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Contro gli spettri dell’Uno

Per un politeismo politico

Augusto Illuminati

Come può saltare in mente di occuparsi di teologia o di teologia politica, con questi chiari di luna? Ebbene, proprio con la crisi e l’avvento dei governi tecnici, con connessi sproloqui su trascendenza e necessità del fenomeno, ferree leggi dell’economia, occulta personalizzazione di mercati e spread, misteriosissima consistenza e tossicità di prodotti finanziari e derivati di ogni sorta, cosa c’è di più teologico, nel senso speculativo e in quello più basso di seduta spiritica ed esorcismi taglia-deficit? In cosa si distinguono i moderni economisti da astrologi, angelologi e demonologi professionali o dilettanti, maghi e stregoni? Se non che costoro, a volte, ci azzeccavano e i maestri del pensiero teologico argomentavano con rigore da premesse solo probabili, sfornando avvincenti prestazioni logiche. Lo stesso non si può dire di economisti e manager sul piano esplicativo e, peggio ancora, previsionale. Le streghe conoscevano empiricamente un bel po’ di rimedi curativi a paragone dei promotori finanziari del terzo millennio e degli esperti di spending review. Di politici e giornalisti specializzati è più bello tacere.

 Eppure, mai come in questa decadenza di teologia e teurgia è stata viva la tentazione di ricavare da quelle categorie divine indicazioni umane, di mettere in vigore le fantasie metafisiche in articoli di legge e massime costituzionali, conferendo una sanzione soprannaturale alle più arruffate pratiche di uso pretestuoso della crisi e di governo dello sfruttamento biopolitico e moltitudinario.

La procedura del maxi-emendamento e del voto di fiducia, almeno in Italia, ha sostituito la logica del dogma ex cathedra e del commento autorizzato, anche se purtroppo la qualità dei dibattiti e dell’articolato non raggiunge neppur lontanamente la potenza dialettica delle Sententiæ e delle più dimesse Quæstiones. Con l’austerità indotta dalla crisi, il carnevale populista tette e culi ha ceduto il passo a un’etica quaresimale e a una teologia del potere sottratto e occultato fra le nebbie di istituzioni extrapolitiche e sovranazionali. Soffrire e rimettersi (senza troppo concedere neppure alla speranza) – beh, non è proprio una novità, piuttosto il riemergere di un rimosso mai davvero cancellato. Il complesso del debito e della colpa oggi governa corpi e anime, avallando un’anima per responsabile del corpo, una nazione per garante dei passivi bancari. La finanziarizzazione ha diffuso nel quotidiano la natura mistica e i capricci teologici della merce, di cui già parlava il precursore Marx.

Niente lacrime sulla dittatura del pensiero unico, il new realism fa giustizia delle interpretazioni vagabonde, l’iPad è risoluzionario non rivoluzionario e viviamo in un mondo dove si auspica la «manutenzione» dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, esattamente come il dottor Quesnay (Observations sur le droit naturel des hommes réunis en société, 1765, § 5) intimava che le leggi positive non debbono essere altro che «leggi di manutenzione relative all’ordine naturale, che evidentemente è il più vantaggioso al genere umano». Essendo le leggi di natura, istituite dall’Essere Supremo, immutabili e irrefutabili, sono del pari vantaggiose per governanti e governati e non esigono rappresentanze di interessi per elaborarle. Basta conoscerle e promulgarle, alla lettera «dichiararle», così che solo un pazzo potrebbe infrangerle votandosi alla repressione. Il «Confucio francese» – inquietante indicatore di attualità! – fondatore della scuola fisiocratica non trovava incoerenze fra le lettres de cachet di un re assoluto purché illuminato in materia economicae l’immutabile ordine della Natura voluto da Dio, avendo mischiato in anticipo un certo grado di intervento sovrano arbitrario e di liberalismo economico di matrice deista.

«Dispotismo legale» sarà il complemento politico del geniale Tableau economico: un potere assoluto che si attiene all’evidenza trascritta in legislazione positiva, garantendo la piena proprietà e la libera circolazione delle merci. Se è vero che possiamo considerare la fisiocrazia un travestimento feudale della prima percezione continentale del capitalismo e mettere in parallelo il ruolo esclusivo della terra quale fattore produttivo e la miopia riguardo a rappresentanza e forma del potere, lo è altrettanto prender sul serio il tono profetico dell’utopia tecnocratica e perfino ritornare sul ruolo della terra – base materiale e metafora del bios – nella finanziarizzazione globale che si accaparra le risorse del comune e le taglieggia con la rendita. Natura e decretazione, secondo ideologia e pratica da governance tecnocratica, secondo autolegittimazione del comando.

Tanto per non meravigliarci se oggi il provvedimento amministrativo si arroga di mettere in vigore le leggi oggettive del mercato – T.i.n.a., there is no alternative – e costringe i cittadini a ottemperare ai dettami della finanza, secondo una divisione del lavoro fra economisti interpreti esecutivi della necessità e burocrati addetti agli orpelli dottrinali. Così gira il mondo e la teologia politica suona il piffero, mentre noi ci arrabattiamo a risolvere problemi entro una cornice presunta immutabile.

Risuona la vecchia solfa, con una variante di peso. Mentre Genesi 3 recitava «Donna, partorirai con dolore, uomo lavorerai con il sudore della fronte, oggi tecnici ingessati annunciano Donna partorirai e abortirai pure con dolore, uomo lavorerai e soprattutto non lavorerai con il sudore della fronte». È il postfordismo, bellezza! Il passaggio dal welfare al workfare immette nella coscienza la servitù sacrificale a una partecipazione ristretta alla ricchezza virtuale, laddove semmai esiste il problema di contenere la devastazione degli elementi naturali, minacciati dall’esaurimento e inquinamento delle risorse di aria, acqua, terra, e dagli effetti del riscaldamento globale.

Ha  un senso ridurre, secondo criteri di classe, l’accesso a consumi di basso impatto ambientale e scarso dispendio energetico, quali la somministrazione di medicine salvavita o la trasmissione di insegnamenti superiori, come accade con la brevettazione dei farmaci anti-Aids o le restrizioni agli accessi universitari? Non predomina forse l’idea di una selezione qualsiasi per accrescere le diseguaglianze e la flagellazione della colpa, a vantaggio degli introiti finanziari? In ciò consiste l’essenza del pensiero unico, la cui cifra linguistica è il menagramo inglese globish, che invariabilmente annunzia fregature: ticket, sprawl, spending review, credit crunch, hedge fund, subprime, default

Il luogo da cui scriviamo è la sperimentazione di un governo tecnico con l’aureola di un’oggettività che ha spinto all’assurdo la consueta trascendenza teologica e ha coagulato il divino nell’economico, naturalizzando la storia e nel contempo mancando tutti i conclamati obbiettivi pratici di controllo del mercato. Si è usata la crisi per modificare i rapporti di classe a favore dei già ricchi, ma fallendo bilanci, previsioni e scommesse. Una redistribuzione della ricchezza senza sviluppo nei paesi capitalistici maturi, e un loro arretramento nella competizione coi paesi capitalistici emergenti, dissolve la tenuta della società nel primo caso, spinge verso guerra nel secondo, come vedremo nella sezione conclusiva, in cui ci auguriamo l’avvento di Venere ma paventiamo il clangore di Marte.

Con tenacia gli spettri dell’Uno presidiano cielo e terra, si rimandano a specchio immagini di potere e potere-di-non, di voluntas e noluntas. Il sigillo del trascendente si imprime su condotte che sperimentiamo nella vita quotidiana e forse meriterebbero una quotazione più dimessa e stringente (una valutazione di classe, azzardiamo). Il trascendente ha il gran vantaggio di additare l’imperscrutabile e naturalizzare le diseguaglianze e le procedure che le consolidano. Deus vult, oppure si disattiva e predica l’astensione. L’autorità si regge salda sia evocando un superiore mandante che sfoggiando autoreferenzialità. Perfino con l’astuzia del diavolo: persuadendoci che non esiste. I mercati, lo spread, l’Europa. Sempre gli altri. Nell’alto dei cieli.

Se per il sapiente Eraclito gli dèi abitavano anche in un focolare, oggi chiunque si precipita a evocare a briglia sciolta schemi teologici per condotte spiegabili in concetti terreni. Il problema non sta nella teologia – che è, sì, piccola e brutta (scriveva Walter Benjamin), tuttavia è degna e performativa – quanto nella pretesa di elevare in cielo i conflitti, facendoli sparire fra le nuvole. Teologia e metafisica, prese sul serio, lasciano intravedere le radici del conflitto, sublimarlo a usa e getta lo dissolve.

Vorremmo farla finita con la lettura unilaterale della teologia (positiva o negativa che sia, della potenza o della debolezza, del pieno o del vuoto, della vittoria o della catastrofe) in chiave monoteista. Chiaro che la teologia in senso forte nasce con il monoteismo, ma non è detto che debba continuare a far corpo con esso, che non sia cioè possibile una specie di teologia politeista al prender atto dell’agonia, se non dell’avvenuto decesso, del Dio unico e dei suoi supplenti terreni. I tentativi di allegorizzare gli dèi olimpici sbiadirono perché abbagliati dall’Uno dei neo-platonici o dall’anticipante prónoia provvidenziale degli stoici; e infine furono messi fuori mercato dalla concorrenza scritturale, mosaica con Filone e cristiana con Agostino. Il theológos antico sfornava racconti intorno alle divinità, la teogonia, la natura del cosmo. Il teologo cristiano strologa intorno al Dio uno e trino, la creazione, il peccato originale e altre cose che non si possono toccare né dimostrare matematicamente. I muta-kallimûn islamici discettano su attributi e potenza del Dio senza associati. Sempre di narrazioni ipotetiche trattasi, e non intendiamo discostarci da quell’umile accezione ogni qual volta svetta il nome impegnativo di filosofia prima.

Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, 1800, recitava: «Monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione e dell’arte – di questo abbiamo bisogno!», dobbiamo costruire «una nuova mitologia al servizio delle idee, una mitologia della ragione», per cui la mitologia deve diventare filosofica e il popolo razionale, e la filosofia deve diventare mitologica per rendere sensibili [comprensibili] i filosofi». Un Cristo dialettico (una dialettica cristo-logica) controbilancia le risorgenti potenze dell’Olimpo, mentre incalza il problema del rischiaramento degli ignoranti e in nuce della mancanza di base popolare alla rivoluzione filosofica. Hölderlin, che di quel frammento è uno degli autori, farà dire a Ottmar (Alla madre terra): «Io canto al posto di un’aperta comunità (Statt off-ner Gemeine sing’ ich Gesang)…» – un vuoto politico che il mito cerca di colmare. Siamo in piena età delle rivoluzioni borghesi e delle radicalizzazioni che alludono a ulteriori dinamiche di classe: anzi proprio quell’ambivalenza, tanto più viva nell’arretratezza tedesca, ispira il ricorso al mito educativo e mobilitativo.

Ok, il mito e i suoi succedanei anoressici, il simbolico, la narrazione, sono spesso l’ultimo rifugio dell’impotenza operativa. Non è una buona ragione per non riprovarci, noi eredi di Epicuro e Lucrezio, di Spinoza e Nietzsche.

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