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Il ritorno della questione salariale
di Luca Casarotti
Una recensione a “Basta salari da fame!” di Marta e Simone Fana
A due anni da Non è lavoro, è sfruttamento (già recensito qui su Lavoro Culturale), Laterza pubblica Basta salari da fame! (2019, pp. XX-172). L’accostamento dei titoli è sufficiente a segnalare che i due libri sono tra loro in rapporto di stretta parentela. Non solo perché Marta Fana è autrice del primo e coautrice – con il fratello Simone – del secondo, ma anche perché comune è il tema affrontato: i modi in cui si dà lo sfruttamento della classe lavoratrice, in Italia e non solo. Se il pamphlet del 2017 era soprattutto una fenomenologia del qui e ora, il saggio del 2019 mantiene il focus sull’attualità, ma imprime alla critica dello stato delle cose la profondità della prospettiva storica. L’obiettivo è rompere la gabbia del “non ci sono alternative”, ossia rispondere con gli strumenti del materialismo storico alla naturalizzazione del presente. O meglio, di un’idea del presente, quella condensata nell’ubiqua massima (d’autore incerto) secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Una naturalizzazione che si è sentita evocare a più riprese in occasione dei trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, e che non è affatto nuova. È anzi piuttosto datata: il libro che ne rappresenta il manifesto filosofico politico, The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama, risale al 1991), ma riprende in buona sostanza Kojève, il quale a sua volta interpretava, forse unilateralmente, Hegel. Come che sia, è poca cosa accontentarsi di constatare quanto può essere vecchia e teoricamente insostenibile l’idea di un capitalismo naturalizzato, perché è su quest’idea (non a caso strenuamente difesa dal suo cantore, a costo d’introdurre caveat e fare concessioni ai critici) che si continuano a giustificare la realtà dei rapporti di produzione e le radicali ineguaglianze che ne sono il fondamento e il prodotto.
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Rapporto Oms. Come la Cina sta vincendo il virus
di Redazione Contropiano
E voi “godetevi” la sanità privata e regionalizzata…
Una Commissione internazionale di esperti virologi, diversi dei quali statunitensi, è stata inviata in Cina dall’Organizzazione mondiale della sanità. Il loro rapporto finale, dopo un approfondito esame della situazione sanitaria in loco, è un poco meno che entusiastico.
Apprezzato tutto, dalle misure prese per il confinamento (decine di milioni di persone chiuse in casa) allo sforzo inaudito per rafforzare la sanità pubblica là dove era indispensabile. Con cifre impensabili qui da noi, non solo in assoluto (che è ovvio, vista la differenza di dimensione della popolazione…), ma soprattutto in percentuale.
Emerge la superiore efficienza di un modo di concepire e organizzare la vita sociale a partire da un interesse generale. Non c’entra nulla l’ideologia, quel che conta sono le priorità fissate politicamente, ossia gli obbiettivi che devono guidare un’azione generale.
Fin dall’inizio è stato chiarissimo che l’economia avrebbe subito un colpo molto duro, con una provincia di 60 milioni di abitanti, cuore dell’industria automobilistica cinese, completamente ferma per almeno un paio di mesi.
Ma nessuno è stato licenziato per questo, al contrario che qui da noi. Il Paese prende su di sé il carico di una sua parte che si deve fermare perché la priorità è fermare la diffusione del virus. Per l’economia si provvederà dopo, concentrando anche in quel caso lo sforzo generale.
Tutto l’opposto di quel avviene da noi, in tutta Europa e ancor più negli Stati Uniti, “patria” della privatizzazione e dove un tampone in un ospedale privato costa 3.200 dollari e quindi – come ha ben sintetizzato anche Vasco Rossi – nessuno o quasi lo fa. E dunque la diffusione del virus è “libera”. Le persone vengono ospedalizzate solo quando crollano.
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Prolegomeni a una filosofia della verità
di Vox Populi
In contrapposizione al nichilismo e al prospettivismo, il compito di una filosofia dell’emancipazione è quella di lottare per qualcosa: l’esistenza di una verità ne è precondizione, per orientare la guerra contro il capitale
L’articolo affronta temi che orbitano intorno alla verità e al discorso in senso Foucaultiano, partendo dall’«occultamento-svelamento» di determinati aspetti della realtà, all’utilizzo dei discorsi e delle dislocazioni delle fonti di verità nella lotta di Socrate e Platone contro i sofisti e i cinici, allo scopo e ai tipi di critica (immanente e trascendente) infine alla proposta di un maggior ascolto della realtà al fine di potersi collegare in modo più profondo ed efficace con le masse, per dare nuova vita ed energie al movimento rivoluzionario.
L’obiettivo è quello di dotare di nuovi strumenti teorico-discorsivi, come di comprensione, il movimento comunista di cui i tempi moderni hanno bisogno, per criticare il tempo presente e avere la meglio su movimenti di destra e nichilismo giovanile che si sono, in buona parte, saputi riaggiornare.
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La questione della verità
Al giorno d’oggi uno degli argomenti più bizzarri dello scenario culturale è la verità: coesistono opinioni per cui la verità condivisa non esiste (pertanto assume forma individuale, se non esiste proprio) ma la verità scientifica sì, per altri vale l’inverso, certi non si pongono il problema e altri ci pensano in maniera esclusivamente speculativa e non pratica.
Per noi il problema della verità si pone perché il movimento rivoluzionario deve innanzitutto esser capace di criticare lo stato di cose presente, di connettersi alle coscienze delle persone e di creare qualcosa di nuovo a partire da un panorama culturale storicamente dato: è importante affrontarlo per fissare i compiti più generali e le potenziali modalità con cui realizzarli.
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Gli abissi del potere: il “Deep State” tra mito e realtà
di Lucio Mamone
Torna sulle nostre colonne Lucio Mamone, che ci parla del tema del “Deep State” statunitense, recensendo il saggio “The Deep State: The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government” scritto dall’ex funzionario del governo di Washington Mike Lofgren e parlando delle dinamiche che regolano i rapporti di forza nella capitale dell’impero a stelle e strisce
La vittoria nordamericana nello scontro epocale con l’Unione Sovietica ha lasciato presagire l’avvento di una lunga epoca d’espansione per la liberaldemocrazia e di egemonia mondiale per gli Stati Uniti stessi. Questa attesa diffusa ha trovato la sua espressione più consapevole e conseguente, nonché la più fortunata, nell’idea di «fine della storia» di Francis Fukuyama, autore divenuto così improvviso interprete dello spirito del tempo. Tempo però assai breve, poiché l’ironia della storia, che punisce puntualmente i sogni troppo affrettati di imperi millenari, ha prontamente intessuto per l’Occidente un intreccio di sfide inattese, dal terrorismo jihadista all’ascesa cinese, e di clamorosi fallimenti, dagli insuccessi militari in Nordafrica e Medio oriente alla crisi economica del 2008. È bastato così il primo decennio del millennio sia per smorzare l’entusiasmo dei profeti, che per produrre una profonda disaffezione e sfiducia all’interno della società occidentale verso quel modello politico-economico che avrebbe dovuto rappresentare il coronamento di millenni di evoluzione sociale. Non sarebbe tuttavia corretto dire che l’idea di «fine della storia» sia stata semplicemente sostituita da una nuova visione, più realistica o pessimistica a dir si voglia, quanto più che quel presentimento di compimento della parabola moderna abbia assunto la forma del timore, quasi claustrofobico, di essere intrappolati in un sistema obsolescente e incapace di riformarsi. D’altra parte la reazione alle ripetute crisi da parte delle classi dirigenti occidentali, quella statunitense in testa, si è tutta concentrata sul tentativo di mantenimento dello status quo e di convincimento circa l’impossibilità di un’alternativa, lasciando sempre più emergere il carattere impositivo dell’ideologia neoliberale di «fine della storia».
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Capitalismo digitale. Il futuro colonizzato
di Renato Curcio
Incontro-dibattito sul libro Il futuro colonizzato. Dalla virtualizzazione del futuro al presente addomesticato, di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2019), presso il Csa Vittoria, Milano, 24 ottobre 2019
Vorrei iniziare leggendo due frammenti di due interviste uscite recentemente sui giornali internazionali e italiani; sono poche righe, ma penso che potranno ben introdurci al tema che cercheremo in qualche modo di raccontare.
La prima è di Leonard Kleinrock, un uomo importante nella storia di Internet, anzi si può dire il primo uomo: è stato quel ricercatore che nel 1969 è riuscito a mettere per la prima volta in contatto due computer. Per tanti anni ha poi lavorato ai progetti di nascita della rete ed è noto agli studenti di tutte le università perché è il fondatore dell’informatica come disciplina universitaria. A ottobre ha dichiarato: “Il nostro Internet era etico, di fiducia, gratis, condiviso. Oggi è passato da risorsa digitale affidabile a moltiplicatore di dubbi, da mezzo di condivisione a strumento con un lato oscuro. Internet consente di arrivare a milioni di utenti a costo zero in maniera anonima, e per questo è perfetto per fare cose malvagie: spam, addio alla privacy, virus, furto d’identità, pornografia, pedofilia, fake news. Il problema è nato quando si è voluto monetizzarlo: si è trasformato un bene pubblico in qualcosa con scopi privati che non ha la stessa identità del passato”. Kleinrock quindi afferma che ci sono due fasi: una prima in cui è nato Internet come progetto scientifico e di ri cerca, che aveva comunque un’intenzione pubblica, e una seconda in cui qualcuno ha cominciato a monetizzarlo ed è diventato una cosa ‘malvagia’.
Edward Snowden, che conosciamo tutti, in un’altra intervista ha sintetizzato così il suo punto di vista: “Alle origini Internet era il luogo in cui tutti erano uguali, un luogo dedicato alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.
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Sull’epidemia delle emergenze e sulla catastrofe come campo del possibile
di Jack Orlando e Sandro Moiso
Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e di vita capitalistico.
Il Coronavirus ha avuto un tempismo perfetto, cascando nel bel mezzo di una congiuntura che vedeva già intrecciarsi l’inizio di una nuova macroscopica crisi finanziaria ed economica, con una profonda crisi politica delle istituzioni locali, nazionali e globali e con una tensione crescente alla guerra, che solo in questi giorni prende una nuova accelerata, con masse di profughi che premono ai confini d’Europa e la Turchia che tenta di mangiarsi la Siria e conquistarsi un primato che non sarebbe più solo regionale.
Una grande situazione di possibilità, in fondo, che però trova pronta ad accoglierla una parte delle associazioni imprenditoriali1, ma non trova nessuno a raccoglierla tra le fila del “partito rivoluzionario”, sempre ammesso che ne esista ancora uno. Questo perché ci sembra che, dalle nostre parti, smarrite le bussole del conflitto, ci si adagi nella denuncia dell’emergenza accodandosi alla sua narrazione mediatica, senza coglierne le complessità né i margini di azione che ci offre.
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Chi esce dall’euro muore?
di coniarerivolta
Spesso e volentieri nel dibattito sul ruolo e il destino dell’Unione europea il sistema mediatico dominante lancia anatemi sugli enormi rischi derivanti da un’eventuale uscita. Si tratta di una strategia preventiva volta a chiudere il dibattito sul nascere presentando ogni opzione di eventuale rottura, o anche solo ogni voce critica, come un’irresponsabile e puerile fuga in avanti irrealizzabile o terribilmente dannosa.
Di recente ci ha pensato Floris, noto presentatore “Di martedì”, a terrorizzarci con un elenco dei costi che l’Italia dovrebbe sostenere se qualche folle si mettesse in testa di uscire dall’Unione europea. E lo ha fatto ricorrendo ad un breve schema ad effetto.
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obbligo di restituzione di 430 miliardi alla BCE;
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fuga di investitori e capitali, rischio default banche;
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maxi-inflazione, crollo potere acquisto salari e pensioni;
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mutui in euro più cari da ripagare in lire;
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aumento costo materie prime, aumento bollette.
Lo schemino di Floris ci fornisce lo spunto per fare chiarezza in particolare sul primo punto, quello relativo alla presunta restituzione di 430 miliardi alla BCE. Ci si riferisce al saldo di un conto, aperto presso la BCE, noto come Target 2.
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Capitale e natura
di Carla Filosa
Unità di natura e modo di produzione
In questo scritto ci si propone di considerare i cambiamenti climatici determinati dalle attività umane separati da quelli naturali. Ci si concentrerà su questi ultimi non da un punto di vista tecnico, demandato agli esperti del settore, ma da un punto di vista sociale e storico. Si assumerà il problema del riscaldamento climatico (Global Warming), e non solo, secondo le analisi effettuate sin dagli anni ’50 dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), quale massimo consesso mondiale di esperti sul clima.
Non si ritengono attendibili, al contrario, le tesi relative all’“allarmismo climatico” perché volte a negare o minimizzare le rilevazioni scientifiche che potrebbero compromettere la regolare continuità delle incidenze umane. Queste sono infatti considerate altamente probabili – la cui possibilità è data al 95-100% - su un riscaldamento dell’atmosfera terrestre e degli oceani, che comporterebbe disastri quali scioglimento di nevi e ghiacci con conseguente innalzamento dei mari, pericolo per gli insediamenti umani sulle coste delle terre emerse, concentrazione di gas serra tra cui soprattutto CO2, ecc. Siccome si riscontra una scarsa comprensione delle relazioni specifiche che intercorrono tra sistemi economico-sociali e la variabilità naturale del clima nel corso della storia, si cercherà di portarle all’attenzione come un fattore complesso e non subalterno all’ideologia della semplificazione ad ogni costo. Si è certi che senza l’analisi congiunta di entrambi gli aspetti, quello naturale modificato e continuamente modificabile da quello storico determinato, non può darsi consapevolezza concreta dei problemi e, con questa, la capacità – auspicabilmente efficace – di intervenire per la loro possibile risoluzione in positivo.
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Bambini allo Stato
di Il Pedante
Premessa: sono felice di avere frequentato una scuola materna e di averla fatta frequentare ai miei figli. Lo sono anche i miei coetanei, pur con poche, ma rispettabili e motivate, eccezioni. Dovrei dunque rallegrarmi del fatto che il nostro governo propone in questi giorni di renderne obbligatoria la frequenza? No, anzi. La notizia mi ha fatto male, come fa male assistere a una violenza sproporzionata e gratuita. Perché l'obbligo è una violenza: in certi casi necessaria, ma comunque tale. E nella marea di nuovi obblighi, adempimenti e sanzioni che sta salendo in questi anni sembra appunto svelarsi la trama di una società sempre più violenta nel metodo. Che non sapendo più offrire, costringe. E non sapendo convincere, impone. Perché, mi sono chiesto, un servizio ai cittadini deve trasformarsi in un dovere? Perché un diritto deve negare un altro diritto? Perché rendere odiosa e minacciosa un'occasione di crescita bene accolta da tutti? Perché farne un pretesto per accorciare il guinzaglio?
Nel cercare le risposte a queste domande, il mio malessere cresceva. In un tweet del 16 febbraio, il viceministro all'istruzione Anna Ascani spiegava che «estendere l'obbligo alla scuola dell'infanzia significa dare a tutti i bambini e alle loro famiglie più opportunità». Pochi giorni dopo, il Corriere della Sera dava la notizia dell'«asilo obbligatorio dai tre anni» aggiungendo nel titolo: «oggi frequenta solo il 12% dei bimbi». In entrambi i casi, non bisogna essere maliziosi per capire che c'è un grosso problema: sia nel rappresentare un obbligo come il suo contrario (una «opportunità»), sia nel suggerirne l'urgenza affiancandogli a caratteri cubitali un dato inapplicabile e irrilevante. Il «12% dei bimbi» è infatti la quota di frequenza degli asili nido, cioè dei bambini fino ai tre anni di età, mentre le scuole dell'infanzia oggetto della proposta sono già frequentate dal 92,60% dei piccoli del nostro Paese, che si colloca così al nono posto in Europa (fonte Openpolis).
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Capitalismo della sorveglianza
di Salvatore Bravo
Le metamorfosi del capitalismo
Il capitalismo è un movimento rivoluzionario, la sua ascesa ed il suo impero è sempre stato nell’ottica di una rivoluzione del plusvalore che mentre libera dai vincoli, dalle leggi, dalle identità tradizionali impone nuovi ceppi. Il movimento rivoluzionario del capitalismo è dunque non solo complesso, ma integra piani diversi di sfruttamento in funzione del plusvalore. La verità del capitalismo resta inalterata nei secoli associa lo sfruttamento all’alienazione, ma le forme storiche sono in perpetua metamorfosi. Il divenire sempre più veloce delle forme strutturali rende difficile la risposta politica dei suoi oppositori. Il testo di Shoshana Zuboff Il capitalismo della sorveglianza ci è di ausilio per conoscere e sistematizzare la nuova forma che il capitalismo sta assumendo. Shoshana Zuboff definisce l’attuale fase del capitale “capitalismo della sorveglianza”, quest’ultimo si struttura per la capacità di strumentalizzare lavoratori e non attraverso la capacità di astrarre, conservare ed utilizzare informazioni sulla loro vita a fini commerciali e determinare i loro comportamenti. Si tratta di un’operazione che investe l’intera società trasformata in un laboratorio sperimentale dove attuare tecniche predittive sui comportamenti. Il capitalismo mentre invita ad abbandonare ogni limite nel consumo, nel contempo determina le scelte fino a sostituirsi in modo impalpabile ai “liberi consumatori…”
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Le determinanti della produttività del lavoro nell’Area Euro
di Stefano Lucarelli, Marco Veronese Passarella
1. La funzione della produttività di Paolo Sylos Labini
Il divario nei tassi di crescita della produttività del lavoro tra centro e periferie europee viene spesso indicato come uno dei principali fattori alla base degli squilibri esteri dei paesi membri dell’Area Euro che hanno segnato il primo decennio degli anni duemila (si veda, ad esempio, Draghi 2013). Proprio quel divario fornisce il maggiore argomento a favore delle cosiddette “riforme strutturali”, chiamate a risollevare la competitività delle produzioni periferiche attraverso un aumento della flessibilità nelle condizioni lavorative. Ricondurre la dinamica della produttività del lavoro alla struttura del mercato del lavoro dei paesi membri dell’Area Euro ha l’indubbio vantaggio di mettere in luce il fatto che la prima non è il semplice riflesso di condizioni tecniche esogene. Al contrario, la produttività del lavoro è una grandezza endogena che dipende da una varietà di fattori economici, sociali e istituzionali. Ma è davvero la struttura del mercato del lavoro il fattore più importante? Non la pensava così Paolo Sylos Labini (1920-2005), uno dei più influenti ed acuti economisti italiani del ventesimo secolo. Per Sylos Labini le determinanti chiave della produttività del lavoro andrebbero piuttosto ricercate nella crescita dei mercati dei prodotti, nel rapporto tra costo del lavoro e prezzo dei macchinari, nel costo assoluto del lavoro e nella dinamica degli investimenti (si rinvia a Sylos Labini 1984, 1992, 2004).
Che l’estensione del mercato sia uno dei principali vincoli alla divisione del lavoro e dunque all’introduzione di innovazioni tecniche ed organizzative è un’osservazione che si deve già al padre dell’economica politica, Adam Smith, il quale ne parla estesamente nella sua Ricchezza delle Nazioni del 1776.
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Osservatorio internazionale: il mondo di Trump
di Alberto Benzoni
Thailandia
Il Tribunale costituzionale, emanazione del regime conservatore/militare oramai in sella da anni ha sciolto il principale partito di opposizione democratica. Fortemente presente sia nei grandi centri urbani e nelle aree neglette del paese, con 81 seggi in Parlamento su 300.
Motivazione: l’uso, a quanto pare illecito, di fondi a disposizione del presidente del partito per finanziarne la campagna elettorale. Pena accessoria: l’inibizione a svolgere attività politiche per 12 anni comminata al presidente e ai massimi dirigenti.
Reazione dei medesimi: “prendiamo atto di quanto è avvenuto; ma continueremo a lottare per ristabilire la democrazia nel nostro paese; e con mezzi pacifici”.
Reazioni della collettività internazionale; non pervenute.
India
Visite di Modi negli Stati Uniti: nessuna sotto Obama ( c’era ancora la faccenda della sua complicità, come presidente di uno stato, in un pogrom in cui erano stati uccisi 2000 musulmani ). Una, con tappeti srotolati e effusioni reciproche con l’avvento di Trump.
Oggi, visita di Trump in India. Ipermediatica, con sfilate, cerimonie, folle oceaniche e ipereffusioni complimentose e reciproche ( nessun negoziato firmato o avviato; ma lo stesso Trump ha annunciato che si apriranno presto e porteranno a risultati “terrific”, leggi strabilianti). In compenso complimenti a gogo; “comuni destini, identità di vedute, esempi per tutto il mondo libero, India simbolo dell’armonica coesistenza di etnie e religioni diverse”; e via discorrendo.
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Quando l’Europa suicidò il Pianeta, e si continua
di Carlo Bertani
Il 3 Agosto del 1914 l’Europa decise di suicidarsi: in un anelito di gloria e di fulgore bellico – che tutto annebbiò, compresi i rischi che ne derivarono – l’Europa decise di farla finita. Con un pessimo trattato di pace, nel 1919, gettò le basi per il secondo tempo, come oramai tutti gli storici sono concordi nel definire Prima e Seconda guerra mondiale un unico evento, frammentato in due episodi.
Dal 3 Agosto del 1914 al 15 Agosto del 1945, in soli 31 anni, la follia degli ultimi re ed imperatori, spalleggiati dai presuntuosi francesi e poi da qualche dittatore, ridussero un intero continente alla fame. Nel Novembre del 1918, appena giunta la pace, i giornali di Vienna salutarono come degli angeli una colonna di mezzi militari italiani che giunse a Vienna, con rifornimenti per la popolazione che moriva letteralmente di fame, giacché la mancanza di uomini nei campi aveva impedito quasi del tutto le semine primaverili.
I rifornimenti, ovviamente, non potevano essere italiani (alla fame come gli austriaci!) ma erano giunti dagli Stati Uniti via nave a Venezia: si tornava a mangiare! Peccato, però, che nel 1917 in Kansas fosse comparso un piccolissimo virus denominato, poi, spagnola perché i primi giornali a fornire notizie furono quelli spagnoli, mentre nel resto d’Europa la stampa era sotto censura militare e certe notizie venivano cancellate con un tratto di penna dai solerti generali-censori.
La Spagnola non si conosce nemmeno quanti morti causò: si narra dai 50 ai 100 milioni di vittime, dovute ad una variante del solito virus H1N1, quello della comune influenza, soltanto che il virus s’abbatté su popolazioni stremate dalla fame, dal freddo e dalle privazioni: in Italia, le vittime furono 600.000, tante quante ne causò la guerra.
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Dai “contenitori dell’ira” ai “contenitori di potere”
di Alessandro Visalli
All’avvio del secondo decennio del nuovo secolo il mondo si trova in una fase di caos sistemico a fatica tenuto a freno dalle potenze politico-militari declinanti e dai sistemi di ordine monetari del mondo liberale. Ne sono segno la sempre maggiore fragilità della fase finanziaria del capitalismo, costantemente sull’orlo di una crisi sistemica, che viene rinviata utilizzando tecniche per loro natura insufficienti, mentre la dittatura del pensiero di economisti morti da tempo e degli interessi che questi servivano, e servono, impedisce azioni necessarie per allontanare l’amaro calice.
Mentre tutti gli spazi residui, con i tassi da tempo sotto zero e i bilanci delle Banche Centrali carichi di titoli “spazzatura” e malgrado ciò i principali istituti di credito zavorrati da portafogli a dir poco dubbi (quello della Deutsche Bank è valutato dai mercati ad un terzo del valore di libro), sembrano esauriti, arriva puntuale il ‘cigno nero’ di un’epidemia che rischia di fermare i luoghi più dinamici dell’economia mondiale, sovraccaricare i sistemi pubblici di sicurezza sanitaria e imporre spese fiscali ingenti per evitare fallimenti a catena, individuali ed aziendali. L’intera Europa, Germania in primis ma Italia immediatamente dietro, entra in questa congiuntura nelle peggiori condizioni possibili, resa fragile dall’ossessione per la crescita a mezzo di esportazioni, ottenuta comprimendo selvaggiamente il mercato interno e per esso la capacità di resilienza del sistema pubblico di sicurezza sociale (sanità, istruzione, sistemi territoriali ed a rete, etc..). In un sistema economico mondiale che ha scelto di sacrificare la stabilità sociale, e quindi politica, sull’altare del profitto (ovvero della protezione dell’appropriazione privata del surplus), e per ottenere questo risultato ha spinto sull’interconnessione guidata dalle grandi aziende monopoliste e oligopoliste, il rallentamento del commercio internazionale suona come una campana a morte.
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La Pandemia prossima ventura
di Angelo Baracca
Si stanno accavallando le considerazioni più svariate sull’attuale epidemia da coronavirus, pareri discordanti di specialisti, valutazioni politiche diverse: non solo il cittadino comune riceve una gran confusione, ma anche una persona con qualche base scientifica stenta molto ad orientarsi. Io sono un fisico di formazione e nonostante i miei interessi generali non sono in alcun modo un esperto in questo campo, ma sono debitore al Dott. Ernesto Burgio di informazioni e commenti basilari per questo articolo (dei cui contenuti peraltro egli non ha alcuna responsabilità).
In primo luogo mi sembrano fondamentali alcune precisazioni che da molti resoconti e interviste, anche di specialisti, non emergono, o non emergono chiaramente.
I virus non sono microrganismi in senso stretto, ma “acidi nuclei impacchettati”, virus è un termine generico che comprende un grandissimo numero di famiglie e specie con caratteristiche molto diverse, come struttura, tipo di replicazione, cellula ospite (animali, funghi, piante o batteri), tropismo di tessuto od organo, tipo di trasmissione, ecc. (per farsi un’idea si può ricorrere alla solita Wikipedia. Non mi stupisce che anche fra gli esperti vi siano opinioni diverse perché ogni specialista è legato al suo campo, altrimenti oggi non sarebbe uno “specialista”: lo so bene dalle lotte contro il nucleare degli anni ‘80 dove tutti (o quasi) i fisici e gli ingeneri erano a favore di questa tecnologia.
Il coronavirus attuale (SARS-Cov-2, che causa la malattia Covid-19), come quello della SARS del 2003 (SARS-Cov), differiscono dai comuni virus influenzali per essere virus ricombinanti, emergenti da pochi mesi o anni da serbatoi animali naturali o artificiali come quelli degli allarmi aviari degli ultimi vent’anni (1997/2005) e i coronavirus 2002/2003 e 2019/2020.
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La rivoluzione culturale e la depoliticizzazione
di Wang Hui
I commentatori cinesi sono stati curiosamente assenti dalle discussioni internazionali sugli anni Sessanta, nonostante il fatto che la Rivoluzione Culturale fosse così centrale in quel tumultuoso decennio. Questo silenzio, direi, rappresenta non solo un rifiuto del pensiero e della pratica radicali della Rivoluzione Culturale, ma una negazione dell'intero "secolo rivoluzionario" della Cina - l'era che si estende dalla Rivoluzione Xinhai nel 1911, che pose fine al dominio monarchico, a intorno al 1976. Il prologo del secolo fu il periodo che va dal fallimento del wuxu o della Riforma dei cento giorni nel 1898, avviato dall'imperatore Guangxu e dai suoi sostenitori, all'insurrezione di Wuchang del 1911, l'evento scatenante della Rivoluzione repubblicana; il suo epilogo fu il decennio tra la fine degli anni '70 e il 1989. Durante tutta questa epoca le rivoluzioni francese e russa furono modelli centrali per la Cina e gli orientamenti verso di loro definirono le divisioni politiche dell'epoca.
Il movimento per la Nuova Cultura del quarto periodo di maggio (circa 1915-1921), che respinse i valori confuciani a favore di una nuova cultura cinese basata sui principi democratici e scientifici dell'Occidente, sostenne la rivoluzione francese e i suoi valori di libertà, uguaglianza e fraternità ; i membri del Partito Comunista della prima generazione presero come modello la Rivoluzione Russa, criticando il carattere borghese del 1789. Dopo la crisi del socialismo e l'ascesa delle riforme negli anni '80, l'aura della Rivoluzione Russa diminuì e riapparvero gli ideali della Rivoluzione Francese. Ma con l'ultima caduta del sipario sul secolo rivoluzionario della Cina, il radicalismo delle esperienze sia francesi che russe era diventato oggetto di critiche. Il rifiuto cinese degli anni Sessanta non è quindi un episodio storico isolato, ma una componente organica di un processo de-rivoluzionario continuo e totalizzante.
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La Wuhan "de noantri"
Ovvero: fa più disastri il coronavirus o il virus del panico indotto?
Per un paio di giorni sono stato incerto se scrivere quanto qui leggerete. Ne ero vieppiù convinto, via via che studiavo la stampa nazionale e internazionale, le dichiarazioni degli scienziati e degli esperti e tutto il materiale disponibile in materia. Al punto che se fossi stato un qualsiasi cittadino/a senza ruoli specifici o quello che in politica si chiama “un cane sciolto” non avrei avuto dubbi. Ma farlo in qualità di portavoce Cobas, in un clima isterico e paranoico - ove gli opinion makers, come succede quasi sempre in Italia, sono esperti di camaleontismo, trasformismo e dunque assecondano la corrente dominante - rende l’andare controcorrente, pur sempre faticoso in Italia, particolarmente improbo quando si rischia di passare per “untori” o per “complici” dell’espansione dell’epidemia. Però ieri mi ha convinto definitivamente Attilio Fontana, governatore della Lombardia e leghista doc (quello della difesa della "razza bianca", che dopo la dichiarazione ha dovuto mettersi in autoisolamento poichè una sua collaboratrice è risultata positiva al tampone) che così ha parlato al Consiglio regionale lombardo: “Cerchiamo di sdrammatizzare: questa è una situazione senza dubbio difficile ma non così pericolosa. Il virus è aggressivo e rapido nella diffusione ma molto meno nelle conseguenze: è poco più di una normale influenza, e questo lo dicono i tecnici”. Diavolo, ma se Fontana, che rischia ben di più di me per dichiarazioni del genere, ha deciso di parlare in tal modo, perché mai io dovrei autocensurarmi?
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Un virus scaccia l'altro. Trojan e dintorni
di Sebastiano Isaia
Tutti occupati e preoccupati dal famigerato Covid-19, probabilmente abbiamo sottovalutato l’importanza del regalo virale che lo Stato, bontà sua, si appresta a somministrarci per irrobustire il sistema immunitario della società civile, troppo spesso incline a certe affezioni eticamente e legalmente riprovevoli. Naturalmente sto parlando del “virus informatico” chiamato Trojan (1). Per Marco Travaglio, forse il “teorico” più significativo dell’italico giustizialismo, il Trojan è un «raro caso di virus benefico», e già questa semplice affermazione la dice lunga sul concetto di “bene” che hanno in testa gli ultrareazionari – di “destra” e di “sinistra”. Personalmente temo più il Trojan inoculato dallo Stato nel corpo sociale, che il Coronavirus che sta mettendo a dura prova il sistema immunitario di alcune persone – e l’intelligenza di molte altre.
Una campana di “destra”: «Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione (2), che è un regalo all’ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan, una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un’arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato. […] La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere» (V. Feltri, Libero).
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Il salario sociale di classe
di Carla Filosa
Il governo del capitale, qualunque sia la sua denominazione (democratico, fascista, liberale, ecc) può mantenersi solo attraverso menzogne, sviamenti, dilazioni, svuotamento di contenuti
Nei nostri tempi di continua precarizzazione del lavoro, delle finte “autonomie lavorative”, dei lavori senza contratto, dei “lavoretti”, della mancanza di sicurezza sul lavoro, ecc., sembra prioritario fare chiarezza sulle cause delle modalità remunerative che tendono a cancellare il significato di salario, erroneamente identificato nella sola busta paga. Le ultime generazioni non conoscono a volte neppure l’uso di questo termine, al massimo si parla di stipendio, quando devono ricevere un pagamento per prestazioni effettuate.
Anche la comunicazione mediatica favorisce l’obliterazione concettuale del lavoro salariato usando prevalentemente le parole come “occupazione” o “disoccupazione” legate ad una ineluttabile fase di crisi economica, di cui non si menziona né l’origine né le dinamiche di una sua possibile risoluzione.
Riaffrontare i temi legati al salario ripropone quindi una necessaria riflessione critica sui temi sociali legati all’attualità sì dei processi inflattivi, dei fenomeni ambientali e migratori, delle innovazioni tecnologiche, ecc., ma soprattutto delle relazioni sociali che fanno capo alle “diseguaglianze” e alle “povertà assolute e relative”, su cui ormai si organizzano analisi e dibattiti diventati di moda.
Per orientarsi pubblichiamo la presentazione del libro di Gianfranco Pala “Propriamente salario sociale di classe. Critica delle mistificazioni del valore della forza-lavoro” edito da La Città del Sole che sarà presentato venerdì 6 marzo 2020 alle ore 18.30 presso la Libreria Fahrenheit 451 Piazza Campo de’ Fiori 44 - Roma da Carla Filosa, Presidente dell’Università popolare A. Gramsci, che ne ha scritto l’introduzione che proponiamo ai nostri lettori.
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Contro l’urbanicidio: la lezione di Marshall Berman
di Vittorio Giacopini
L’esperienza della modernità è un’impresa fondamentalmente, frontalmente, abissalmente urbana e, mentre i reazionari (di sinistra) si dilettano con stucchevoli esercizi di ‘paesologia’, sarebbe il caso di accettare la sfida del presente alla radice. L’ultima frontiera di quella che una volta si sarebbe chiamata lotta di classe, oggi, riguarda la vita e la morte delle grandi città, per citare Jane Jacobs: la privatizzazione, senza margini, degli spazi comuni, la trasformazione delle città in parchi a tema e la turifisticazione, la gentrification, dei centri urbani. Provare a contrastare questa deriva apparentemente ovvia, inarrestabile, è una battaglia di resistenza che non bisognerebbe lasciare in mano agli esperti, ingenuamente, illudendosi che sia un problema tecnico, o economico. Scrittori, intellettuali, cittadini devono porsi il problema, come tutti. Per farlo bisogna mutare percezioni e abitudini mentali o compiaciute o molto fiacche e pigre, indifferenti. Chi si bamboleggia col flaneur di Baudelaire, col Walter Benjamin tascabile delle citazioni abusate, pret à porter, chi legge Sebald come se fosse una versione midcult della Lonely Planet farebbe bene a riconoscere che quell’era è finita, e senza scampo. Il flaneur – lo scrive uno dei maggiori esperti italiani di studi urbani, Mario Maffi – ormai ha lasciato campo al ‘rabdomante’. Vivere le città, attraversare l’esperienza urbana oggi è un lavoro quasi-politico o un dovere che poco ha a che fare con lo smarrimento svagato alla Benjamin (e persino con la ‘teoria della deriva’ di Guy Debord).
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Emergenza sanitaria ed economica: il governo può emettere titoli fiscali “quasi-moneta” per uscire subito dalla crisi
di Enrico Grazzini
Dove trovare i soldi per riparare tutti i danni provocati dal coronavirus alle famiglie e alle imprese? E per uscire finalmente dalla crisi economica? L'influenza asiatica sembra diffondersi insieme alla crisi economica. Il futuro si annuncia tempestoso, pieno di ombre scure non solo in Italia ma in Europa e nel mondo. Le mezze misure e le solite ricette non servono più. Occorrono strumenti innovativi immediati e concreti, occorrono soldi subito. Il governo giallorosa italiano – se fosse abbastanza coraggioso, e se osasse percorrere strade nuove che possano produrre finalmente una svolta positiva – per rilanciare immediatamente investimenti e consumi potrebbe emettere titoli di riduzione fiscale convertibili in euro. Potrebbe dare subito gratis questi titoli fiscali molto liquidi (in gergo: titoli quasi-moneta) alle famiglie, alle imprese e agli enti pubblici per ridurre i danni del coronavirus e ridare ossigeno all'economia. Come vedremo, questo si può fare senza aumentare il deficit pubblico e nel quadro dell'eurozona.
Di fronte a situazioni eccezionali occorre prendere misure eccezionali non solo sul piano sanitario ma soprattutto sul piano economico. Vedremo se il governo Conte e il ministro dell'economia Roberto Gualtieri avranno il coraggio di prendere davvero delle iniziative risolutive della crisi che ridiano fiducia al Paese. La crisi economica infatti fa, ha fatto e farà più danni dell'influenza che viene dalla Cina.
Come risarcire i cittadini e le imprese che hanno perso centinaia, migliaia, milioni di euro a causa del coronavirus? e soprattutto come uscire da questa crisi che sta dissanguando l'Italia da oltre una dozzina d'anni dopo il crollo globale del 2007-8? Dove trovare il denaro per restituire i soldi persi dai cittadini e dalle imprese a causa del Covid-19?
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L’ascesa della destra e la creazione di un paradigma unico
di Riccardo Leoncini
Un certo numero di anni fa (parecchi per la verità), prima di iniziare il mio programma di PhD, ho seguito un corso di master presso un’università inglese. Il corso prevedeva 8 insegnamenti (4 per semestre), alcuni obbligatori (i classici micro, macro ed econometria) e alcuni facoltativi. Fra quelli facoltativi che decisi di seguire ricordo che scelsi economia ambientale, economia marxiana, economia ricardiana, ed un corso di economia dello sviluppo tenuto presso un altro dipartimento. Dieci anni circa dopo, un caro amico seguì lo stesso corso di master. A quel tempo era partito da qualche anno il Research Assessment Exercise delle Università britanniche, e, presso quella stessa università, era stato assunto come professore una star del firmamento della crescita endogena (tema allora assai di moda). Il mio amico tornò dall’Inghilterra con un bagaglio (magari invidiabile) di insegnamenti focalizzati unicamente su quel tema (scherzando, gli chiedevo se avesse seguito anche un corso su crescita endogena e fish&chips). Proprio in quel periodo mi lamentavo con un altro amico della desertificazione della varietà di insegnamento (tutti i corsi che avevo seguito io non esistevano più ed i vari professori che li tenevano erano quasi tutti emigrati altrove): “vedi, gli dicevo nessuno ha più voglia ed incentivo ad insegnare economia marxiana o ricardiana.” Al che lui, addottorato in USA, mi rispose: “ma guarda che in America non è che non insegnano più economia marxiana, non insegnano più neanche economia keynesiana!”
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Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnik
di Alessandro Visalli
Nel libro che Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, scrivono nel 2017 sull’imperialismo[1] c’è un’ultima parte nella quale è riportato un dialogo a distanza con David Harvey. Il notissimo geografo marxista americano svolge diverse critiche molto serrate ai due economisti indiani e questi replicano in modo altrettanto deciso. Si tratta di un confronto tra discipline e tra culture, ma anche tra posizioni interiorizzate. Sembra di leggere tra le righe il fantasma dell’oggetto stesso della contesa, la dualità centro-periferia e quella occidente-oriente e la memoria del colonialismo. L’uno scrive da britannico e da New York, gli altri da indiani e da Nuova Delhi. Ma soprattutto, pur essendo tutti critici del capitalismo e quasi coetanei, a separarli ci sono le tracce della storia. In fondo, e la lettura del libro lo mostra molto bene, i due marxisti indiani si sentono parte di una storia di oppressione e hanno qualcosa da chiedere come risarcimento.
È vero, l’India è una potenza regionale con grande proiezione di potenza economica, commerciale, tecnologica e persino militare, e Harvey di passaggio lo ricorderà. È un paese di oltre un miliardo e trecento milioni di persone e la dodicesima potenza economica mondiale. Ma è anche un paese nel quale permangono enormi differenze tra i diversi gruppi sociali, le regioni, le aree rurali ed urbane. Un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà, secondo i canoni indiani, mentre secondo quelli internazionali è oltre la metà.
In india il governo Modi è sfidato dalla mobilitazione dei contadini che impegna a fondo il Partito Comunista Indiano chiedendo la cancellazione dei debiti, la possibilità di accedere alla proprietà delle terre e l’aumento del prezzo dei prodotti agricoli.
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Potenzialità, limiti e tecnoutopie dell’intelligenza artificiale
di Benedetto Vecchi
Un lungo saggio di Benedetto Vecchi pubblicato a novembre del 2019 e rilanciato in vista della giornata di studi, organizzata ESC Atelier, Libera Università Metropolitana ed Euronomade, dedicata all’autore e alla sua ricerca sul lavoro e sulla politica nel capitalismo contemporaneo
Machine learning, predittività
Machine learning, predittività. Sono le due espressioni mutuate dall’intelligenza artificiale per indicare la radicalizzazione in atto del processo di automazione del lavoro umano. Non solo le attività manuali sono oggetto di indagine e di formalizzazione matematica da parte di ingegneri, fisici, matematici e manager per ridurre al minimo l’”interferenza” umana nel processo lavorativo; ormai anche le attività cosiddette cognitive – il lavoro impiegatizio ovviamente, ma processi di sostituzione macchinica di questo tipo di mansione sono già in corso da decenni – vedono programmi informatici, banche dati e macchine in una azione tesa a “rimuovere” la presenza umana in alcune attività, servizi e lavori che hanno avuto sempre come componente imprescindibile la capacità umana di valutare e intervenire in situazioni ritenute sofisticate dal punto di vista cognitivo o complesse. Non si tratta infatti di automatizzare lavori a basso contenuto di abilità, bensì lavori ad alto contenuto di specializzazione, come recitano i manuali aziendali o le brochure dei programmi di intelligenza artificiale ormai venduti come fossero gadget consueti del panorama aziendale.
L’umano è però ancora oggetto di desiderio e ostacolo, limite da rimuovere, come sempre quando si tratta di parlare e affrontare il sistema di macchine nel regime del lavoro salariato. Oggetto di desiderio, perché senza la sua presenza, la sua capacità di sviluppare cooperazione e di agire in accordo con le caratteristiche della specie umana – siamo pur sempre un animale sociale, meglio un essere sociale – è elemento essenziale nella possibilità di immaginare e progettare macchine che sostituiscono abilità umane.
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Virus “cinese” e boomerang di ritorno
di Michele Castaldo
«A lungo gli storici hanno ignorato l’importanza delle malattie infettive come attori della storia».
Laura Spinney
Nel luglio del 1989, subito dopo i fatti di piazza Tien an Men, ebbi l’opportunità di andare in Cina insieme a Paolo Turco, un compagno della mia stessa organizzazione internazionalista, per un viaggio offerto dal governo cinese a varie agenzie di viaggio per dimostrare che in quel paese regnava la tranquillità e che le famose rivolte degli “studenti” erano state sconfitte «con quattro scappellotti» come disse il sindaco di Pechino presente al pranzo ufficiale, offerto in nostro onore, nel più grande albergo di Pechino. Quel viaggio mi si scolpì nella memoria, perché
avevo desiderato per oltre 20 anni di andare nel paese di Mao, del libretto rosso, delle Comuni e del «fuoco sul quartier generale», e dopo solo due giorni avremmo voluto rientrare immediatamente in Italia. In due settimane visitammo, in un pazzesco tour de force (si scendeva da un aereo e si saliva su un treno, poi su un pullman) Hong Kong, Shanghai, Guangzhau, Wuan, Lanzou, Xian, per ultimo Pechino, da cui partimmo per rientrare finalmente in Italia.
Che impressione riportammo? Di un immenso cantiere, di una società entusiasta al punto da apparire nevrotica, di un popolo che non credeva ai propri occhi per i livelli di sviluppo e di benessere che andava costruendo, e – soprattutto – un’aria umida e appiccicaticcia, irrespirabile nel vero senso della parola. D’accordo che eravamo in luglio, ma la peggiore afa estiva delle nostre città era aria d’alta quota rispetto a quella che si respirava nelle metropoli cinesi in quei giorni.
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