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Epidemie, complotti, crisi e sfere di cristallo
di Piotr
La povera gente seguiva a piedi i carrettelli carichi di due magri sacconi e di quattro seggiole sciancate; e nelle brevi soste fatte per riprender fiato, per asciugare il sudore grondante dalle fronti terrose, scambiava commenti sulle notizie del colera, sull’origine della pestilenza, sulla fuga generale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl’ «italiani», untori quanto i borboni. Al Sessanta, i patriotti avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s’era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d’oro e d’argento che almeno ricreavano la vista e l’udito, sotto l’altro governo? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio, dal tributo militare? Eran questi tutti i vantaggi ricavati dell’Italia una?... E i più scontenti, i più furiosi, esclamavano: «Bene han fatto i palermitani, a prendere i fucili!...» Ma la rivolta di Palermo era stata vinta, anzi la pestilenza, secondo i pochi che non credevano al veleno, veniva di lì, importata dai soldati accorsi a sedare l’insorta città...
(Federico De Roberto, I Viceré, 1894)
1. In questi giorni vengono segnalati come “interessanti” alcuni video. Non sono stati prodotti in diretta connessione con la crisi Covid-19 ma in questi giorni stanno ricevendo nuova attenzione e hanno una rinnovata circolazione. Uno è italiano e l'altro sembra statunitense.
In quello italiano vengono dette cose anche esatte sulla finanziarizzazione mentre nei sottotitoli scorrono strani testi che parlano (ovviamente con prudenti punti di domanda qua e là) di “complotti mondialisti” e di “Illuminati”.
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Le prime manovre: Von der Leyen, Bce, mobilitazioni, riposizionamenti. Cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Giorni pieni e convulsi.
Venerdì si è tenuto in teleconferenza il Consiglio Europeo, che ha visto uno scontro frontale e prolungato tra Spagna e Italia contro Olanda e Germania, la Francia leggermente defilata e gli altri spettatori attoniti. Al termine un veto di Spagna e Italia ha determinato il rinvio di quindici giorni con mandato alla Commissione ed alla Bce di elaborare proposte da riportare al tavolo.
Sabato, con un’inaudita dichiarazione la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, ha dichiarato che il suo mandato è di elaborare un “piano di ricostruzione” e non di lavorare sull’emissione di bond comuni. Questi, dice, sono ostacolati da “chiari confini giuridici” in quanto dietro c’è “la questione delle garanzie”. Ovvero la vecchia questione secondo la quale la Germania e gli altri paesi rifiutano quella che chiamano “un’unione di trasferimenti”, ovvero di garantire con le proprie risorse fiscali trasferimenti, in una forma o nell’altra, ovvero anche sotto forma di garanzie, ad altri paesi. Dunque, continua, “su questo le riserve della Germania come di altri paesi sono giustificate”. L’economista Sergio Cesaratto ha avuto una parola sola e semplice per questo: traditrice. Il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, invece in una conferenza stampa di qualche minuto fa ha detto, rispondendo[1] ad una domanda del giornalista del Corriere della Sera, che “il compito di elaborare la proposta non l’abbiamo dato alla Presidente della Commissione Europea, all’esito abbiamo dato all’Eurogruppo 14 gg per elaborare delle proposte che poi il prossimo Consiglio Europeo possa prendere in considerazione. Quel che mi permetto di dire e sarò inflessibile: qui c’è un appuntamento con la Storia, l’Europa deve dimostrare se è all’altezza di questa chiamata della storia. Uno shock simmetrico che riguarda tutti i sistemi degli stati membri. Si tratta di dimostrarsi adeguati o no”.
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Crisi, pandemia e comunismo
di Michele Castaldo
I grandi eventi sollecitano curiosità, ricerca, approfondimenti, apprendimento, riflessioni, polarizzano le persone secondo interessi e determinano orientamenti. Il coronavirus mi pare che sia entrato prepotentemente in scena ponendo una serie di questioni che magari fino al giorno prima si discutevano con apatico distacco. La storia umana, come ogni altra storia di tutte le specie della natura, impone i suoi ritmi chiamando ognuno a misurarsi con i problemi posti. E purtroppo, se dovessimo misurare la tenuta del modo di produzione capitalistico dalla capacità della sinistra di esaminarlo per abbatterlo, potremmo dire che vivrebbe in eterno.
Nel mio articolo precedente, “Il virus dell’uomo capitalistico”, scrivevo: «Dobbiamo avere la consapevolezza di non sapere cosa vuol dire comunismo, ma di sapere quello che ormai la gran parte della specie umana non dovrebbe più volere, ovvero la supremazia delle leggi della concorrenza e del mercato che hanno dominato il mondo per oltre 500 anni».
Mi avventuravo però in una previsione scrivendo: «Pertanto nel caos che da oggi sempre di più aumenterà con scenari a noi sconosciuti è necessario trovare la forza di denunciare le cause della crisi dell’attuale modo di produzione, e prepararsi a stare al posto che ci compete», quasi a prevedere certe proposte che sarebbero venute fuori a indicare “che fare” da parte di organizzazioni e personaggi illustri.
In queste note ne prendo due a campione, di un personaggio e di una organizzazione, per una prima e serena riflessione al riguardo.
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La democrazia in bilico
di Giovanni Bruno
Le convulsioni del Sistema Sanitario Nazionale, la crisi del capitalismo, i balbettii dell’UE, la dittatura di Confindustria e delle multinazionali, il ricorso - inefficace per fermare il contagio - allo Stato di Polizia e all’Esercito, la militarizzazione preventiva dei territori e della società
La democrazia infetta e la carne viva del contagio
Il rischio a cui il coronavirus SARS-CoV-2 (causa del contagio Covid-19) sta esponendo l’intera comunità umana ha evidenziato (se qualcuno ne avesse avuto ancora il dubbio) le profonde differenze di classe che attraversano le nostre società: è stata drammaticamente messa a nudo la linea di separazione tra privilegiati e sommersi, anche se al momento non ci sono farmaci o vaccini che possano garantire - neanche ai ricchi – l’immunità o una cura. In una situazione di virulenta precarietà esistenziale, con l’evidenza della fragilità e della caducità della nostra vita, non si può tuttavia affermare di condividere tutti il medesimo destino, di essere realmente tutti eguali: come è evidente dalle cronache - e anche dagli scaffali ancora pieni, brulicanti di merci nei supermercati - c’è una parte consistente di società che non può rimanere a casa per proteggersi dal contagio, riducendo i rapporti per contrastare la diffusione della pandemia e rischiando di infettare i propri familiari. Al di là di polemiche sterili, occorre analizzare il comportamento del governo Conte e le misure prese e che si annunciano. Tardivamente, cominciano ad arrivare provvedimenti a sostegno delle categorie non protette, perché non possono lavorare, perché rischiano il posto, perché non dotati di protezione nelle unità produttive, verso le famiglie con i figli a casa da proteggere ed accudire. Tuttavia, il segno dei provvedimenti resta condizionato dal mercato e dettato dal profitto.
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L’ora del gattopardo (e quella del gatto selvaggio…)
di Mimmo Porcaro
Poco dopo il terribile terremoto che nel dicembre del 1908 devastò Messina, il generale Franz Conrad von Hötzendorf, capo di stato maggiore dell’esercito asburgico, ispirò articoli di giornale che invitavano a cogliere quella insperata occasione per attaccare finalmente l’Italia. Sottile stratega, non c’è che dire. Il consiglio non fu seguito allora, ma è stato seguito pochi giorni fa nell’ultima riunione del Consiglio europeo, ad opera di Angela Merkel. Il paragone non sembri forzato: è vero, il terremoto (l’epidemia) colpisce oggi anche la Germania, ma vuoi perché colà i numeri del contagio sembrano inferiori, vuoi perché il loro sistema sanitario è meglio attrezzato del nostro, vuoi (soprattutto) perché i loro mezzi finanziari sono incomparabilmente più ingenti di quelli italiani, i tedeschi possono galleggiare, noi no. E se vogliamo salire sulla zattera dobbiamo pagare caro, con aumenti vertiginosi del debito “nostrano”, intromissioni, condizionalità, svendita delle imprese strategiche. Cosicché la corda che ci viene oggi lanciata per uscir dai flutti (“Indebitatevi pure, cari amici italiani…” ) ci servirà domani per impiccarci. Pare che, nella videoconferenza che precauzionalmente ha sostituito il tradizionale incontro, “mutti” Angela (ossia “mammina”, come affettuosamente la chiamano i suoi connazionali) sia apparsa soltanto in foto, e abbia parlato attraverso un interprete: si può ben dire che non si è mai vista una fotografia menare tali e tanti fendenti.
A questo punto l’Unione europea (e in particolare l’eurozona) non è che un immenso cadavere che continuerà ad ammorbare l’aria e ad intralciare i movimenti ancora per altro tempo, ma che ha perduto ogni vera capacità di imposizione politica.
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L’Italia e l’Unione Europea alla prova del Coronavirus
di Salvatore Perri
La pandemia causata dal Covid-19, oltre alle perdite umane, provocherà un tracollo economico difficilmente quantificabile in valore ed in durata. Il declino produttivo, il pesante debito pubblico, le disuguaglianze economiche, rendono l’Italia sempre più dipendente dalle scelte che saranno compiute in sede europea. Gli interventi per salvare l’Italia, e l’Europa, dovranno avere necessariamente due caratteristiche: dovranno mobilitare risorse a lungo termine per gli investimenti e dovranno essere sostenibili politicamente anche per i paesi del nord Europa alle prese con pulsioni sovraniste. Non può essere più rinviata la questione di una figura Europea politicamente forte, con poteri e budget, in grado di concordare con la BCE interventi in una prospettiva decennale di reale integrazione sistemica.
Il Coronavirus e l’Economia Italiana
L’Italia affronta la crisi del coronavirus da una posizione di estrema debolezza. Il sistema produttivo non aveva ancora recuperato dagli effetti negativi della crisi finanziaria globale del 2007, il debito pubblico ha continuato la sua corsa, la produttività è stagnante e non ci sono segnali di convergenza interna dal punto di vista territoriale, e inoltre, si stanno consolidando differenze stratificate anche all’interno del mondo del lavoro con la crescita dei c.d. working poors[1] (Dell’Arringa, 2019). La contrazione economica ed il blocco della produzione di molte merci potrebbe accentuare anche dinamiche negative ben note, dalle delocalizzazioni industriali alle esterovestizioni societarie[2], perché è inevitabile che le aziende tentino di ridurre le perdite con ogni mezzo consentito.
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Le persone chiuse in casa, il pensiero chiuso in testa
di Fulvio Grimaldi
Caccia alle streghe e tripudio dei cortigiani
Lo Zeitgeist dei pochissimi
Siccome la tendenza dominante, dai filosofi tedeschi chiamata Zeitgeist, spirito del tempo, è quella, dell’imbroglio, del raggiro, del complotto dei pochissimi ai danni dei tantissimi, i primi però con seguito di giullari, sicofanti, guardaspalle, chierici traditori e camerieri, noi ci affidiamo alla controtendenza della sincerità, onestà, libertà. Voci dissonanti che, pure, esistono, si vanno facendo largo tra le crepe della cospirazione. Che se dovessero prevalere, dovrebbero portarci un bellissimo giorno a un simil-processo di Norimberga. Processo in cui giudicare e condannare, certamente non all’impiccagione come l’originale, tutti coloro che hanno provato a fare al mondo un’inversione a U e così bloccare la storia dell’emancipazione umana. Ho scritto “simil-Norimberga”, dato che quell’episodio antigiuridico rappresenta un’aberrazione senza confronti: un processo di criminali di guerra vincenti a criminali perdenti. Il nostro processo sarebbe dei liberi e onesti ai ladri di verità e di onestà. Ladri a mero scopo di dominio e di profitto attraverso l’imposizione, ancora una volta, del dogma, del pensiero unico universale.
A la guerre comme à la guerre
Nei momenti di loro massima crisi, di credibilità prima ancora che di potere, i padroni ricorrono al mezzo estremo: la guerra. Ed è di guerra, di fronte, che straparlano i coloro che gestiscono l’attuale fase di attacco a quel poco che ci era rimasto di secoli di lotte di liberazione. E quando di guerra si parla, non solo appaiono sulla scena colonelli e truppe, ma i dissidenti, le voci alternative, diventano collusi col nemico Il nemico essendo non solo il Virus diventato, da normale fastidio, stragista e “nemico della vita”, ma tutti coloro, magari scienziati, che lo “sottovalutano”. Trattasi di disertori, traditori, il peggio del peggio, quelli che negli anni di Hitler in Germania praticavano la “Wehrkraftzersetzung”, la disintegrazione della Forza di Difesa.
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La faccia nascosta dell’epidemia
di Antonio Vercellone
Molti sono i giornalisti e gli intellettuali che, negli ultimi tempi, si sono cimentati nel descrivere, spesso con dovizia di particolari, lo scenario che ci si presenterà dopo l’epidemia.
Queste analisi scontano necessariamente due limiti. Primo: le dimensioni di questa crisi non permettono di mantenere il distacco necessario a immaginarne ragionevolmente gli esiti. Secondo – ed è questo ciò che più rileva – tali esiti dipendono in gran parte dalla comprensione critica che, su ciò che sta accadendo, come collettività siamo in grado di costruire.
Ed è questo che dovrebbe allora occuparci e, soprattutto, preoccuparci.
La sensazione, infatti, è che l’emergenza stia legittimando una narrativa pericolosa, che reca come implicito il fatto che il solo metterla in discussione o problematizzarla rende colui che lo fa una specie di nemico della salute pubblica, che si sottrae a una tanto stucchevole quanto fittizia “unità nazionale”, alla quale saremmo tutti chiamati.
In altre parole, o uno si compra l’intera retorica di #iorestoacasa, dell’inno nazionale dai balconi, degli arcobaleni attaccati alle finestre e del quotidiano decreto del Governo (retorica sdoganata in modo più o meno nauseabondo da cantanti, presentatori e sportivi su canali social e tv) o si viene automaticamente tacciati di non aver compreso la gravità della situazione e di volersi sottrarre alle proprie responsabilità.
Ora: che questo virus rappresenti una tragedia immane e che i principi di solidarietà, prevenzione e precauzione impongano a ognuno di noi di restare in casa, di limitare gli spostamenti e di attuare le ormai note norme di distanziamento sociale, è un dato incontestabile, sul quale non si può che essere d’accordo. Si deve, tuttavia, poter dire che la narrativa attraverso cui queste necessità sono veicolate è a tratti scivolosa, pericolosa e non scevra di profonde criticità.
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Il desiderio dell’uomo decisivo
di Militant
Che Mario Draghi trovi sostegno in un certo ambiente economico, è nelle cose. Che su Mario Draghi stia convergendo tutta la politica italiana, è un’altra cosa. Dal Pd alla Lega al vasto mondo della critica keynesiana, il quadro politico sembra chiudersi attorno alla soluzione migliore per tutti (o quasi: l’unico a rimanere col cerino in mano sarebbe Conte, e con lui il M5S). I motivi di questo interesse sono facilmente intuibili. Meno i problemi politici che verrebbero a generarsi dall’unità nazionale attorno all’uomo delle banche.
La crisi economica, già in corso e che seguirà la fine o il contenimento dell’epidemia, sarà di vaste proporzioni. Tutti i paesi, nessuno escluso, subiranno il contraccolpo dell’arresto dei flussi commerciali misurandolo in vari punti percentuali di calo del Pil. Per l’Italia, questo non potrà non aggirarsi in una forbice che va dal -5 al -15%. Percentuali da economia di guerra, come evidente e come stanno dicendo un po’ tutti, Draghi per primo. Se in tempo di pace la questione poteva essere affrontata (e aggirata) attraverso l’accelerazione export oriented dell’economia del paese, dinamica che ha portato l’Italia alla ventennale stagnazione economica, le soluzioni per questa crisi non potranno replicare quanto è stato fatto fino ad ora. Per risollevare un paese in profonda recessione è inevitabile stimolare la domanda interna, rafforzando il mercato domestico di produzione e circolazione di beni e servizi. Altrimenti quel -15% lo recuperiamo nel 2050, come infatti (non) è avvenuto con la crisi scoppiata nel 2008: il Pil dell’Italia nel 2019 non ha ancora raggiunto i livelli a cui era arrivato nel 2007. Ci stiamo rimpicciolendo drasticamente e troppo velocemente nel tempo, e questo è uno dei motivi dello scarso peso politico dei nostri governi in Europa.
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La resa dei conti
di Andrea Zhok
1) Premessa
Come ampiamente previsto, l’incontro dell’Eurogruppo di ieri si è concluso con un nulla di fatto.
Che gli incontri europei si concludano con un nulla di fatto è peraltro oramai una tradizione consolidata. Settimane fa si erano concluse con un nulla di fatto le trattative per una variazione dello zero virgola nel budget europeo. Per anni si erano concluse con un nulla di fatto le richieste di rivedere le regole sull’accoglienza dei migranti da parte dei paesi dell’Europa meridionale. Incartarsi ad arte per rinviare sine die ogni decisione è una specialità in cui le istituzioni dell’UE hanno dimostrato da tempo straordinario talento.
E naturalmente non è un caso.
Il sistema dei trattati è stato disegnato per funzionare precisamente come una tonnara: una volta entrati non esiste nessuna possibilità di uscirne sani né di cambiare niente di significativo. (L’unanimità necessaria la puoi raggiungere solo su imperdibili iniziative simboliche come l’equiparazione di comunismo e nazismo.)
2) Prima del diluvio
L’emergenza coronavirus tende a farci dimenticare che l’UE non è mai davvero uscita dalla crisi del 2007. L’economia è rimasta lenta, e anche la famosa ‘locomotiva tedesca’ aveva iniziato ad arrancare.
Ben prima che il virus comparisse all’orizzonte si discuteva animatamente di una perdurante stagnazione dell’economia europea (con Italia e Germania in fondo alla classifica della crescita).
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Cittadino-consumatore e cittadino-paziente
Julia Page intervista Ugo Mattei
L’emergenza Coronavirus ci ha sicuramente messo davanti ad uno scenario inedito. Tuttavia, la sua eccezionalità non sta tanto nella sua dimensione “emergenziale” - dispositivo, quello dello stato d’emergenza, ormai rodato da diversi anni in Occidente, tra terrorismo, terremoti ecc. - quanto piuttosto nel suo carattere sanitario. Questa peculiarità sembra aver fatto sì che l’asse del discorso si sia spostato tutto dal piano politico a quello scientifico, con la conseguente assunzione, da parte delle istituzioni dell’industria tecnoscientifica - incarnate nell’OMS o nella Protezione Civile italiana - di un ruolo immediatamente politico. E l’eliminazione del dato politico dall’equazione, con uno schiacciamento sull’approccio scientifico, fa sì che i processi di individualizzazione della popolazione vengano sempre più esacerbati in chiave di “colpa” e responsabilità: un po’ come accade con il discorso ambientalista, il nemico non è più individuato verticalmente, ma orizzontalmente. E così, nemico è il runner, il vicino che non sta in casa, e - procedendo per analogia - chi non fa la raccolta differenziata. Il dominio della Scienza, poi, sembra aver esasperato anche un altro aspetto, che è quello che interessa il binomio Libertà/Sicurezza: se nell’ordine del discorso capitalistico tanto l’una quanto l’altra assumono il carattere di merce, l’emergenza Coronavirus sembra aver generato la situazione paradossale in cui tutti finiscono per prediligere la merce-sicurezza rispetto alla merce-libertà.
Quello che è certo, è che il virus non è stato la causa, bensì l’elemento di accelerazione di processi già in atto, dal disfacimento delle istituzioni sovranazionali - una su tutte l’Europa, e più in generale un ripensamento della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta - ai processi di individualizzazione delle soggettività. Ne abbiamo parlato con Ugo Mattei, docente di Diritto Internazionale presso l’Università di Torino.
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La teoria del valore nel capitalismo e nel socialismo/comunismo
di Eros Barone
Quanto più ci addentriamo nel processo di valorizzazione del capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà mistificato e tanto meno si scoprirà il segreto del suo intrinseco organismo.
K. Marx, Il Capitale, libro III.
1. Plusvalore e profitto: l’autoriflessione del capitale
«Nel primo Libro si sono analizzati i fenomeni che il processo di produzione capitalistico, preso in sé, presenta come processo di produzione immediato, astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze ad esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il corso dell’esistenza del capitale. Esso, nel mondo della realtà, viene completato dal processo di circolazione, il quale ha costituito oggetto delle indagini del secondo Libro. Vi si mostrava, specie nella terza sezione, che tratta del processo di circolazione quale mediazione del processo di riproduzione sociale, che il processo di produzione capitalistico, preso nel suo complesso, è unità dei processi di produzione e circolazione. Scopo del presente Libro... [è quello] di scoprire ed esporre le forme concrete che sorgono dal processo di movimento del capitale, considerato come un tutto... Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente volume, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione». 1
È questo l’incipit del terzo libro del Capitale, quale si presenta, alla pari del secondo libro, in base all’ordinamento che Engels ha conferito ai quaderni inediti di Marx. Il fatto centrale, su cui quest’ultimo richiama l’attenzione del lettore, è che la concorrenza capitalistica porta ad occultare la realtà del plusvalore che nella realtà fenomenica “si dilegua”, cedendo il posto al profitto.
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Risposta a Mario Draghi
di “Junior”
Mario Draghi è Mario Draghi. Il banchiere dei banchieri. Anzi: il super-banchiere dei super-banchieri. L’Italiano più ascoltato nel mondo. Super-Mario, lo chiamano i direttori dei principali quotidiani, uno più lecchino degli altri verso di Lui. Tutti nelle alte sfere aspettavano che parlasse.
Lui, infine, ha parlato. Non in italiano, ovvio. In inglese sul Financial Times, l’organo europeo dei pescecani del capitale globale. Le sue parole, la prospettiva che traccia, non riguardano solo l’Italia. L’uomo non può abbassarsi al livello di un Salvini o di un Di Maio qualsiasi. È stato capo della BCE, e tra i super-boss di Goldman Sachs. Il suo cv mette in soggezione solo a scorrerlo sui giornali. Specie a un giovane come me.
Vediamo cos’ha detto per afferrare cosa si nasconde dietro la dichiarazione di “guerra contro il Covid-19”. Quale altro tipo di guerra sociale. E contro quale altro tipo di virus.
La partenza è secca: “È inevitabile una profonda recessione”. Inevitabile, come fosse un evento naturale. Una volta assunta questa “inevitabilità”, il problema è “evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, aggravata da un enorme numero di fallimenti che lasceranno danni irreparabili”. Per evitarlo, la sola politica praticabile è “un significativo aumento del debito pubblico”.
Questa scelta è presentata al modo della Thatcher: “Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e andranno di pari passo con misure di cancellazione del debito privato”. È inutile discuterne: diventeranno. Non c’è alternativa. Punto. E sarà un dato permanente. Azzeramento del debito delle imprese e delle banche – il “settore privato” -, che ricomparirà trasformato in debito pubblico. Naturale anche questo. Qual è infatti il ruolo dello stato? È “proprio quello” di “usare” il suo bilancio per “proteggere i cittadini [imprenditori] e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile”.
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Il mito del conflitto generazionale e la realtà del conflitto di classe
di coniarerivolta
L’emergenza sanitaria di queste settimane, come avviene in tutti gli stati emergenziali, sta mostrando in tutta la sua crudezza alcuni tratti tipici della nostra organizzazione economica e sociale. Gli effetti devastanti dell’austerità sul sistema sanitario rivelano in modo brutale cosa significhi davvero la logica della scarsità delle risorse imposta dalle politiche economiche degli ultimi decenni. A fronte di una disponibilità limitata di posti di terapia intensiva occorre, come in un’economia di guerra, effettuare delle scelte e sacrificare il più vecchio o il già malato, colui che avrà meno possibilità di sopravvivenza a favore del più giovane e sano. La scarsità delle risorse, non certo naturale o da deficit tecnologico, ma imposta da anni di politiche di austerità, impone una logica di sapore darwinista di selezione del soggetto da salvare, contrapponendo giovani e vecchi e sani e malati.
Questa apparente contrapposizione non è limitata, però, al campo della salute. Da molti anni il dibattito pubblico è permeato di una retorica che è divenuta quasi costitutiva del nostro modo di pensare: quella di un inevitabile conflitto economico intergenerazionale tra giovani e anziani, per la spartizione di risorse economiche scarse, nel tempo della crisi demografica irreversibile dell’occidente.
Il presupposto oggettivo di questa idea è l’esistenza di un’indubbia crisi demografica che nei paesi europei, e più in generale nel mondo industrializzato, ha avuto inizio negli anni ’70-’80 del secolo scorso e si manifesta come crescente squilibrio anagrafico tra giovani e vecchi, con la crescita degli ultimi e la diminuzione dei primi.
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COVID-19, l’untore dell’economia mondiale
di Ascanio Bernardeschi
I danni economici del Coronavirus resi palesi e quelli messi sotto il tappeto del capitalismo mondializzato. I meccanismi monetari e di bilancio per far fronte alla crisi impongono di riscrivere radicalmente le regole europee. Occorre ripristinare il ruolo dello stato nella gestione dei servizi essenziali e nella pianificazione economica
Dal giornale della Confindustria, ai centri studi mainstream e alle agenzie internazionali giunge un messaggio preoccupato per l’emergenza economica che, a loro dire, sarà conseguenza di quella sanitaria: la prossima crisi economica sarà da pandemia di COVID-19! Così anche questa volta, come avvenne con i mutui subprime, abbiano trovato il colpevole della crisi profonda da cui il capitalismo mondiale non riesce a tirare fuori le gambe.
Viene tenuto in ombra che i fondamentali dell’economia erano già pessimi anche senza virus. In Italia le cose stanno andando molto peggio che nel resto dell’Europa. Per esempio i lavoratori in cassa integrazione nel 2019 erano aumentati del 79% rispetto all’anno precedente. Le previsioni dell’Istat per il 2019 indicavano una crescita del Pil di un misero 0,2% e, ottimisticamente, dello 0,6% per quest’anno, avvertendo però che le cose sarebbero potute andare peggio. E stavano andando in effetti peggio anche a causa della guerra commerciale in atto. Ma la previsione più importante dell’Istat è la “decelerazione”, più accentuata nel 2020, del ritmo degli investimenti, che poi sono il traino dell’economia e il cui andamento negativo anticipa regolarmente le crisi.
A fronte di un’economia reale in stasi dal 2011, ove si escludano le performance della Cina e di altri paesi emergenti, e che anzi aveva manifestato negli ultimi mesi del 2019 chiari segnali di una nuova recessione in arrivo, dal 2008 le quotazioni di borsa si sono gonfiate a dismisura producendo una nuova gigantesca bolla finanziaria. Le crisi si manifestano quasi sempre nella forma dello scoppio di una bolla. Lo sciocco o l’economista in malafede vede solo lo spillo che la fa scoppiare, non la bolla stessa. E questa volta lo spillo è servito su un vassoio d’argento da un minuscolo, insidioso virus.
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“Il Covid-19 è un coltello che è finito nelle mani delle Élite per raggiungere un loro vecchio scopo: arrivare ad un potere assoluto e totalitario”
Francesco Guadagni intervista Fulvio Grimaldi
Secondo il giornalista e documentarista Fulvio Grimaldi, “la Storia ci dirà che questo coltello verrà utilizzato per degli scopi che si sono sempre ripromessi le élite, cioè arrivare ad un potere assoluto, totalitario. Ristabilire un nuovo paradigma sociale, che veda una riduzione dell’autonomia, dell’autodeterminazione da parte delle masse, e una concentrazione di potere e di ricchezza al vertice”
Fulvio Grimaldi nella sua carriera giornalistica ha lavorato per la Radio, BBC di Londra, RAI, ha scritto su Lotta Continua, Vie Nuove, Liberazione. Noti i suoi documentari sui fronti di guerra, Iraq, Palestina, Siria, Eritrea, oltre che in Venezuela, Messico, Iran. In questa intervista abbiamo analizzato con Grimaldi la problematica Covid-19, sotto vari aspetti: mediatici, economici e geopolitici.
* * * *
Pandemia Covid-19, C'è stata per te una manipolazione mediatica, di dati, sulla percezione del pericolo, se sì, per quale ragione secondo te? Rispetto per esempio all’influenza "Spaziale" del 1970 che in Italia provocò 20.000 morti e 13 milioni di persone a letto di cui in pochi si ricordano. Oggi perché c’è un approccio diverso?
Neanche 2 anni fa ci fu questo panico. Nel 2018, un articolo del Corriere della Sera denunciava il caos totale della Sanità per l’arrivo dell’influenza. C’era la stessa catastrofe sanitaria, mancanza di personale, attrezzature, una categoria falcidiata dai tagli nel corso degli ultimi 30 anni che non riusciva ad affrontare l’immane numero di contagiati da influenza “normale”.
Non voglio dire che il Covid-19 sia il risultato di una pianificazione lucida e programmata, per quanto ci sarebbero elementi che lo farebbero pensare, perché c’è una storia di crimini programmati lucidamente, con provocazioni mondiali per raggiungere certi fini, a partire dall’11 settembre al Golfo del Tonchino.
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Sull’epidemia delle emergenze / fase 4: pandemia, crisi, clima e guerra
di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier
“We can do it together” (Boris Johnson)
“Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)
“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva. La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)
“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)
“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.”
(The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)
“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)
“E’ la guerra. Tutto è più immediato” (Perfidia – James Ellroy)
Per una volta iniziamo la nostra cronaca da oltre frontiera. Prendendoci, oltretutto, la libertà di modificare parzialmente i nomi dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Quello che salta subito agi occhi ovunque, dalla Francia agli Stati Uniti passando per l’Australia, è che per i governi e i media la preoccupazione più importante fino ad ora è stata quella di salvaguardare economia, produzione e profitti.
Come al solito gli americani sono i più pragmatici ed espliciti, motivo per cui il Wall Street Journal può tranquillamente ratificare, nell’editoriale redazionale del 20 marzo, che nessuna società può salvaguardare a lungo la salute pubblica al costo di minare quella economica. Chiaro abbastanza no? Ma se l’organo per eccellenza del capitalismo e della finanza americana lo afferma con chiarezza, anche qui da noi non sono mancate le spinte in tale direzione. L’abbiamo misurato con l’enorme ritardo con cui il governo degli ominicchi e degli abbracci è giunto a decretare una chiusura vaga e fumosa che lascia non pochi dubbi sulla sua reale entità, evitata a ogni costo fino all’ultimo momento e poi, una volta varata, posticipata per dare una nuova mano agli squali di Confindustria.
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Note sulla crisi economica II
di Pungolo Rosso
Tempesta finanziaria, interventi emergenziali, lacrime e sangue per il proletariato
Dalla stesura del testo Il “cigno nero” e’ qui (13 marzo), la situazione è andata peggiorando a grandi passi, fino a sfiorare scenari catastrofici. I dati economici, le dichiarazioni dei personaggi chiave e le decisioni dei più importanti centri di governo dell’economia mondiale si susseguono a ritmo incalzante.
La situazione è in costante evoluzione e si fatica a seguirne gli sviluppi. Dopo i crolli record di tutte le Borse mondiali, di cui si dà conto nelle note che seguono, Wall Street e le altre piazze finanziarie internazionali hanno fatto registrare aumenti record, che travalicano i rimbalzi tecnici legati ai riacquisti di titoli per monetizzare i capital gains guadagnati con le vendite allo scoperto, e testimoniano innanzitutto di una estrema volatilità dei mercati borsistici che, con ogni probabilità, si protrarrà a lungo.
Si fanno quindi sentire le conseguenze delle manovre monetarie assolutamente eccezionali messe in campo dalla FED, dalla BCE e dalle altre Banche Centrali e gli imponenti stanziamenti di bilancio che tutti gli Stati imperialistici stanno preparando. Non c’è dubbio che l’insieme di questi interventi sarà finalizzato al sostegno del sistema (banche e grandi imprese, in primis), costi quello che costi. Ma i capitalisti di tutti i paesi già si interrogano sul che fare e con quali strumenti affrontare la crisi, quando sarà forse sotto controllo l’epidemia di covid-19 ma infurierà quella economica, la disoccupazione di massa, i probabili rincari dei generi di prima necessità, ecc.
Non possiamo prevedere la strada specifica che ciascuno Stato percorrerà, ma è certo che la classe lavoratrice tutta dovrà fronteggiare un’offensiva di inusitata violenza, in cui la crescita del nazionalismo e gli appelli all’unità “di tutto il popolo” assumeranno sempre più minacciosamente i caratteri di un ultimatum verso le masse affinché si prostrino davanti alle rapaci esigenze capitalistiche, mentre le avanguardie di classe verranno additate come “nemici della patria” da perseguire e disperdere.
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Circa Nadia Urbinati, “Non arrendiamoci a ‘tacere e obbedire’”
di Alessandro Visalli
Un breve post su Huffpost, quindi di larga diffusione, del politologo (sì, uso il neutro) Nadia Urbinati che mi è più volte capitato di commentare, spesso con apprezzamento per le sue tesi sempre dense ed interessanti.
In questo breve post ci sono molti strati di lettura, alcuni condivisibili, ma c’è un nucleo duro questionabile e c’è una struttura retorica tanto forte quanto irresponsabile.
Parto dal condivisibile.
Le istituzioni sono colpevoli, collettivamente ed individualmente. Senza dubbio. Sono colpevoli di aver smantellato per anni le capacità di reazione e prevenzione del nostro sistema sanitario nazionale, in parte demandandole al privato e, in misura maggiore, semplicemente riducendone i finanziamenti e l’efficacia. Questo è quel che sostiene la Urbinati e io lo credo vero. Il nostro sistema è stato, come dice, “maltrattato e indebolito”. La regione Lombardia aveva ormai un ventilatore ogni quattromila abitanti, negli anni di austerità sono stati tagliati venticinquemila posti letto, l’Italia per posti in terapia intensiva è al diciannovesimo posto tra i paesi Ocse, ma per Pil è al nono, la Germania ne ha il triplo per abitante. Più di noi l’Irlanda, la Finlandia, l’Olanda, la Francia, il Portogallo, la Lettonia, l’Estonia, la Grecia, il Lussemburgo, la Repubblica Ceca, la Slovenia, l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia, il Belgio, l’Austria, la Lituania e la Germania (in ordine ascendente). Meno di noi solo la Spagna, la Danimarca, il Regno Unito e la Svezia (in ordine discendente).
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Il contributo delle nuove interpretazioni di Gramsci alla delineazione della strategia politica contemporanea
di Javier Balsa (Universidad Nacional de Quilmes/CONICET, Argentina)
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 2 2019 (vol. VII)
Premessa
Nella fase di sconfitta strategica nella quale ci troviamo dopo il crollo dei cosiddetti “socialismi reali”, in un momento in cui il socialismo non è più un’aspirazione di massa, la sinistra ha bisogno di riflettere sulla propria strategia politica. Riteniamo che Gramsci, e in particolare la sua teoria dell’egemonia, possa contribuire in questo senso. Manca però una chiara sistematizzazione della teoria gramsciana, a partire dalla quale si può giungere a pensare una strategia. Nelle analisi politiche, troppo frequentemente Gramsci è invocato solo con qualche frase ad effetto, con l’intenzione di a dare un sostegno “teorico” a una politica pensata senza in realtà ricorrere a Gramsci.
Per fortuna, durante gli ultimi decenni abbiamo assistito a un rinnovamento degli studi gramsciani e, specificamente, alla realizzazione di lavori “filologici” che hanno provveduto a una teorizzazione più sistematica dell’egemonia, a partire dalla quale diventa possibile delineare una migliore strategia politica.
Paradossalmente, questi lavori filologici si sono sviluppati a partire da un confronto con il testo che più ha criticato l’impiego delle elaborazioni gramsciane per pensare una strategia politica: Ambiguità di Gramsci di Perry Anderson1. In quel contributo, Anderson intendeva attaccare l’eurocomunismo, e vide in Gramsci il principale rife rimento di quella strategia. Perciò propose una critica contro ciò che definì le “antinomie” del suo pensiero, fino a sostenere che Gramsci si era perso nel labirinto dei suoi quaderni. In realtà, così facendo Anderson intendeva affermare una determinata idea: che il nocciolo del dominio capitalistico risiede nella credenza nella legittimità della rappresentazione politica propria delle “democrazie borghesi” (oltre che nella minaccia dell’impiego della coercizione diretta).
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Da emergenza sanitaria a stato di eccezione politico?
di Geminello Preterossi
L'attitudine critica non può essere quella di negare o relativizzare il problema coronavirus, ma di denunciare abusi, irrazionalità, eccessi, logiche e rischi "di fondo". Bisognerà, poi, subito riorganizzarsi socialmente e politicamente
Gli interventi di Giorgio Agamben sulle conseguenze politiche del coronavirus impongono alcune riflessioni. In generale, condivido la critica alla normalizzazione dell'emergenza, trasformata in "calamità" (anche quando si tratta, ed è la maggior parte dei casi, di questioni politiche, economiche, sociali e non certo di "oggettività" naturali o tecniche). Ora però il problema esiste e, soprattutto in Lombardia, ha creato una situazione drammatica dal punto di vista sanitario. Quindi una reazione mirata, ma adeguata, è necessaria. Certo, il rischio che si trasformi un'emergenza sanitaria reale in uno stato di eccezione politico c'è, è davanti ai nostri occhi. Delegare in toto agli esperti (che peraltro manifestano posizioni non sempre univoche) le scelte politiche è pericoloso: i tecnici devono fornire i dati da valutare, ma la decisione deve essere politica, perché solo così si può tenere conto della complessità dello scenario. Occorre saper distinguere, rendersi conto delle soluzioni che hanno funzionato e di quelle che non hanno funzionato, essere flessibili per aggiustare le strategie. Nessun fideismo emergenzialista, dunque. Abbiamo bisogno, piuttosto, di ragion pratica. La vita pubblica è cosa diversa da un laboratorio: altrimenti si trasforma la società intera in un “laboratorio”. Ciò, sia chiaro, non per ridimensionare il quadro, che è grave e preoccupante, ma per mantenere in funzione la capacità di valutare criticamente e deliberare di conseguenza (a proposito, siamo sicuri che le istituzioni rappresentative debbano eclissarsi, in un contesto del genere?). Inoltre, quando sarà passata questa buriana, bisognerà mettere in fila tutto: non solo errori, atteggiamenti ondivaghi e opachi, mancanze, ma la logica di fondo, i rischi politici che si corrono, le finalità perseguite dai “poteri indiretti” e il conto che verrà fatto pagare ai più deboli.
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La Commissione dell’Amore e la fine del capitalismo
di Marino Badiale
I. Premessa
Lo stimolo diretto alla stesura di questo scritto viene dall’istituzione, da parte del Senato della Repubblica Italiana, della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza” [1], ma le riflessioni che lo compongono hanno radici più lontane. Da molto tempo, infatti, mi sembra di notare nelle nostre società una tendenza alla restrizione della libertà di pensiero e di espressione, e ritengo che questo tema meriti una riflessione specifica. Si tratta di tendenze notate da vari osservatori, per esempio Massimo Fini che, intervenendo a proposito dell’istituzione della Commissione, scrive che non si possono proibire i sentimenti [2]. La mia prima reazione, quando si è cominciato a parlarne, è stata quella di trasformare la dicitura “Commissione contro l’odio” in “Commissione dell’Amore”, e associare una tale Commissione al “Ministero dell’Amore” di orwelliana memoria. Queste sono battute scherzose, naturalmente, ma accennano a un problema serio, ovvero al problema se si stiano lentamente erodendo, nei paesi avanzati, alcuni dei fondamentali principi della civiltà occidentale, e, se questo è vero, quali ne siano le cause. A questi problemi sono dedicate le riflessioni che seguono.
II. Introduzione
Il punto di partenza delle mie considerazioni, lo sfondo generale nel quale devono essere inquadrate, è la convinzione che la civiltà occidentale stia vivendo gli ultimi anni della sua storia. La sua organizzazione economica e sociale, che brevemente indichiamo col termine “capitalismo”, sta ormai distruggendo le basi naturali e sociali della sua stessa riproduzione. Si tratta di una società entrata in una fase “autofagica”[3], che porterà alla sua fine traumatica, probabilmente entro la fine di questo secolo.
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La sfida politica della pandemia
di Pierre Dardot, Christian Laval
Per Pierre Dardot e Christian Laval, autori di «Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo» (DeriveApprodi, 2015), la pandemia Covid-19 mette alla prova la capacità delle strategie politico-economiche che dovrebbero fronteggiarla. «Quello che stiamo vivendo lascia intravedere quello che, con la crisi ambientale in atto, ci attende nei prossimi decenni se la struttura economico- politica globale non dovesse cambiare»
La pandemia di Covid-19 è una crisi sanitaria, economica e sociale globale ad un livello extra- ordinario. Poche situazioni storiche possono essere paragonate, perlomeno negli ultimi decenni. Questa tragedia, da subito, è un banco di prova per tutta l’umanità. Prova nel senso duplice della parola: dolore, rischio e pericolo in un senso; prova, valutazione e giudizio dall’altro. Quella che la pandemia mette alla prova è la capacità delle organizzazioni politico-economiche di far fronte a un problema globale legato alle interdipendenze individuali o in altri termini a tutto quello che riguarda la vita sociale nelle sue forme più elementari. Come una distopia che sarebbe diventata la realtà, ciò che stiamo vivendo lascia intravedere ciò che, con il cambiamento climatico, attende l’umanità tra qualche decennio se la struttura economico-politica del mondo non dovesse cambiare rapidamente e in maniera radicale.
Una risposta di Stato a una crisi globale?
Prima osservazione: da una parte e dall’altra, si predispongono volontari della sovranità dello Stato nazione come risposta all’epidemia globale secondo due modalità più o meno complementari e articolate nei vari paesi: da un lato, ci si affida allo Stato per prendere delle misure autoritarie di limitazione dei contatti con la messa in atto del noto «stato d’emergenza» (dichiarato o meno), come in Italia, Spagna e Francia; dall’altro lato, ci si attende che lo Stato protegga i cittadini dall’importazione di un virus che arriva dall’estero.
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Aids, Hendra, Nipah, Ebola, Lyme, Sars, Mers, Covid…
di Laura Scillitani
Deforestazione e cambiamenti climatici stanno trasformando profondamente gli ecosistemi e creano un'interfaccia innaturale tra essere umano e animali. Ma la salute dell'ambiente è legata a doppio filo a quella della nostra specie. Laura Scillitani ripercorre i meccanismi per i quali la pressione antropica - e i cambiamenti climatici - favoriscono l'insorgenza di alcune malattie e altera le dinamiche della trasmissione di patogeni
“Quando l’epidemia sarà finita torneremo alla vita di prima”, ci ripetiamo come un mantra in questi giorni di reclusione forzata in casa, mentre osserviamo la primavera avanzare oltre le nostre finestre. In realtà, se volessimo trarre un beneficio dalle avversità, dovremmo inquadrare ciò che è accaduto in una cornice più ampia. Covid-19 è l’ennesima dimostrazione di quanto la nostra sopravvivenza sia strettamente legata alla tutela della natura e alla integrità della biosfera.
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel mondo muoiano 4,2 milioni di persone all’anno a causa dell’inquinamento atmosferico, e considera i cambiamenti climatici come una delle maggiori minacce, stimando che dal 2030 si potrebbero verificare almeno 250 mila morti all'anno. L’attuale tasso di crescita della popolazione è esponenziale (7,7 miliardi di persone secondo l’ultima stima), e di conseguenza aumenta in proporzione la domanda di beni e servizi. Gli ecosistemi sono sottoposti a una trasformazione profonda, tale che il periodo attuale è stato considerato una nuova era geologica, l’Antropocene. Un ambiente alterato non garantisce più i servizi ecosistemici (ad esempio aria respirabile, acqua potabile, suolo fertile), e può compromettere la salute umana anche facilitando la trasmissione di agenti patogeni nuovi per l’uomo, e il diffondersi di epidemie come quella che stiamo vivendo.
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"E' una crisi diversa dalle altre. Keynes non basta, serve una logica di piano"
Intervista ad Emiliano Brancaccio
Per l’economista sono già sconfessate le previsioni ottimistiche della BCE, secondo cui questa sarebbe una crisi “a forma di v”, con una breve caduta e poi subito una ripresa spontanea. E riguardo al fondo salva-stati dice: “non è la soluzione, è una trappola”. Ma non basta nemmeno invocare un rilancio della domanda. Un piano “anti-virus” è l’unica strada efficace per risolvere la “disorganizzazione” dei mercati e combattere la speculazione
“Il coronavirus rischia di condizionare le nostre vite più e peggio di quanto fece l’aids un trentennio fa. Se vogliamo difendere le nostre conquiste e i nostri diritti di libertà, dobbiamo comprendere che siamo dinanzi a una sfida colossale, che contemporaneamente investe la sanità, la scienza e la tecnica e l’economia. Per il momento siamo lontanissimi da una presa di coscienza. I policymakers sembrano ragionare con lo sguardo rivolto all’indietro, come se non avessero il coraggio di guardare avanti e indicare soluzioni all’altezza di questa tragedia epocale”. L’economista Emiliano Brancaccio denuncia all'AntiDiplomatico l’inadeguatezza dell’azione politica di fronte agli effetti dell’epidemia e lancia un appello sul Financial Times per un “piano-anti-virus”.
* * * *
Professor Brancaccio, pochi giorni fa il Financial Times ha pubblicato un appello promosso da lei e da altri colleghi economisti per l’immediata attuazione di un piano "anti-virus" che possa fronteggiare una crisi a vostro avviso gravissima. Qual è l’effettiva portata economica di questa crisi? E’ possibile quantificare l’impatto complessivo che avrà sulla produzione e sull’occupazione, in Italia e nel mondo?
Dipende da quanto dovranno durare le quarantene. Marx sosteneva che se una nazione ferma il lavoro anche solo per un paio di settimane, quella nazione è destinata a soccombere. Esagerava ma non andava troppo lontano dal vero. Un banale calcolo contabile ci dice che appena due settimane di blocco anche parziale dell’attività produttiva implicano una perdita di produzione e di reddito di un’ottantina di miliardi, ossia circa il 4 percento del Pil italiano, e questo senza considerare gli effetti moltiplicativi della recessione. Ovviamente, se il blocco perdura, il crollo si accentua.
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