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Per non dimenticare
di Giancarlo Scarpari
Il 31/12/2019 la Commissione sanitaria di Wuhan segnalava all’OMS l’esistenza, in quella località della Cina, di casi “di polmonite ad eziologia sconosciuta”; il 9/1/2020 l’origine del morbo veniva identificato in un nuovo “coronavirus correlato a quello della Sars” ed analoghi episodi venivano segnalati anche in Thailandia, Giappone e Corea del Sud; il Centro Europeo per la prevenzione ed il controllo delle malattie (ECDC), confermando quelle notizie,riteneva peraltro “moderato” il rischio che quel morbo potesse diffondersi in Europa.
Il 22 gennaio, tuttavia,in Italia, con una circolare inviata, tra gli altri, alle Regioni ed a taluni ordini dei medici, il ministro della Salute Speranza forniva una serie di indicazioni sul nuovo coronavirus, prescrivendo all’occorrenza, da parte dei sanitari, l’uso di “mascherine a protezione facciale” (quelle chirurgiche) e, in certi casi, di quelle “a protezione rinforzata” ( quelle denominate FFP2).
Il 30 gennaio L’OMS comunicava che era in atto un’ “epidemia prodotta dal nuovo coronavirus” e dichiarava lo stato di emergenza globale; lo stesso giorno, due turisti cinesi in viaggio in Italia venivano riconosciuti “positivi” al virus e ricoverati in gravi condizioni in un ospedale romano.
Da allora, dunque, la notizia del morbo e della sua capacità infettiva diviene ufficiale e fa il giro del mondo, suscitando reazioni differenti. Non nasconde la sua soddisfazione il Segretario al Commercio americano Wilbur Ross, che il 31 gennaio annuncia che l’epidemia produrrà “un’accelerazione dei ritorni dei posti di lavoro negli USA”; i media dei paesi europei, preoccupati soprattutto della Brexit e delle sue conseguenze, si limitano a sottolineare che gli stranieri fuggono dalla Cina; il governo italiano, già dal 30 gennaio, con una delibera del Consiglio dei ministri, dichiara a sua volta lo stato di emergenza per 6 mesi, mentre il ministro della Salute blocca completamente il traffico aereo con quel lontano paese.
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Adesso, davvero, basta!
Comunicato AMPAS del 21/4
di Medicina di Segnale
Con serenità, ma anche con determinazione, i medici del gruppo della medicina di segnale (735 iscritti all’AMPAS, la nostra associazione, di cui tanti impegnati in prima linea), preoccupati per le possibili derive autoritarie in atto, desiderano fare chiarezza circa la possibilità che siano lesi dei diritti costituzionalmente garantiti per i cittadini.
1. Lesione libertà costituzionalmente garantite
In questo periodo sono stati gravemente lesi alcuni diritti costituzionali (la libertà di movimento, il diritto allo studio, la possibilità di lavorare, la possibilità di accedere alle cure per tutti i malati non-Coronavirus) e si profila all’orizzonte una grave lesione al nostro diritto alla scelta di cura. Tutto questo in assenza di una vera discussione parlamentare, e a colpi di decreti d’urgenza. Ci siamo svegliati in un incubo senza più poter uscire di casa se non firmando autocertificazioni sulla cui costituzionalità diversi giuristi hanno espresso perplessità, inseguiti da elicotteri, droni e mezzi delle forze dell’ordine con uno spiegamento di forze mai visto neppure nei momenti eversivi più gravi della storia del nostro paese.
Ora sta entrando in vigore un’app per il tracciamento degli spostamenti degli individui, in patente violazione del nostro diritto alla privacy, e che già qualcuno pensa di utilizzare per scopi extrasanitari.
Ma tra le lesioni più gravi ai nostri diritti costituzionali spicca quella legata al diritto di scelta di cura, ben definito sia nella costituzione che nel documento europeo di Oviedo. Noi medici siamo colpevoli di non aver adeguatamente contrastato, due anni fa, una legge che toglieva al pediatra di fatto ogni dignità e autonomia decisionale.
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Finanziamento delle politiche e scenari del debito dopo il covid-19
di Riccardo Realfonzo
La strada maestra per finanziare le politiche contro la crisi indotta dal coronavirus consiste nel finanziamento da parte delle banche centrali[1]. La monetizzazione dei nuovi deficit statali, infatti, permette di disporre della leva finanziaria per attivare le risorse necessarie a costo zero e senza appesantire il debito pubblico dei Paesi. Questa è la principale soluzione praticata nel mondo per fronteggiare l’emergenza, dagli USA alla Cina, dalla Gran Bretagna al Giappone. L’eurozona dovrebbe seguire il medesimo percorso, prevedendo un piano europeo anti-virus e politiche fiscali concertate tra gli Stati, adeguatamente finanziate dalla BCE[2]. Ciò potrebbe avvenire con varie modalità tecniche e soluzioni legali, anche mediante l’acquisto di titoli di debito comune (eurobond o recovery bond) da parte della BCE. D’altronde, in una fase recessiva come quella che si prospetta, non possono nemmeno essere paventati rischi inflazionistici. Una alternativa al finanziamento della BCE, ma si tratta di un second best, potrebbe essere l’emissione dei titoli di debito comune verso il mercato[3]. Questa seconda possibilità non è certo a costo zero, ma comunque permetterebbe di non contabilizzare una crescita del debito pubblico dei singoli Paesi. Al contrario, il ricorso al Fondo Salva-Stati (MES), non solo è a titolo oneroso ma soprattutto determina l’erogazione di crediti che vengono contabilizzati nel debito pubblico dei Paesi che li ricevono.
La discussione in Europa è ancora aperta sulla possibilità che vengano adottati strumenti di finanziamento comuni, che non determinino crescita del debito.
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Mettersi in gioco, organizzare le lotte dentro – e fuori – la filosofia
Un appello per la “Fase 2”
di Andrea Muni
Una lotta dentro la filosofia. […] Tale scontro andrebbe preso a mio parere molto sul serio, se si vuole ampliare lo sguardo sulle pratiche e avere uno sguardo microfisico sulla situazione […] . Sembra banale osservare che se si parla di filosofia occorre innanzitutto intendersi bene sul ruolo e lo statuto della filosofia stessa e del cosiddetto filosofo. […] Il “filosofo” non è mai del tutto esterno a un dispositivo disciplinare, inteso come disciplinarità storica della filosofia in quanto sapere e come apparato istituzionale,in cui si produce la sua pratica di pensiero. Senza una chiarificazione critica di questo suo stare nel medesimo tempo dentro e fuori dalla disciplina, corriamo il rischio di fare del filosofo una figura mitizzata e magari, proprio per questo, assai vicina alle logiche del padrone.
Pier Aldo Rovatti, da Foucault docet in “The Italian difference”
La Fase Uno della riflessione “culturale” sull’emergenza che tutti stiamo vivendo sta per concludersi. Presto giungerà il momento, grave, di prendere posizioni nette, pratiche e personali, di carattere etico-politico. Posizioni che sveleranno se e fino a che punto molti pensatori sono davvero all’altezza delle proprie parole.
Sta scadendo il tempo per interpretare le cause, per attardarsi in pur raffinate analisi sulle ricadute esistenziali (positive e negative) di una reclusione che ormai – si spera – sta volgendo al termine. Incombe ora piuttosto su ognuno di noi l’obbligo – l’urgenza della cultura e della filosofia “impegnate” – di costruire tempisticamente nuove strategie di lotta e di comunicazione da giocarsi nei mesi e negli anni a venire.
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“L’Italia deve dire no al Mes. Senza di noi la Ue si scioglie”
di Alessandro Di Battista
L’ex deputato del M5S: “Proveranno a farci indebitare e a metterci all’angolo, ma abbiamo carte da giocare, come il rapporto con la Cina”
Caro direttore,
l’emergenza COVID-19 e l’inconsistente reazione dell’Europa – sopratutto se paragonata agli interventi economici cinesi, britannici e nordamericani – ha trasformato in euroscettici anche i più ferventi fanatici dell’Unione. Tuttavia non vi è nulla di puro nelle loro conversioni. Politici e commentatori senza spina dorsale seguono il vento e prendono posizione solo dopo aver letto l’ennesimo sondaggio commissionato e, spesso, pagato con denaro pubblico. Oggi, per la stragrande maggioranza degli italiani, l’Unione europea è un’organizzazione inutile per non dire dannosa. Per questo una schiera di sepolcri imbiancati da sempre trombettieri del sistema inizia a usare termini che fino a poche settimane fa utilizzavano solo quelli che lorsignori accusavano di populismo.
«Che Europa è se non c’è solidarietà adesso?» si domanda Romano Prodi. Francamente la solita Europa, l’unica che conosciamo, quella che ha strangolato la Grecia per depredarla. Fino al 2057, infatti, 14 dei principali aeroporti greci (tra cui Corfù, Creta, Zante, Rodi, Mykonos e Santorini) saranno gestiti dalla Fraport, un colosso dei trasporti tedesco con sede a Francoforte i cui azionisti principali sono il Land dell’Assia, la holding della città di Francoforte, Lufthansa e la merchant bank americana Lazard. Anche l’aeroporto di Atene è saldamente in mano teutonica, o meglio lo sarà fino al 2046, quando scadrà la concessione ad AviAlliance, società aeroportuale con sede a Düsseldorf. Gli aeroporti greci hanno permesso alla Fraport, tra il 2017 e il 2018 di aumentare i ricavi del 18,5%. «Non vi è nulla di male, è la logica del profitto» potrebbe obiettare qualcuno.
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Le radici socialiste del sovranismo costituzionale
di Jacopo D'Alessio
“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla” (Tesi XVIIa – A).
[…] Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo diventa solo successivamente attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli invece afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico” (Tesi – VI).
Walter Benjamin
1. Antefatto. La contraddizione attuale
Il seguente articolo si propone di introdurre uno dei filoni storico-politici più importanti che hanno segnato il sovranismo, nella fattispecie la galassia costituzionale e neo-socialista. Ciò è avvenuto in seguito alla crisi economica, nel 2008, proveniente dai subrimes americani i quali, colpendo l’Europa, hanno dato luogo, anche in Italia, ad una rinnovata e collettiva coscienza di classe. Il primo grande contributo scientifico, che mise in luce l’impotenza delle istituzioni europee nel salvaguardare il lavoro e la società italiana dalle aggressioni del capitale a causa dei suoi choc esogeni, conseguì dalla precoce analisi giuridica dell’allora sconosciuto professore universitario Stefano D’Andrea (2011) (1).
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La giusta patrimoniale e i suoi nemici
di coniarerivolta
Siamo ancora nel pieno della tempesta, con l’emergenza sanitaria che continua a mordere. Ma problemi almeno altrettanto drammatici sono all’orizzonte, poiché si apre una fase di crisi economica in cui serviranno tantissime risorse per finanziare le misure di sostegno al reddito, di supporto all’occupazione e di rilancio dell’economia necessarie ad evitare un disastro sociale. Una domanda sorge spontanea: come paghiamo il conto e chi lo deve pagare? Una delle possibilità ventilate è quella di un’imposta patrimoniale. Ma questa opzione è davvero possibile dentro il quadro istituzionale europeo? Cerchiamo di capirci qualcosa.
Un’imposta patrimoniale è una tassa che colpisce non il reddito delle persone, bensì la loro ricchezza accumulata. L’idea è quella di prendere i soldi lì dove stanno, nelle tasche dei ricchi, anziché sbattere il muso sul muro di gomma che le istituzioni europee hanno posto alla possibilità di ricorrere alla leva del debito. La patrimoniale viene dipinta come la soluzione ideale per risolvere una vera e propria emergenza, evitando di scontrarci con i problemi sistemici che ci impongono dall’alto la scarsità delle risorse: sfuggire al ricatto del debito evitando di contrarre debito, e andando a prendere quelle risorse, in tempi brevissimi, direttamente a casa dei ricchi, o meglio sul loro conto in banca. Un’opzione che avrebbe il doppio effetto positivo di supplire al fabbisogno finanziario necessario e, allo stesso tempo, praticare una redistribuzione delle risorse dall’alto al basso: un potente strumento di gettito fiscale immediato e, contemporaneamente, di giustizia sociale.
Purtroppo, i ricchi sono ricchi anche perché non si lasciano prendere così facilmente e, come ci insegna anche la storia recente del nostro Paese, le imposte patrimoniali implementate fino ad oggi sono ricadute regolarmente sulla testa della classe lavoratrice.
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Dieci punti sul coronavirus: la trinità tecnologica e il nuovo mondo
di Piotr
Storicamente le pandemie hanno forzato gli esseri umani a rompere col passato e reimmaginarsi il mondo. Questa non è differente. E' un portale, uncancellotra un mondo e il prossimo. Possiamo scegliere di attraversarlo trascinando le carcasse dei nostri pregiudizi e dell'odio, della nostra avarizia, delle nostre banche dati e idee morte, dei nostri fiumi morti e dei cieli fumosi dietro di noi. Oppure possiamo camminare con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo. E pronti a lottare per esso.
(Arundhati Roy)
1. Preludio indiano: la prima divinità
Dopo un decennio di frequentazione di Calcutta i miei amici indiani mi dissero che avevo iniziato a capire il Bengala (non l'India, ma il Bengala). Qualche disinvolto, ma prestigioso, giornalista dopo un soggiorno di due settimane si è sentito in diritto di scrivere un libro per “spiegare” l'India. Risibile, ma le cose vanno così. Quando c'è il prestigio c'è il prestigio. Non è vero?
Dopo due decenni abbondanti di frequentazione di quell'enorme e complicato Paese, ho capito un'altra cosa: l'India, e più in generale il subcontinente indiano, è un immenso campo di sperimentazione.
Nel dicembre del 2016 io stesso fui testimone di un violento esperimento sociale: la demonetizzazione, cioè la pressione per far utilizzare obbligatoriamente la “moneta di plastica”, ossia le carte di debito e di credito. Ne parlai in un articolo intitolato “India: laboratorio mondiale per la demonetizzazione forzata” [1]. Le considerazioni conclusive sull'esperimento di cui ero stato testimone erano queste:
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Chi governerà la crisi sociale?
di Alessandro Mustillo
La gestione della pandemia e delle sue conseguenze è un enorme terreno di scontro, che sta amplificando in un solo colpo tutti i fenomeni da tempo in atto, connaturati con le logiche capitalistiche proprie della fase di sviluppo odierna del capitalismo, tanto a livello nazionale che internazionale.
Dietro ogni dichiarazione, ogni provvedimento ci sono scontri tra interessi di classe, scontri interni alle stesse classi dominanti, conflitti di carattere capitalistico tra imprese e società concorrenti, proiezione internazionale di questo scontro internamente al mercato comune europeo e alle sue istituzioni, e sul sistema delle alleanze internazionali.
Solo due giorni fa il politologo D’Alimonte, in un’intervista su Formiche.it rispondeva così ad una domanda sulla necessità di un governo di unità nazionale: «per far ripartire il Paese andranno prese decisioni difficili, dolorose e politicamente costose per l’assunzione delle quali sarebbe opportuna la condivisione dei rischi e delle relative responsabilità» D’Alimonte individua in Draghi la figura giusta a guidare il Paese:
«ha competenze indiscutibili la cui autorevolezza e il cui prestigio sono riconosciuti ovunque, in Europa e nel mondo. E l’Italia in questo momento ha il disperato bisogno di accrescere la propria reputazione internazionale. Anche a Bruxelles ovviamente, dove i suoi rapporti e le sue capacità diplomatiche potrebbero risultare fondamentali nell’ottica di un pieno sostegno dell’Unione al rilancio dell’economia italiana». [1]
Il politologo concludeva la sua intervista ringraziando Conte per il lavoro svolto, ma non ritenendolo la persona necessaria, né la sua maggioranza idonea, a guidare la fase futura.
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Governance e conflitto sociale nel tempo della pandemia
di Cinzia Arruzza e Felice Mometti
Scioperare per la propria vita
Lunedì 29 marzo gli operai della General Electric hanno protestato per le migliaia di licenziamenti annunciati dai manager della compagnia, chiedendo invece una riconversione della produzione e ponendo una semplice domanda: «se la GE ci affida l’incarico di costruire, testare e fare la manutenzione di motori per aerei su cui viaggiano milioni di persone, perché non dovrebbero ora affidarci l’incarico di costruire dei semplici ventilatori?»
Questo è stato uno dei tanti scioperi, più o meno legali, che i lavoratori di diversi settori hanno portato avanti nel mondo. Un’ondata di scioperi a marzo ha costretto il governo italiano a interrompere la produzione di beni non essenziali, anche se quella battaglia non è ancora vinta del tutto. I lavoratori di Amazon e di altre aziende della logistica hanno protestato e scioperato in Francia, Italia, Stati Uniti e in molti altri paesi per via delle scarse condizioni sanitarie dei luoghi di lavoro e la mancanza degli standard di protezione personale, mentre i lavoratori dei settori «non essenziali» hanno interrotto la produzione, usato il congedo per malattia o semplicemente hanno smesso di presentarsi a lavoro, rifiutandosi di rischiare la propria vita in nome dei profitti delle varie compagnie. Chris Smalls, uno degli organizzatori della protesta nel magazzino Amazon di Staten Island, poi licenziato come atto di ritorsione da parte dell’azienda, scrive questo in una lettera aperta a Jeff Bezos: «a causa del Covid-19, ci viene detto che i lavoratori di Amazon sono la ‘nuova Croce Rossa’. Il fatto è che i lavoratori non vogliono essere eroi. Siamo persone normali. Io non ho una laurea in medicina. Non sono stato preparato a operazioni di primo soccorso. Nessuno dovrebbe chiederci di mettere a rischio la nostra vita per venire al lavoro. Eppure, ci viene chiesto. E qualcuno deve prendersi la responsabilità di questa cosa. E quella persona è lei».
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Coronavirus, crisi economica, Europa
Bollettino Culturale intervista Vladimiro Giacché
Vladimiro Giacché è nato a La Spezia nel 1963. Presidente del Centro Europa Ricerche dall’aprile 2013.
Nel settore finanziario dal 1995, sino al 2006 ha lavorato presso il Mediocredito Centrale, dove ha ricoperto nel tempo i ruoli di responsabile dell’ufficio sviluppo risorse umane, assistente del Presidente, responsabile del servizio studi e relazioni esterne e del servizio revisione interna. Dal 2006 al 2007 è stato responsabile dello staff tecnico di Matteo Arpe, Amministratore Delegato di Capitalia. In Sator dal 2008, è stato responsabile affari generali di Sator S.p.A. e della funzione di internal audit di Sator Immobiliare SGR S.p.A.
É attualmente responsabile della funzione di internal audit di Arepo BP S.p.A. e membro del Consiglio di Amministrazione di Banca Profilo S.p.A.
Studi universitari svolti a Pisa e Bochum (Germania), laurea e dottorato di ricerca in filosofia con il massimo dei voti alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
Principali pubblicazioni: Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (1990), Storia del Mediocredito Centrale (con P. Peluffo, 1997), La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (2008, 3a ed. 2016), Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato (2012; ed. tedesca 2013), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (2013; ed. tedesca 2014, ed. francese. 2015) e Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile (2015). Nel corso degli anni ha curato saggi economici e politici di Marx e Lenin, pubblicando spesso articoli scientifici su riviste italiane e straniere.
Il suo ultimo libro è "Hegel: la dialettica".
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Moneta, consumi e risparmi ai tempi del coronavirus
di Maurizio Caserta1
Quello che segue è un piccolo diario della crisi e delle sue fondamentali implicazioni economiche, via via che le questioni si sono presentate all’interesse di ciascuno di noi. Si alternano le preoccupazioni immediate con quelle di prospettiva. Poi sintetizzate nella riflessione finale. Non ci sono valutazioni politiche, ma solo questioni ‘contabili’.
1.
La crisi comincia con una decisione delle famiglie di comprare di meno. Escono meno, viaggiano meno, rinviano gli acquisti non essenziali. In tempi di incertezza sulla sicurezza dei consumi e sulla possibilità di goderne è meglio restare più liquidi e rinviare a tempi migliori. Ciò fa crescere le scorte invendute dei commercianti e dei produttori. Se fosse un comportamento passeggero delle famiglie, i commercianti e i produttori potrebbero considerare questa oscillazione come una oscillazione di breve durata facile da assorbire nel ciclo delle vendite. Ma l’incertezza delle famiglie va sui produttori e sui commercianti, i quali sospenderanno gli ordini già fatti in attesa di capire che succederà. Parte cosi il perverso meccanismo de-moltiplicativo del reddito. Un’iniziale flessione della domanda di beni e servizi si allarga a macchia d’olio investendo l’intera economia. Se poi quella flessione diventa azzeramento perché quello stabilimento (negozio o fabbrica) viene chiuso, l’effetto è ulteriormente amplificato. Come si blocca questo effetto perverso? Immettendo o non ritirando denaro.
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Felice Cimatti: “Cose. Per una filosofia del reale”
di Donato Salzarulo
1.- Questo non è il libro del momento. Non è Spillover. Aspettava di esser letto da più di un anno. Pazientemente in fila, fra tante pile di libri da leggere. Non è del momento ma qualcosa ha a che fare con questo momento. C’è chi vorrebbe dare la parola alle Cose. E il virus cos’è?… Avete notato che ho tirato in ballo “cosa” per cercare di definirlo?…Le cose ci assediano. Sono dappertutto. Usiamo cose (scarpe, pantaloni, occhiali, computer…) e mangiamo cose (pasta, riso, pane…). Noi stessi, in ultima istanza, siamo atomi di cose (acqua, carbonio, azoto, calcio, potassio, fosforo…).
Dare la parola alle cose?!… Come è possibile? Le cose non parlano.
Ci sono scrittori, artisti, poeti che hanno cercato, però, di mettersi dal punto di vista delle cose. In un certo senso di farsi cosa, diventare cosa.
A scuola quasi tutti abbiamo letto quella poesia su Natale di Ungaretti che, avendo tanta stanchezza sulle spalle (era in temporanea licenza dalla guerra), invita i suoi lettori a lasciarlo così «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata». Certo, questa è soltanto una similitudine. Ma la “cosa” è tirata in ballo perché soddisfa il bisogno di solitudine del poeta e il desiderio paradossale di non avere più desideri, voglie, timori. Una pulsione di morte, direbbe forse uno psicanalista, che copre un desiderio di nuova nascita (questa poesia, cielo santo, s’intitola Natale!). Però a me interessa l’uso della parola “cosa” che sembra perdere la sua tradizionale connotazione negativa (come quando diciamo: «non sono mica una cosa!») e si fa, per così dire, oggetto di desiderio.
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La Cina sta vincendo la guerra digitale
di Giacomo Marchetti
Le parole di Mike Pompeo, segretario di Stato USA, alla “tradizionale” conferenza sulla sicurezza della NATO svoltasi a metà febbraio a Monaco, rimarranno probabilmente nella storia come l’ultimo sussulto della velleitaria volontà di potenza statunitense. “L’Occidente sta vincendo e stiamo vincendo insieme” aveva detto rivolgendosi prioritariamente ai partner europei dell’Alleanza Atlantica. Ma in verità qualcosa scricchiola, e quel mondo pare andare verso il crepuscolo..
Quello di Monaco, quest’anno, non era una appuntamento rituale per l’establishment nord-americano, tant’è che all’appuntamento è stata presenziata da una delegazione bipartisan di 40 membri con una doppia finalità: convincere i propri recalcitranti partner che la NATO non fosse in stato di “morte cerebrale” come aveva affermato Macron, e soprattutto attaccare ogni possibilità di accordo con la Cina rispetto allo sviluppo del G5, rilevando la punta dell’ “iceberg” della “guerra tecnologica” tra USA e Cina, che da anni è in atto e che neppure gli accordi commerciali della “fase uno” tra USA e Cina hanno fin ora mitigato.
Nelle parole di Mark Esper – segretario della difesa USA – la scelta di un accordo con la Cina su questo campo (effettuata in Gran Bretagna ed in discussione in Germania), avrebbe potuto “compromettere il patto atlantico”. Non meno lapidaria, la speaker democratica Nancy Pelosi che aveva parlato di strada “molto pericolosa” per chi avrebbe accettato la collaborazione con la Cina. Infine, anche il segretario della NATO Jens Stoltenberg si era allineato alla visione statunitense, di fatto criticando le possibili scelte di collaborazione che per lui restavano rinchiuse in una logica di “breve periodo” anziché ponderate sul “lungo periodo”.
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Nascita della Nato e della Comunità Europea, un parto gemellare
di Alessandro Visalli
Ci sono eventi noti, raccontati in tutte le salse e tranquillamente pacifici. Tra questi la connessione tra il progetto di unificazione europea e la necessità atlantica di tenere unito il fronte contro l’Unione Sovietica.
Poi ci sono dei documenti storici che ce li fanno guardare da vicino.
Questo documento messo a disposizione, con alcune esplicative carte, da Limes è di questo genere.
Il 3 aprile 1949 i vertici politico militari degli Stati Uniti e i ministri degli esteri dei paesi dell’Alleanza Atlantica si incontrano, su invito del Presidente Truman, per discutere della geopolitica di contrasto alla minaccia sovietica. L’occasione è la firma del Patto Atlantico. Vi presero parte il presidente americano Harry Truman, il segretario di Stato Dean Acheson, il segretario alla Difesa Louis Johnson e i ministri degli Esteri del Patto Atlantico: Carlo Sforza (Italia), Ernest Bevin (Gran Bretagna), Robert Schuman (Francia), Dirk U. Stikker (Olanda), Paul-Henry Spaak (Belgio), Halvard Lange (Norvegia), Lester B. Pearson (Canada), Gustav Rasmussen (Danimarca), José Caeiro de Mata (Portogallo). Nella riunione, di cui è disponibile oggi il verbale[1], il presidente americano detta con una certa decisione l’agenda del dopoguerra ai suoi sconcertati interlocutori. La minaccia è ben definita, si tratta del comunismo. Non solo quello della schiacciante forza militare sovietica[2] ma per la “forza sociale dinamica ed egualitaria” che “si nutre degli squilibri economico e sociali del mondo” e che rappresenta il “problema-base”, come dirà il presidente nel suo preambolo.
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Monetizzazione del debito: niente panico
di Olivier Blanchard e Jean Pisani-Ferry
In un articolo su VoxEU inusitatamente chiaro, Olivier Blanchard (ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale) e Jean Pisany-Ferry (già consigliere del governo francese) spiegano la monetizzazione del debito. L’emissione di moneta da parte di uno Stato è uno strumento assolutamente naturale per fronteggiare determinate circostanze, ed è già stato esplicitamente dichiarato da Gran Bretagna e Stati Uniti. Anche l’eventualità (assolutamente remota al momento) di un episodio inflattivo potrebbe essere considerata accettabile per la riduzione del peso del debito. Questo articolo contribuisce (confermando quello che nel dibattito in Italia abbiamo sentito in modo forte e coerente solo da Borghi e da Bagnai) a distruggere molti dogmi sulla moneta, il debito e il finanziamento pubblico, e apre anche a una monetizzazione del debito nell’Eurozona, caratterizzata dalla condivisione del rischio sui diversi titoli sovrani, sulla quale tuttavia, dicono i due economisti, non ci dovrebbero essere motivi di panico
Le operazioni straordinarie che sono in atto nella gran parte dei paesi in risposta allo shock da COVID-19 hanno fatto sorgere il timore che una monetizzazione del debito su ampia scala finisca per innescare un grande episodio inflattivo. Questo articolo sostiene che, fino a ora, non ci sia evidenza che le banche centrali abbiano rinunciato o si accingano a rinunciare al loro mandato sulla stabilità dei prezzi. Sebbene ovviamente sia il caso di prestare attenzione, le banche centrali stanno facendo la cosa giusta e gli autori di questo articolo non vedono alcuna ragione di panico.
In risposta alla crisi sanitaria, in molti paesi sono in atto operazioni straordinarie (Baldwin e Welder di Mauro, 2020). Sono stati avviati programmi di sostegno fiscale di portata eccezionale, e spesso a tempo indeterminato, e vengono accompagnati da acquisti altrettanto eccezionali di titoli di stato. Nel Regno Unito, il Tesoro e la Bank of England, hanno annunciato la riattivazione temporanea di un programma che rende possibile il finanziamento diretto della spesa pubblica da parte della banca centrale.
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“Invocando di vivere, scopro che cerco di morire”. Giorgio Agamben e la pandemia
di Francescomaria Tedesco
L’autore del frontespizio del Leviatano, Abraham Bosse, disegnò il sovrano nell’atto di unire la moltitudine disunita e sotto rappresentò una città dalle strade deserte. Solo delle guardie e due strane figure dal naso a becco. Sono due medici della peste, ed evocano il virus che più di altri poteva minacciare la città: la guerra civile. Quell’immagine cita Tucidide, lo ricorda Carlo Ginzburg ma lo ricorda anche Giorgio Agamben, che in un testo di stasiologia riprende lo storico greco: la peste di Atene come origine dell’anomia e della rivoluzione[1]. Nel De cive (e anche nel Leviatano) i doveri del sovrano sono tutti riassunti nella massima il bene del popolo è la legge suprema. Due paragrafi dopo, Hobbes chiarisce: “Per bene dei cittadini non si deve intendere soltanto la conservazione, comunque, della vita, ma di una vita per quanto possibile felice”[2]. È, nella lettura di Agamben, il riconoscimento della superiorità di una vita sociale nel senso più ampio, l’unica davvero ‘piena’ (bios), rispetto alla nuda vita, ovvero alla mera sopravvivenza, la vita animale che accomuna gli esseri viventi (zoé).
Ora alla peste della guerra civile e della dissoluzione si è in realtà sovrapposta la peste vera e propria, il cui contrasto minaccia, secondo Agamben, la pienezza della condizione umana. La gestione dell’emergenza, lo stato di eccezione, subiscono – è il pensiero che il filosofo ha espresso in una serie di articoli ora raccolti sul suo blog sul sito dell’editore Quodlibet[3] – un’accelerazione ulteriore, rischiando di trasformarsi da sporgenza ‘normale’ dell’ordinamento politico-giuridico in una nuova normalità in nome della salute pubblica, laddove però essa non è più il conseguimento della felicità per il maggior numero, ma – e forse a dire il vero più hobbesianamente, nonostante quanto dica Agamben, ché nel Leviatano la salus, stante la rappresentanza, si trasforma nella safety del sovrano[4] – la mera sopravvivenza.
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La classe operaia che non volle farsi Stato: Linea di condotta
di Sandro Moiso
Emilio Quadrelli, Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975 con una introduzione inedita, Interno 4, 2020, pp. 352, 20 euro
“Cos’è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos’è la rapina di una banca confronto alla fondazione di una banca? Che cos’è l’omicidio di fronte al lavoro?” (L’opera da tre soldi – Bertolt Brecht)
Credo sia giusto, in questo quarantunesimo anniversario del 7 aprile e del teorema Kalogero, tornare a parlare di un’opera giunta alla sua terza edizione. A quattro anni dalla seconda (2016) e a dodici dalla prima (2008). Un’opera, quella di Emilio Quadrelli, che non soltanto ripercorre la storia dell’autonomia operaia italiana, dai primi anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, a partire dal conflitto e dall’iniziativa di classe che la fondarono e le diedero le gambe su cui marciare, ma che, in questa nuova edizione, aggiunge un dato di tutto rispetto: la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta uscito nel 1975, accompagnata da un’esauriente Introduzione a cura dello stesso Quadrelli.
Una rivista uscita in numero unico, con datazione di copertina luglio-ottobre 1975, che avrebbe preceduto di poco «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti», uscito poi in nove numeri tra l’autunno di quello stesso anno e il settembre del 1977, di cui si è occupato recentemente sempre Emilio Quadrelli per Red Star Press (qui) proprio per riportare alla luce un’esperienza di analisi e pratica politica militante troppo a lungo rimossa dalla ‘storia ufficiale’ di ciò che è entrato nella memoria collettivaa come Autonomia Operaia.
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Il modo di produzione informatico
di Daniela Danna
Le parole di Marx a proposito dei cambiamenti del modo di produzione colpiscono oggi, agli inizi di aprile 2020, come una sassata: “A un determinato stadio del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, ovvero – ciò che ne è semplicemente l’espressione giuridica – con i rapporti di proprietà nel quadro dei quali fino ad allora si erano mosse. Da forme di sviluppo delle forze produttive, questi rapporti si convertono in loro catene. Arriva così un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica, l’intera immensa sovrastruttura si trascina più o meno rapidamente nel cambiamento”1.
Oggi per accomodare le nuove forze produttive è necessaria la fine della sfera della privatezza, della privacy in inglese, l’espressione con cui si intende la capacità dei singoli di sottrarsi allo sguardo degli altri, e nuove enclosures nell’ambito delle trasmissioni elettromagnetiche.
Le forze di produzione si sono infatti sviluppate (o “evolute”, come in altre traduzioni) rendendo possibile il controllo a distanza dei lavoratori. “Evolute” lo si può dire naturalmente nel senso di rendere possibili profitti maggiori, questo è in un sistema capitalistico l’unico senso del loro “sviluppo”, cioè della direzione che economia e società stanno prendendo, direzione voluta e guidata dalla classe dominante.
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Moneta a debito o NON a debito?
di Francesco Cappello
Uno scudo a protezione del risparmio privato e del Paese
Perché chiedere pericolosissimi prestiti internazionali se in casa nostra abbiamo risorse sufficienti ad affrontare la crisi sistemica in atto ed organizzare la rinascita del paese? Per chi non lo sapesse, noi italiani, abbiamo un risparmio privato pari a quasi il doppio del debito pubblico! 4200 miliardi da impiegare virtuosamente, proteggendoli allo stesso tempo, ed efficacemente, da instabilità finanziarie e dalla normativa bail-in introdotta dall’unione bancaria europea. Esiste un preciso piano di attacco al risparmio italiano da parte di certa finanza a cui è necessario non prestare il fianco. Esso va protetto e valorizzato secondo i dettami della Costituzione che al primo comma dell’art. 47 afferma: la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Lo si può fare tramite l’emissione di titoli di Stato: “buoni di solidarietà e protezione“ riservati al risparmio nazionale secondo la proposta originale di G. Grossi. Non farlo nelle condizioni attuali del paese sarebbe una scelta criminale.
Moneta nazionale o economia di puro debito?
Come dice l’ex Presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan: uno Stato che emette la propria valuta, ha zero possibilità di fallire.
Oggi, alla categoria dei debitori appartengono non solo famiglie e imprese ma interi popoli e le loro organizzazioni statali.
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Sfatiamo gli equivoci e prendiamo coraggio!
di Alberto Micalizzi
Una serie di equivoci di fondo sul funzionamento dell’Unione Europea sta creando un’enorme confusione tra i non addetti, lasciando che i nostri rappresentanti agiscano nello spazio compreso tra ignoranza e malafede.
Equivoco N. 1 – La BCE non è una banca centrale
Pochi hanno compreso che il sistema bancario europeo non ha una banca centrale. Affinché la BCE fosse tale, dovrebbe poter fare due cose esplicitamente vietate dai trattati istitutivi:
i) Il prestito di ultima istanza agli Stati mediante l’acquisto diretto dei titoli di Stato, così come fa la Banca d’Inghilterra, la FED americana o la Bank of China.
ii) Perseguire l’obiettivo della crescita economica, anziché quello della stabilità dell’inflazione.
Dunque, cos’è la BCE? E’ una stanza di compensazione tra banche commerciali finalizzata prioritariamente al buon funzionamento del mercato interbancario. Andrebbe ridenominata “Organo di armonizzazione del mercato interbancario”.
Un altro equivoco strutturale riguarda il Quantitative Easing (QE), che potremmo italianizzare chiamandolo “agevolazione creditizia”.
Si crede che la BCE attui l’agevolazione creditizia a favore delle banche affinché queste portino liquidità all’economia reale (famiglie e imprese). Sbagliato.
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Il Coronavirus detonatore di una nuova crisi globale
di Zosimo
Dal cuore del capitalismo globale, gli USA, matura una crisi economica di proporzioni inedite che dovrebbe porre fine ad un trentennio di dominio assoluto del neoliberismo
L’avvento dell’emergenza COVID-19 negli USA sta mettendo a nudo la realtà e le contraddizioni del sistema politico ed economico. Dopo aver cercato in tutti i modi di ignorare e posticipare l’entrata nella crisi, quando la gravità’ della situazione ha messo la classe politica con le spalle al muro ecco che allora si è messo in moto anche qui il processo che già è stato vissuto in Cina e in Europa, ma naturalmente tutto in salsa americana.
Innanzitutto la direzione politica della crisi ha evidenziato le divisioni e le differenze esistenti nel paese: il Presidente Trump, sia per atteggiamento personale e politico di fondo, sia sotto la pressione di molte potenti lobbies, ha cercato fino all’ultimo di non interrompere del tutto il rituale capitalistico della produzione e del consumo. Non che le sue controparti democratiche si siano comportate in modo differente. Magari in modo meno eclatante e visibile ma anche loro sono rimasti ad osservare finché hanno potuto. Poi alcuni, e tra questi si è distinto il Governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, hanno capito che era il momento di intervenire con risolutezza, per non rimanere del tutto travolti dalla valanga dell’emergenza sanitaria in arrivo. Ed hanno scavalcato Trump che poi nei giorni e settimane successive è stato costretto ad inseguire per non perdere credibilità’ di fronte alla gran parte della popolazione.
Un’emergenza sanitaria che negli USA è esplosa in modo fragoroso nei numeri e nella velocità di diffusione tanto da assicurare nel giro di pochi giorni alla potenza imperialista per eccellenza del capitalismo globalista contemporaneo la triste e non invidiabile leadership mondiale per numero di contagi.
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L'istituzione totale
di Piotr
1. Diversi miei amici indiani mi hanno più volte scritto per avere notizie sull'epidemia da coronavirus in Italia. Nella mia ultima risposta ho espresso la preoccupazione per l'esito neo-totalitario che questa crisi può avere, che è forse ancora più chiaro degli esiti economici e finanziari che per ora io non riesco ancora a mettere bene a fuoco.
La risposta di uno di essi mi ha particolarmente colpito. Devo subito dire una cosa: questo mio interlocutore indiano non è uno che girovaga su Internet alla ricerca di notizie stravaganti. E' una persona di sinistra, è un pacifista, sostiene in modo militante il dialogo tra India e Pakistan, odia i fanatismi ed è persona intrinsecamente tollerante e riflessiva. In più è un ottimo matematico, è stato dean del Dipartimento di Matematica Pura di una prestigiosa università indiana, è razionale e non crede alle spiegazioni soprannaturali.
Ecco cosa mi ha scritto:
“Amico mio, tu dici di non credere alle teorie cospirazioniste. Va bene. Tuttavia io percepisco (I am feeling) che si stia in realtà preparando una grande cospirazione: a great conspiracy is brewing up”.
Attenzione alle parole, perché il mio corrispondente, è una persona molto istruita e meticolosa e non le usa a caso: “isbrewing up” significa “si sta preparando”, “sta fermentando”, “si sta apparecchiando”. Quindi il mio amico non sostiene che il coronavirus sia frutto di una cospirazione (cosa indimostrabile oggi e che con molta probabilità non sarà mai possibile dimostrare e comunque è ininfluente per il discorso politico che dobbiamo fare), ma che la crisi del coronavirus permette una cospirazione.
Poi specifica cosa intende per “cospirazione”: “Mentre noi siamo confinati a casa si sta ordendo ogni misfatto: all misdeeds are being hatched”.
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Un solo mondo, una sola salute, una sola umanità
di Michele Nobile
Ho il piacere e l’onore di collaborare con Michele Nobile dalla metà degli anni ’70, da quando, di me più giovane e appena uscito dal liceo, s’impegnò attivamente nel movimento rivoluzionario italiano e internazionale. Conosco il suo carattere modesto, schivo e restio rispetto a qualsiasi ambizione di carriera politica o di spettacolarizazione della propria enorme preparazione teorica. Per questo mi assumo la responsabilità – e spero che lui non me ne abbia – di proporre questo suo nuovo testo come un Manifesto politico per la fase che stiamo vivendo e per quella che la pandemia capitalistica sta aprendo di fronte a noi.
Considerare questo testo come un Manifesto politico internazionale non implica alcun vantaggio per Michele o per il blog rossoutopico al quale egli collabora. Non implica nemmeno alcuna proposta organizzativa o alcuna demagogia agitazionistica. È solo un Manifesto delle coscienze che può essere ignorato o valorizzato.
Tutto qui, ma è moltissimo perché nel profluvio di testi che stanno dilagando in Rete e nel mondo, questo Manifesto può rappresentare una solida pietra di partenza: senza secondi fini elettorali, senza ambizioni di carriera politica o accademica, senza demagogia gruppettara e minoritaria.
Il mondo andrà come andrà, il capitalismo purtroppo sopravviverà anche a questo suo nuovo crimine (qui descritto in poche parole da Michele), ma alcuni di noi non gli concederanno la cosa più importante: la nostra libertà di pensiero e la nostra convinzione che solo l’abolizione del capitalismo su scala mondiale (Cina compresa) potrà preparare l’umanità alle prossime gravissime emergenze climatiche ed epidemiologiche rispetto alle quali questa pandemia capitalistica da Coronavirus sembrerà solo una piccola prova generale.
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Per una “economia di guerra” sanitaria
di Giorgio Gattei, Antonino Iero
1. La teoria di una “economia di guerra”
L’economia ha le sue regole inflessibili e se la lotta al Coronavirus assomiglia sempre di più ad una guerra, sebbene sanitaria, allora si devono considerare i passaggi obbligati della c.d. “economia di guerra”, che è una dignitosa branca della scienza economica sviluppata nel corso delle due guerre mondiali del Novecento ed elaborata in Gran Bretagna, in Germania, negli Stati Uniti ed anche in Italia. Proprio da noi, tra il 1939 e il 1943, è stato teorizzato un “circuito monetario di guerra” che abbina alla “mobilitazione delle risorse produttive”, sia materiali che umane, anche e soprattutto una mobilitazione della moneta necessaria per soddisfare il bisogno collettivo della “vittoria sul nemico”[1]. Infatti, per affrontare una guerra (anche sanitaria) non basta pianificare l’apparato “di contrasto” adeguato, ma bisogna anche programmare le modalità del suo finanziamento. Per questo il punto di partenza del “circuito” non può stare che nelle mani dello Stato, con tutta la “potenza di fuoco” della produzione di quella sua “moneta sovrana” nella quantità necessaria a sostenere il fronte di combattimento (che in una guerra sanitaria è rappresentato dagli ospedali, mentre i soldati sono i medici e gli infermieri ed i caduti sono, in primo luogo, il personale sanitario e, in secondo luogo, i malati che non ce l’hanno fatta).
Lo Stato deve quindi immediatamente spendere (in questo caso la fretta è buona consigliera) e non può pensare di ricavare il denaro che gli serve con gli strumenti tradizionali del fisco (troppo lento) o del debito pubblico (troppo incerto).
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