bene, manifestazione quasi ultra-terrena di una solidarietà europea mai vista né conosciuta finora. Ed anche per i più prudenti, la generosa natura dell’ultimo nato, il Recovery fund, basterebbe comunque a bilanciare il proverbiale cattivo carattere del primogenito. Peccato che sia la solita menzogna, visto che il Recovery fund altro non è che un Mes più grande, dove al posto delle “condizionalità” ci sono le “riforme”. Il che, in linguaggio eurista, se non è zuppa è pan bagnato.
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Anschluss, l'ultima lezione di Vladimiro Giacché
di Leo Essen
È da poco uscita per Diarkos una nuova edizione del fortunato libro di Vladimiro Giacché «Anschluss. L’annessione». Non si tratta di un raffinato esercizio culturale (alla francese), ma di un brutale abbattimento o de-costruzione (Rückbau) di tutti i luoghi comuni sulla Germania.
Il libro racconta la storia di come uno Stato, la RDT o Germania Orientale, orgoglio industriale del blocco sovietico, sia stato annesso alla Germania Occidentale e fatto regredire ad uno stadio preindustriale.
Dopo il passaggio del rullo capitalista, nei grandi centri industriali di Lipsia, Merseburgo, Magdeburgo, Vittimberga, Halle, Bitterfeld, Eggesin erano rimasti in piedi solo la pubblica amministrazione, l’artigianato, il commercio e il turismo.
Come conseguenza dell’annessione tutti i titoli di studio e le carriere apicali, come quelle degli amministratori delegati, dei quadri industriali, dei giudici, dei maestri e dei professori, degli avvocati, eccetera, furono azzerati. Stimati luminari, come il professore universitario Horst Klinkmann, quando non furono arrestati e condannati, furono sbattuti fuori dai loro posti di lavoro. Nemmeno il regime nazista era riuscito a far peggio.
La furia liquidatoria nei confronti della RDT giunse sino al punto di far pagare ai tedeschi orientali non solo i debiti contratti dal regime precedente, ma anche debiti inesistenti.
In una ragioneria impazzita il debito verso i soci di tutte le imprese della RDT, dunque il capitale di rischio, non venne considerato come il pareggio contabile dell’attivo. L’attivo venne assimilato ai rottami ferrosi, mera sopravvenienza di archeologia industriale di valore contabile pari a zero. Mentre il passivo venne assimilato a debiti verso terzi, debiti giustificati contabilmente da insussistenze passive, ovvero da ammanchi di cassa, dovuti a ruberie e distrazioni di fondi.
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Composizione della classe operaia e frammentazione
di Fronte militante per la ricostruzione del partito comunista
Le frammentazioni sono il frutto del lavoro del capitale contro i lavoratori
Nei partiti comunisti della III Internazionale l’analisi delle composizioni di classe era uno strumento metodologico fondamentale, derivante dall’applicazione diretta del materialismo scientifico di Marx e Lenin, propedeutico ad ogni sviluppo analitico di un contesto dentro una fase politica determinata.
La prima esperienza di un tale lavoro, a partire dall’iterazione prassi-teoria-prassi, fu realizzata da Marx ed Engels, con quest’ultimo attore e testimone diretto, intorno alla composizione della classe operaia britannica nella prima metà del secolo XIX. In quel Paese si erano succedute in tempi brevi sia la prima che la seconda rivoluzione industriale, non solo grazie alle invenzioni scientifico-tecniche che le connotarono (telaio meccanico + macchina a vapore), quanto per l’enorme accumulazione primaria che l’impero britannico riusciva a realizzare grazie alle politiche, particolarmente aggressive e piratesche, messe in atto dal suo espansionismo coloniale, a sua volta reso possibile da una marina mercantile imponente, appoggiata da una marina militare tecnologicamente avanzata. Solo la potenza cinese avrebbe potuto, in quel secolo, ma già nel secolo precedente, anticipare quei ritmi e quelle quantità di accumulazione primaria, necessari al salto di paradigma verso una società capitalistica matura. La scelta di politiche puramente mercantili, accompagnata dalla scelta di tecnologie navali che, escludendo le chiglie profonde, avevano limitato le rotte della imponente marina mercantile cinese al solo cabotaggio, avevano bloccato l’evoluzione verso l’applicazione delle tecnologie ad un’economia industriale.
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Salvini, un liberista fuori dal tempo (e dalla Costituzione)
di Thomas Fazi
L’altro giorno, a Piazza del Popolo, Matteo Salvini ha citato per l’ennesima volta uno dei suoi modelli di riferimento, Margaret Thatcher: «Non esiste libertà, se non c’è libertà economica». È uno dei mantra dei neoliberisti. L’idea di fondo è semplice quanto stravagante, ovverossia che i mercati sono fondamentalmente autoregolantesi e dunque che questi, se lasciati a sé, cioè con la minor interferenza possibile da parte dei governi (riassumibile nello slogan “meno tasse, meno burocrazia”), sono in grado di generare automaticamente crescita, stabilità sociale e piena occupazione (purché i lavoratori siano disposti ad accettare qualunque salario venga loro offerto, essendo questo il risultato del “naturale” meccanismo della domanda e dell’offerta).
Peccato che sappiamo almeno dagli Venti-Trenta del secolo scorso che l’economia capitalistica non funziona così: la crisi finanziaria del 1929 e la successiva Grande Depressione dimostrarono non solo che i mercati (in particolare quelli finanziari), se “lasciati a sé” tendono a generare enormi bolle e squilibri che finiscono inevitabilmente per scoppiare, portando giù con sé l’intera economia; ma anche che il mercato, da sé, non è assolutamente in grado di garantire la crescita e la piena occupazione, soprattutto in seguito a una crisi finanziaria, poiché queste sono determinate da quella Keynes chiamò “domanda aggregata”, cioè dalla quantità di beni e servizi complessivamente richiesta dai soggetti economici, che può essere sostenuta solo da un attore “esterno” al mercato – il tanto vituperato governo, ovviamente –, attraverso la politica di bilancio e in particolare la spesa in disavanzo.
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Keynes e la verità del capitalismo
di Salvatore Bravo
La verità del capitalismo nella sua fase imperiale è resa palese dai trattati di pace, i quali non sono che saccheggi in nome della legge del più forte. In tal modo ogni pace non è che la premessa per una futura guerra, ogni pace è già guerra. Il capitalismo imperiale non conosce che la verità della guerra, con la quale non solo consolida le sue strutture e risolve le crisi di sovrapproduzione, ma specialmente con la guerra perenne il capitalismo rende visibile la sua verità: la violenza dell’accaparramento e del saccheggio sono l’epifenomeno dell’illimitato che lo muove, ogni legge razionale e ogni misura sono polverizzate dal movimento onnivoro del capitale.
Il trattato di Versailles (1919) non fu che la continuazione della guerra che l’aveva preceduta. Keynes ne analizza gli effetti e le novità inaudite profetizzando che la violenza della pace sarebbe stata la madre delle future guerre. Nel trattato il popolo tedesco è privato delle sue proprietà private, l’aggressione alle ricchezze private è il vulnus che contribuirà a portare il popolo tedesco verso il nazionalsocialismo. La violenza subita, l’irrazionalità dei provvedimenti, si trasformerà nella tempesta di fuoco che si abbatterà sull’Europa e sul pianeta. I beni dei tedeschi nelle colonie e nei territori persi vengono espropriati a favore degli alleati, in nessun trattato di pace era stata messa in atto l’espropriazione dei beni privati, il diritto internazionale è così calpestato in nome del plusvalore, l’unica vera legge che guida i destini degli stati e dei cittadini è la rapina per legge e per sistema:
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Da Raniero Panzieri alla rete-fabbrica-integrata
Noi, forza-lavoro del padrone Gafam
di Lelio Demichelis
Cambia e continua a mutare – oggi sembrerebbe addirittura smaterializzarsi – la forma della fabbrica. Ma in realtà (e per avere conferma di questa tesi rileggiamo ora il pensiero analitico di Raniero Panzieri, dopo averlo fatto, nelle settimane scorse con quello di Claudio Napoleoni[1]), se sembra cambiare la forma resta invece immutata la norma di funzionamento della fabbrica, cioè: suddividere/individualizzare per poi totalizzare/integrare/connettere ciascuna parte, uomini compresi, in qualcosa di maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise.
Una norma appunto sempre uguale, semmai sempre meglio perfezionata, generalizzata e pervasiva/pervadente – applicata all’operaio pre-fordista e poi all’operaio-massa fordista-taylorista come oggi all’operaio massa (o in forma di folla) individualizzato di quella che chiamiamo rete-fabbrica-integrata-globale. Sempre uguale e figlia dell’industrialismo e del positivismo ottocenteschi (e prima ancora, della rivoluzione scientifica), ma soprattutto della totalizzante razionalità strumentale/calcolante che ci domina dall’inizio della rivoluzione industriale al digitale di oggi. Digitale – così come ciò che il neo-operaismo definisce capitalismo cognitivo (Vercellone) o capitalismo bio-cognitivo (Fumagalli: “un concetto del tutto materiale, che nulla ha di etereo o sganciato dalla realtà dei corpi, ma che si incarna proprio nella messa in produzione delle facoltà di vita, dei corpi e della loro trasformazione in parti meccaniche e/o in processi di mercificazione”[2]) – che non rappresenta però un cambio di paradigma e neppure un momento di rottura con il sistema precedente (come pensano i neo-operaisti, ma non solo), ma solo la sua ultima fase evolutiva secondo l’essenza (infra) di tecnica e capitalismo.
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La storia della terza rivoluzione industriale*
5-La nuova povertà di massa
di Robert Kurz
Quinto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Nel frattempo nessuno dubita più del fatto (ormai incontestabile anche empiricamente) che le avanzate della crisi degli anni Ottanta e Novanta, associate agli effetti della ritirata dello Stato dalle sue responsabilità sociali e della crociata neoliberale, abbiano provocato la peggiore ondata di impoverimento di massa dalla prima fase del XIX secolo. Tutte le residue speranze, risalenti all’epoca fordista delle ex-regioni coloniali, in uno “sviluppo” autonomo nel quadro del mercato mondiale capitalistico si sono volatilizzate. La maggior parte del cosiddetto Terzo mondo è finita completamente in rovina, da ultimo perfino i pochi paesi del Sud-est asiatico, la cui industrializzazione di recupero sembrava avere avuto successo. In paesi come la Corea del Sud, la Thailandia, l’Indonesia o la Malaysia questa spaventosa disillusione, il brusco allontanamento dalla tavola imbandita del consumo da società pienamente industrializzata, poco dopo esservisi accomodati, si è lasciata alle spalle conseguenze traumatiche. Questa esperienza deve essere ancora più spaventosa negli Stati in via di disintegrazione della ex-URSS e in tutta l’Europa Orientale, dove era esistito per decenni un sistema industriale con tutti i crismi nelle forme del capitalismo di Stato, anche se con un livello di consumo inferiore rispetto all’Occidente. In questi paesi, nel giro di pochi anni, gli standard raggiunti in tutti i settori dell’esistenza sono stati completamente spazzati via. Adesso però anche in Occidente intere regioni e settori della popolazione sempre più ampi stanno sperimentando una discesa altrettanto traumatica nella povertà di massa, partendo per giunta da un livello di vita più elevato. Come molti neoliberali, Orio Giarini e Patrick Liedtke, gli autori del più recente rapporto del “Club di Roma”, riconoscono la crescente povertà di massa globale e la contraddittoria esistenza di una quantità immensa di risorse con parole asciutte:
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Il virus dell'occidente
di Stefano G. Azzarà
Stefano G. Azzarà: Il virus dell'Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d'eccezione, mimesis, 2020
La pandemia ha fatto emergere le contraddizioni delle società capitalistiche - stremate da decenni di politiche neoliberali all’insegna della guerra ai salari e ai diritti delle classi subalterne, delle privatizzazioni, della deregulation e dello smantellamento del Welfare - che le hanno rese sempre più disuguali. Incapace di immaginare un modello di società diverso e certo della propria eternità, l’Occidente ha creduto che il “virus cinese” colpisse solo i paesi arretrati o ritenuti autoritari e che mai potesse diffondersi nelle efficienti e trasparenti società liberali. Invece di prendere sul serio l’esperienza di altre realtà che hanno gestito meglio l’emergenza grazie alla capacità dello Stato e della politica di guidare l’economia e la produzione subordinando gli interessi privati a quelli della maggioranza, ha negato loro ogni riconoscimento, fino a procurarsi da solo un rischio estremo per eccesso di hybris. A questa incapacità suicida di aprirsi all’altro non è sfuggito il dibattito filosofico: sia le posizioni dirittumaniste astratte ispirate al liberalismo universalista, sia il sovranismo particolarista e populista – che del liberalismo rappresenta non l’alternativa ma una scissione conservatrice – condividono infatti di fronte allo stato d’eccezione il suprematismo occidentale, con il rifiuto di elaborare un universalismo concreto e di pensare una diversa configurazione del rapporto tra individuo, società civile e Stato ma anche dei rapporti tra le nazioni.
“Proprio il mancato riconoscimento dell’altro… ha impedito il riconoscimento della realtà stessa; impedendo al contempo di prendere le necessarie precauzioni ed esponendo l’Occidente a un rischio autoprocurato per eccesso di sicurezza e per presunzione di civiltà: in una parola, per hybris”.
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Dibattiti sul problema dell’imperialismo: John Smith contro David Harvey
di Alessandro Visalli
Leggeremo in questo post un serrato dibattito tra un ricercatore indipendente inglese, John Smith, e il famosissimo geografo marxista David Harvey. Smith attacca il libro “La guerra perpetua”[1] nel saggio “Come David Harvey nega l’imperialismo”[2], e la replica dello stesso Harvey al libro di Prabhat e Utsa Patnaik “A theory of imperialism”, che abbiamo già letto[3]. Ci sarà quindi la replica dello stesso Harvey[4] e la controreplica di Smith[5]. Inoltre, per allargare lo sguardo, presteremo attenzione all’intervista a Utsa Patnaik, “Storia agraria e imperialismo”[6] al libro di John Smith, “Imperialism in the Twenty-First Century”, vincitore del “Paul A Baran – Paul M Sweezy Memorial Award”[7], ed alla recensione di Michael Roberts[8].
Cominciamo dalla prima accusa del ricercatore di probabile orientamento trotskista all’anziano geografo. Siamo nel 2018 e John Smith è, in particolare, colpito da una frase del testo nel quale Harvey sembra cedere alla vulgata neoclassica che vede l’imperialismo superato nella fase della mondializzazione. Afferma infatti Harvey che “lo storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”. Può sembrare in effetti una descrizione obiettiva. Ed è, di fatto, una descrizione che assumono molta parte dei marxisti occidentali[9] o “euro-marxisti”[10], in coincidenza con buona parte della letteratura economica mainstream. Eppure è di assoluta e palmare evidenza che enormi flussi di profitti sono accumulati dalle società multinazionali, per grandissima maggioranza ‘occidentali’[11], sia in patria sia, in misura maggiore, in opportuni paradisi fiscali.
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Losurdo internazionalista
Un itinerario storiografico-filosofico. Parte II
di Davide Ragnolini
A due anni dalla scomparsa di Domenico Losurdo (1941-2018), col presente contributo si intende offrire una chiave di lettura inedita, almeno in certa misura, del suo intero itinerario storiografico-filosofico, incentrando quale specifica Kern della pluridecennale ricerca del filosofo italiano la sua riflessione internazionalistica.
La figura di Losurdo come ‘internazionalista’ non si riferisce qui – o almeno non soltanto – ad un significato in chiave normativa, cioè ad un orientamento determinato rispetto alla questione di universalismo e particolarismo; bensì, in chiave metodologica, e nel senso disciplinare del termine viene intesa secondo una complessiva sua rilettura di teorico delle Relazioni Internazionali (di cui è nota la sigla anglosassone: IR), attraverso un bilancio delle sue illuminanti incursioni nelle questioni internazionalistiche.
Alla tradizione delle Relazioni Internazionali, infatti, appartengono, latu sensu, tutti i pensatori che si sono cimentati nella riflessione sui rapporti morali, politici, giuridici inter-statali, anche laddove il loro contributo non appaia consapevolmente collocato all’interno della stessa disciplina politologica internazionalistica e ne risulti anzi estraneo al suo specifico gergo tecnico-disciplinare.
Ne emerge un pensatore che, nella sua straordinaria erudizione e padronanza della letteratura filosofica classica tedesca (in cui certamente è inclusa la tradizione marxista, o meglio dei marxismi), non ha mai cessato di pensare, con rigore filologico e filosofico al contempo, il problema della mediazione tra universale e particolare nella storia umana, quindi la sua concreta tensione non soltanto interna alla società (sul piano domestico), ma anche esterna (cioè sul piano internazionale).
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La filosofia non è definibile dai contenuti
di Domenico Accorinti
Nota all'incontro del 13 febbraio 2002 nell'ambito del "Cenacolo filosofia e vita" con il prof. Diego Marconi in cui sono svolte alcune brevi considerazioni sul rapporto tra i vari modi di concepire ed avvicinare la filosofia
L'incontro del 13 febbraio u.s. del nostro Cenacolo con il prof. Diego Marconi mi sembra che, al di là dell'immediato interesse che ha senz'altro suscitato nei partecipanti di per sé per l'argomento trattato (il rapporto tra filosofia e scienze cognitive), sia stato molto proficuo anche in quanto, mettendo a confronto la filosofia "professionale" e quella "dilettantesca", ci ha suggerito alcune considerazioni sull'orientamento dell'impegno filosofico del nostro Cenacolo e, più in generale, sullo stato odierno della filosofia.
Dovendo scegliere un punto di partenza per affrontare la questione ritengo che sia opportuno che ci si soffermi brevemente sul concetto di filosofia quale si è venuto consolidando nei secoli e, più particolarmente, quale è stato sinteticamente illustrato alla voce "Filosofia" del "Dizionario di filosofia" di Nicola Abbagnano (alla quale rinvio chi volesse ulteriormente approfondire la questione de qua).
Alla suddetta voce l'Abbagnano propone, come momento supremo di sintesi delle varie modalità con cui la filosofia si è manifestata quale "creazione originale dello spirito greco e condizione permanente della cultura occidentale" (ma, malgrado il riferimento ad una peculiare civiltà, la definizione presentataci mi pare che si mostri in grado di fare in qualche modo riferimento anche a modalità meditative proprie di altre civiltà), la definizione illustrata nell'Eutidemo platonico, secondo cui la filosofìa è l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo. La filosofia è dunque la scienza nella quale coincidono il fare ed il sapersi servire di ciò che si fa (Eutid., 288e - 290d). Platone osserva che a nulla servirebbe possedere la scienza di convertire le pietre in oro se non ci si sapesse servire dell'oro; a nulla servirebbe la scienza che rendesse immortale se non ci si sapesse servire dell'immortalità; e via dicendo.
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Non c'è democrazia senza riduzione dell'orario e redistribuzione del lavoro
di Eugenio Donnici
In seguito alla Grande Depressione che colpì, in primo luogo, i paesi economicamente più sviluppati come gli Usa, la stragrande maggioranza della popolazione cadde nel panico e nella disperazione, ma soprattutto fu pervasa dalla rassegnazione. Non ci furono le rivolte che abbiamo visto pochi giorni fa e che sono scaturite dall’uccisione di G. Floyd, rabbia e frustrazioni non trovarono uno sfogo immediato, cosicché quando le organizzazioni dei lavoratori provarono ad alzare la testa fu troppo tardi, infatti si trovarono la strada sbarrata dai caporali, dai capitalisti e dal loro braccio armato rappresentato dalla malavita organizzata. In realtà, il sindacato dei lavoratori americani, ancor prima di essere messo fuori gioco, provò ad arginare il dilagare della disoccupazione, infatti il 20 luglio 1932 il consiglio direttivo della American Federation of Labor (uno dei più importanti sindacati statunitensi), riunitosi ad Atlantic City, fece una richiesta formale al Presidente Hoover per fissare un incontro tra le organizzazioni imprenditoriali e i sindacati, allo scopo di trovare un accordo per una settimana lavorativa di 30 ore.
La sintesi di questa mediazione trovò uno sbocco nella proposta di legge del senatore dell’Alabama Hugo L. Black, alla fine del 1932. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale, che si ebbe con l’approvazione al Senato, fu stroncato con l’ascesa di Roosvelt, il quale sposò le preoccupazioni e le angosce delle classi imprenditoriali, per le implicazioni rivoluzionarie del provvedimento, pertanto affossarono il disegno di legge alla Camera.
Al contrario di quello che accade oggi, negli Usa, in quel periodo storico, ci sono una serie di grandi imprese che si prodigano alla sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro, per far fronte alla disoccupazione, tra queste ricordiamo: la Kellogg’s, la Sears, la Standard Oil e la Hudson Motors.
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“La salute e un par de scarpe nove”
di Elisabetta Teghil
… Quanno c’è ‘a salute c’è tutto
Basta ‘a salute e un par de scarpe nove
Poi girà tutto er monno
E m’accompagno da me
Tanto pe’ cantà- (E.Petrolini 1932) Nino Manfredi 1970
La lucidità di pensiero è stata destabilizzata da un virus, il Covid-19. Improvvisamente (quasi) tutti e tutte tre mesi fa, sinistra di classe compresa, sono stati colti/e dalla paura della malattia e del contagio. Il <qui si muore> è stata la risposta secca e anche violenta a qualsiasi tentativo di analisi e di riflessione sulla propaganda terroristica e sul controllo asfissiante messo in atto dal sistema di potere a cui non si è mai accompagnata, guarda caso, nessuna indagine degna di questo nome sulle cause reali e sulle ragioni della propagazione del virus soprattutto in Lombardia. C’è in ballo la salute, la salute è la cosa più importante è stato il refrain di questi mesi.
Ma che cos’è la salute? Cosa significa essere in salute, mantenersi in salute? La salute fisica e mentale, poi, sono inscindibili e sono il risultato dell’equilibrio del nostro essere. Non stiamo qui ad indagare posizionamenti e teorie, ci perderemmo nei meandri di una discussione senza fine ma sicuramente la salute non è legata ad una specifica malattia piuttosto dipende dalla qualità della vita e anche della morte in quella che sembra una contraddizione ma non lo è. E la qualità della vita proprio perché non dipende dalla presenza o dall’assenza della malattia non è altro che il rapporto intercorrente tra i nostri desideri e la possibilità di realizzarli, tra il nostro senso della vita e la rispondenza reale che a questo senso viene data.
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Il nazionalista inconsapevole
di Richard Seymour
‘E’ l’economia, stupido’. Questo è stato l’impudente, ottimista slogan elettorale di Bill Clinton nel 1992. Lo slogan sembrava sintetizzare la Weltanschauung prevalente di un ordine neoliberista, una versione volgarizzata dell’”egoismo illuminato” ereditato dall’economia politica classica. Più di un quarto di secolo dopo, in mezzo al collasso neoliberista, nulla potrebbe essere maggiormente l’opposto. L’egoismo illuminato, da Londra a Mumbai, non domina più. Non è l’economia, stupido.
I Conservatori di Boris Johnson sono stati rieletti con una grande maggioranza dopo un decennio di austerità e di stagnazione dei redditi, come se Johnson non fosse stato in carica. La sola quasi sua unica promessa era stata di ‘realizzare la Brexit’, un obiettivo per il quale il 60 per cento dei votanti a favore dell’Uscita (Leave) dice che sarebbe felice di vedere danneggiata l’economia. Il 40 per cento afferma persino di essere disposto a perdere il proprio lavoro.
Queste sono minoranze, ma minoranze di milioni, sufficienti a costituire lo zoccolo duro del voto Conservatore. Gli attivisti Tory sono una minoranza ancora inferiore, ma più influente. Quando chiesto loro che cosa sacrificherebbero per ‘realizzare la Brexit’, hanno risposto chiaramente: l’economia, l’unione [Regno Unito] e persino il loro stesso partito.
Molto è stato detto dei votanti a favore della Brexit “ingannati” da promesse di maggior spesa per il Servizio Sanitario Nazionale (NHS), ma la caduta di quell’affermazione non ha danneggiato la Brexit. E in ogni caso non era su questo che la campagna per il Leave era stata condotta.
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Note su una falsa fine del mondo
di Andrea Cavazzini
Un’epidemia è un processo naturale relativamente banale: se ne può morire, certo, ma non più che di mille altre cause. Questo fatto non basta perciò a farne un evento, la cui portata dipende dal modo in cui è percepito, dalle risposte cui dà luogo, dalle ragioni o sragioni che le motivano. La crisi sanitaria mondiale del 2020 rappresenta meno una nemesi della Natura contro società inconsapevoli, che non la rivelazione, e l’intensificazione, di loro aspetti e tendenze. È peraltro il caso di tutte le Grandi Paure note attraverso i secoli: l’Anno mille, la jacquerie nel 1789, la guerra atomica negli anni Cinquanta… Ogni volta, vi sono certo dei fatti reali alla base di tali accessi di angoscia e di panico, ma questi ultimi e i loro effetti obbediscono a logiche proprie, spesso senza comune misura con i dati oggettivi. È così che in siffatte crisi ci troviamo confrontati principalmente a noi stessi, cioè alle società in cui viviamo e che le nostre azioni riproducono, ai loro rapporti di proprietà e di potere, alle loro ideologie e credenze: tutto ciò che costituisce, secondo la tradizione dialettica, la seconda natura, la quale nella specie umana sostituisce la prima, proiettando su questa i propri fantasmi e temendone il ritorno nella penombra dell’orrore mitico.
Si può così supporre che il vero evento sia meno l’epidemia che non il consenso di autorità politiche e sanitarie, di istituzioni statali e sovrastatali, di esperti e comunicatori, verso un lockdown mondiale che Marco D’Eramo definisce sulla «New Left Review» un «esperimento di disciplinamento sociale senza precedenti».1 Attuato con entusiasmo dai decisori e approvato o subito passivamente dalle popolazioni, è forse questo esperimento l’aspetto veramente inaudito di questa crisi, il fatto destinato ad avere delle implicazioni durevoli e profonde.
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Analisi macroeconomica, prospettive italiane e una valutazione di MES ‘pandemico’ e Recovery Fund
di Antonella Stirati
Prima di entrare nel merito della argomentazione, del contesto, e della valutazione di queste due misure vorrei anticipare qui a grandi linee la valutazione complessiva che emerge.
Il MES ‘pandemico’ o sanitario, nonostante l’assenza di condizionalità ex-ante (eccetto che sulla destinazione dei fondi) presenta insidie rilevanti connesse al suo prevedere una ‘sorveglianza rafforzata’ sulla politica di bilancio dei paesi debitori pienamente incardinata nel quadro normativo dei trattati e quindi in quelle regole di finanza pubblica che hanno già dimostrato la loro disfunzionalità, specialmente in periodi di crisi.
Il Recovery fund proposto dalla commissione presenta una componente estremamente limitata, nel caso dell’Italia, di risorse e ‘a fondo perduto’. Esso ha però il vantaggio importante entro il quadro istituzionale attuale di poter realizzare spese e investimenti pubblici che possono favorire la crescita dell’economia nei prossimi anni, restituendo poi tali risorse in modo dilazionato nel tempo su un orizzonte temporale lungo.
Cosa è cambiato nelle analisi macroeconomiche ‘dominanti’ e istituzionali dal 2008 a oggi
La versione standard dei modelli macroeconomici insegnata sui libri di testo sino al 2008 indicava che politiche fiscali restrittive (di ‘austerità’) hanno effetti negativi nel breve periodo, ma neutrali o positivi nel medio-lungo periodo (in quanto favorirebbero una crescita degli investimenti privati).
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L’ideologia del capitalismo ideologico. Sull’ultimo libro di Piketty
di Nicolò Bellanca
Il precedente volume di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, aveva una lunghezza di oltre 900 pagine. Quello appena uscito in traduzione italiana, intitolato Capitale e ideologia, consta addirittura di 1.200 pagine.[1] Le biblioteche sono piene di libri ponderosi che tanti citano, ma che quasi nessuno legge integralmente. Le opere di Piketty rischiano di subire lo stesso destino: un’analisi basata sui dati di kindle, documentò che il lettore medio lesse, del libro del 2013, appena 26 pagine.[2] Se però, con determinazione e pazienza, prendiamo in mano questa sua ultima monografia, ci accorgiamo che non è prolissa, poiché ogni suo capitolo, animato da una scrittura densa e nitida, si colloca in un disegno intellettuale unitario. Ancor più, ci accorgiamo che essa merita il tempo della lettura, poiché verte, con argomentazioni sempre pregnanti, su alcuni degli argomenti centrali nelle scienze sociali e nel dibattito pubblico: la natura del sistema economico odierno, i processi di cambiamento storico, le ragioni che giustificano lo status quo nelle comunità umane, la possibilità di realizzare un ordine sociale migliore. Nello spazio di una noterella, non posso affrontare i tanti temi che nel libro s’intrecciano. Procedo piuttosto in maniera schematica: sintetizzo alcune delle principali posizioni dell’autore in sette tesi; dopo l’illustrazione di ciascuna tesi, svolgo qualche commento critico, per concludere con poche considerazioni sull’intero ragionamento.
Tesi 1. Le vicende storiche ben documentate sono in grado di spiegarci come funziona il mondo.
Già nel libro del 2013, Piketty è apparso un ricercatore empirico estremamente preparato, con la propensione, tuttavia, a lasciare sottosviluppata la spiegazione teorica dei fenomeni: le sue due famose “leggi del capitalismo” consistono l’una in una tautologia e l’altra in una formula che non riceve alcuna fondazione, se non il riscontro statistico.[3]
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Conquistare l'operaio che vota Lega o diventare leghisti
di Alessandro Mustillo
Da alcuni mesi è in corso un dibattito in seno al Partito Comunista che ha coinvolto anche il FGC portando alla sospensione del patto d’azione tra le due organizzazioni. La richiesta di un congresso e la possibilità di svolgere questo dibattito in quella sede sono definitivamente sfumate con la decisione di non rinnovare il tesseramento in blocco a centinaia di iscritti del PC in diverse parti d’Italia, impedendone conseguentemente la partecipazione al congresso. In questi mesi molte delle vicende sono state trattate –spesso da ambo i lati – con semplificazioni. Non essendoci più prospettiva alcuna del dibattito interno richiesto, e ritengo che una parte delle questioni che hanno animato il dibattito siano elementi importanti nella discussione strategica sulla ricostruzione comunista e non costituiscano patrimonio esclusivo degli iscritti o ex iscritti al PC. Sono altrettanto e sempre convinto della necessità che la ricostruzione comunista in Italia si conduca tra lotte reali e serrato dibattito ideologico. Per questa ragione pubblicherò sull’Ordine Nuovo le principali questioni che hanno animato il dibattito in questi mesi. Forse ridare spazio alla politica contribuirà a dare a quel dibattito il livello politico dovuto, sottraendolo al botta e risposta su aspetti secondari per certi versi deleteri. La scelta di partire da questo tema è dettata più che dalla sua individuazione come elemento principale rispetto agli altri, dalla centralità che stanno assumendo nella discussione e nelle reciproche critiche. Non è dunque un ordine di priorità ma di contingenza.
La maggioranza dei lavoratori vota a destra.
La questione può essere riassunta così utilizzando le stesse parole utilizzate da Rizzo in un ufficio politico, che ebbi premura di segnare tra i miei appunti:
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Programma per una "universitas"
di Elenio Cicchini
Il testo prova a raccogliere l’invito formulato da Giorgio Agamben nel Requiem per gli studenti pubblicato sul “Diario della crisi” il 23 maggio 2020
I.
L’esigenza di una universitas, di cui si presenta qui il programma, si mostra nel momento stesso in cui il pensiero si dà coscienza del proprio rapporto col destino delle università. Queste si presentano oggi come un accumulo di conoscenze che lo studente può acquistare in qualità di cliente, e di cui può servirsi nel mercato del lavoro in veste di competenze.
Il destino storico della trasmissione del sapere come circolazione di merci è preconizzato dal fatto che la conoscenza sia stata concepita, almeno fin dalla modernità, come un avere, una proprietà riposta nella memoria. L’imporsi di una digitalizzazione dell’insegnamento è, pertanto, in linea col primato della conoscenza e della nozione, interamente riproducibili attraverso un algoritmo. Così come l’algoritmo celebra l’ideale grammatico di una divisione finita della lingua in «parti», così la trasmissione di conoscenze sotto forma di podcast sembra realizzare l’ideale pedagogico-farmaceutico di “pillole” o bossoli di conoscenza. Così, di fronte a un mercato delle conoscenze digitali che ne supera di gran lunga le possibilità di circolazione, l’università non ha oggi altro mezzo per sopravvivere se non quello di produrre un grande magazzino di oggetti preconfezionati secondo ogni tipologia e sensibilità. È l’università stessa che, come in una commedia di Menandro, conia i “tipi” della conoscenza. Cosicché ognuno possa estinguere il proprio bisogno di apprendimento, dall’approfondimento alla suggestione, dalla lezione interattiva alla conferenza dall’altra parte del globo. In questa condizione, il professore diventa egli stesso una merce e i suoi dottorandi sono ridotti a pubblicitari.
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Dimensione operaia degli Stati Popolari, Sardine, ecologismo, antirazzismo, antipatriarcato...
di Karlo Raveli
Fine del lavorismo secolo XIX?
L’iniziativa Stati Popolari potrebbe riuscire a riproporre un reale percorso di lotta anticapitalista, generale e radicale pur tra tutti i condizionamenti attuali, a cominciare dai virus dell’informazione ufficiale. ‘Di sinistra’ inclusa. Superando il populismo neo-fascista ma rimettendo anche al loro posto vari inscatolamenti lavoristi dell’universo operaio, soprattutto per opera di vecchi marx-ismi chiusi tra le stantie inferriate dell’esclusività salariale produttivistica più o meno tutelata. Cioè della storica particolarità del lavoro stipendiato assunto ed innalzato a esclusività strategica operaia, anti-Capitale, dallo stesso cosiddetto “Marx politico” di un secolo e mezzo fa.
Appaiono del resto sempre più come strumenti di difesa terminale del sistema anche recenti dissertazioni di confusione e irretimento etico, teorico e politico a proposito della DIMENSIONE o CLASSE operaia globale. Per esempio attorno all’idea di un presunto ‘quinto stato’ riproposta poco tempo fa in un articolo di Allegri e Ciccarelli del Manifesto, ‘Fenomenologia della classe a venire’. Un 5° stato che, da tipici marxismi di sinistra del sistema, servirebbe come concetto valevole per eclissare il primo ed essenziale elemento classista marxiano, innanzitutto etico ma poi teorico e politico:
l’alienazione o appropriazione particolare, privata, personale e famigliare di naturali od oggettivi Beni Comuni di una società. Da cui sorge lo sfruttamento e guerre e violenze di ogni tipo.
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I don’t live today: scene dalla guerra di classe in America (e non solo)
di Sandro Moiso
Will I live tomorrow?
Well I just can’t say
But I know for sure
I don’t live today
(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)
“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)
Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria vittoria definitiva della propria classe su quella degli oppressi.
Le notizie di tali eventi hanno fatto rapidamente il giro del mondo e, esattamente come le lotte contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, hanno infiammato le piazze dei paesi occidentali e di altri continenti.
La forza delle manifestazioni, il timore suscitato dal loro rapido diffondersi, la capacità di risposta politica dimostrata dai manifestanti (in grado di utilizzare tanto la violenza quanto l’abilità di influenzare mediaticamente e politicamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale), la strategia messa in atto collettivamente nelle strade e nelle piazze hanno costituito una brutta sorpresa per un potere politico e finanziario che da anni si pensava ormai vincitore nel confronto con i subordinati di ogni colore e credo.
La richiesta improvvisa e radicale dello scioglimento delle forze di polizia o almeno di un loro radicale ridimensionamento e di una sostanziale revisione dell’uso della forza ad esse consentito è stato un passo di portata storica, non soltanto per i movimenti americani ma anche per quelli che in ogni angolo del mondo si oppongono ormai da anni alle violenze poliziesche e, più in generale, dello Stato nei confronti di chi difende, sul fronte opposto, gli interessi di classe, ambientali, di genere e appartenenza culturale e etnica.
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La rivoluzione comincia dai corpi
Note su Apocalisse e Rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu
di Lundimatin
A partire da giovedì scorso, si può trovare nelle librerie Apocalisse e Rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu, appena rieditato in lingua francese dalle edizioni La Tempête. Questo libro è stato scritto nel 1972, in risposta alla pubblicazione del rapporto del Club di Roma sui Limiti dello Sviluppo. Commissionato dal MIT e finanziato dalla Fiat, il rapporto preconizzava una «crescita zero» ed un limite al capitalismo. Alla sua pubblicazione, Cesarano e Collu reagirono con un'analisi tempestiva e sottile di quello che è il modo in cui il capitalismo stava cambiando in quegli anni: le sue nuove armi erano diventate il millenarismo religioso, la colonizzazione dell'individualità e lo sviluppo di un'economia del debito. Allo stesso tempo, veniva proposto anche un rinnovamento dei concetti e dei modi dell'antagonismo rivoluzionario, che non sarebbe più stato il conflitto tra le classi, ma piuttosto la lotta dei corpi della specie umana contro il loro essere messi a morte da parte del processo capitalistico. A tutto ciò che mette in discussione la sopravvivenza stessa della specie, questo libro oppone una certezza: la rivoluzione comincia dai corpi. Giorgio Cesarano, a quel tempo, è stato un autore vicino alla critica situazionista. Egli ha anche partecipato alla fondazione del Gruppo Ludd, del quale, in quest'ambito, ha parlato Anselm Jappe.
I pochi iniziati agli scritti di Giorgio Cesarano formano una comunità segreta. E questo perché sicuramente questo autore ha prodotto un pensiero totale e senza compromessi, profondo e dialettico, scritto facendo uso di una prosa infuocata che non si lascia penetrare con facilità, e che continua, per quanto sotterranea, ad affascinare da quasi cinquant'anni.
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Il problema del nostro Paese è che viviamo in un’egemonia intellettuale neoliberista
Annamaria Iantaffi intervista Carlo Galli
Presidente, il 2 giugno 2020, dati gli eventi degli ultimi mesi, è una ricorrenza unica nella storia della Repubblica. Lei come percepisce oggi il rapporto dei cittadini con le istituzioni Repubblicane?
Mi sembra che il rapporto abbia preso una doppia piega. È abbastanza tipico durante le emergenze che i cittadini guardino alle istituzioni, perché sentono il bisogno di essere garantiti. Sicuramente anche il tasso piuttosto alto di popolarità del Presidente del Consiglio dimostra che l’emergenza ha suscitato un forte bisogno di istituzioni. E questa non è una novità: in Italia buona parte dell’antipolitica e della critica delle istituzioni nasce in realtà dal bisogno delle istituzioni, dall’idea che le istituzioni siano inadeguate. D’altro canto c’è una discreta probabilità che nel momento in cui si attenuasse l’emergenza sanitaria e si presentassero le sue conseguenze economiche, il rapporto con le istituzioni tornerebbe ad essere conflittuale e che queste verrebbero sempre più interpretate come ostili.
Le chiedo di proiettarsi invece al prossimo autunno, quando si potrebbe presentare una seconda ondata pandemica a causa delle mutate condizioni climatiche. Secondo lei c’è il rischio di disordini sociali?
Molto dipenderà da come i bisogni economici di una discreta parte della popolazione siano o non siano stati soddisfatti. Se ci fossero gravi momenti di sofferenza economica, fino alla disperazione per certe categorie, e se intervenisse un secondo lockdown, francamente la situazione sarebbe davvero critica. C’è da augurarsi che nessuna delle due ipotesi si avveri, cioè che non sia automatico l’avvento di una seconda ondata della pandemia e che le situazioni di sofferenza dell’economia, e soprattutto di certe categorie, possano essere in un qualche modo sanate.
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