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il rasoio di occam

Le avventure della democrazia

Noi, ‘loro’ e il muro di… Atene

di Giuseppe Panissidi

atene-assembleaE’ trascorso più di mezzo secolo da quando, nel 1955, Maurice Merleau-Ponty, uno dei più agguerriti interlocutori di J. P. Sartre, dava alle stampe una delle sue opere più mature e pensate: “Le avventure della dialettica”. Curiosamente definita “maledetta”, essa rappresenta un grandioso tentativo di superamento ‘in progress’ della impasse cui Max Weber aveva condotto la questione cruciale del rapporto tra ‘fatti’ e ‘valori’, pensiero e mondo, ragione e storia, con ricadute traumatiche sulle dinamiche e la possibilità stessa  della ‘prassi’. Una dicotomia implausibile e pericolosa, quasi un invito all’auto-ripiegamento dell’intellettuale nella sua familiare e solitaria ‘turris eburnea’, remota memoria del “phrontisterion” socratico, il “pensatoio” in scena nell’esilarante raffigurazione delle “Nuvole” di Aristofane. La “politica dell’intelletto”, per sua natura ‘occlusiva’, lascia, ha sempre lasciato, il tempo (e il mondo) che trova, indifferente com’è, nel suo ‘splendido isolamento’, alla realtà contingente e all’effettuale possibilità di un “altro mondo”. Dove ‘altro’, tuttavia, non significa ‘estraneo’ al presente, prodotto sofisticato dell’immaginario individuale e collettivo, bensì possibilità immanente nella contingenza di ‘questo’ nostro mondo, e “pretendente all’esistenza”. Questo pensiero della tensione verso la realtà – come si potrebbe ben definire l’impegno di Ponty, memori dell’”utopia” blochiana – oltre l’aspra fattualità, marxianamente “levatrice” di storia, di umane possibilità, esalta una coerente affermazione di umanismo, felicemente disancorata da pulsioni ideologiche e proiezioni meta-empiriche.

Non esiste situazione senza speranza”, afferma Merleau-Ponty in una delle sue pagine più belle e significative. E sembrano risuonarvi le parole pronunciate da Lenin nel 1919, di fronte alla grave crisi del capitalismo contemporaneo: “Credere che non ci sia una via d’uscita dalla attuale crisi del capitalismo è un errore. Nessuna situazione è mai assolutamente disperata”.

Sweet November, venticinque anni esatti, a Berlino un muro di vergogna scricchiolava. Come resistere, oggi, alla tentazione immaginifica, libera associazione d’idee, di scorgervi un preludio  a più recenti scricchiolii di orditi incestuosi tra consanguinei, in casa nostra? Collassi futuri, si spera, pur entro quell’”ordine delle somiglianze” caro alla visione di Leonardo Sciascia. Una vera fortuna, comunque, per molti ‘credenti’, che il “Brit milah” ebraico, il “patto del taglio”, implichi la sola circoncisione, ceteris exclusis. Quel muro cedeva, infine, e sopra le sue rovine sorgevano nuove speranze, certezze mai sopite, ricerca di più umane attenzioni verso “le vite degli altri”, lungamente inaridite e soffocate dalla ‘livella’ di Stato. Non uomini, ma “fredde, lisce, uguali palle da biliardo” – una metafora di Hegel sugli eccessi cruenti della Rivoluzione francese – forzosamente educati all’idea di eguaglianza, ma trafitti nel bisogno di ragionevoli forme di (marxiana) uguaglianza anti-livellatrice, tra cittadini eguali, nella titolarità dei diritti e delle libertà, e differenti, come membri di cerchie distinte e unite nel corpo dell’identità collettiva. Come tedeschi, ora l’hanno forse in parte intravista, come europei continuano a cercarla insieme con gli altri, insieme con noi. Con quanti “lavorano e lottano e migliorano sé stessi”,e fanno la Storia, speranza e certezza di Antonio Gramsci, alta coscienza d’Italia codardamente reclusa, temerariamente ancora ‘pensante’. ‘Reiseregelungen’ nel cuore dell’Europa del 1989, le nuove regole del viaggio incarnano il simbolo fisico di passi più avanzati nella Storia, mentre attestano la costitutiva implausibilità di un ‘progetto’, la cui cecità si rivelava tale, da non riuscire ad annettere valore aggiunto nemmeno alla nostra assai poco esaltante ‘forma di vita’. Non più blocchi, ma “è sempre guerra”, Tolstoj scruta Napoleone. Ci sovviene, semmai, un’incisiva osservazione politica contestuale di Pietro Ingrao, circa la vera natura del dilemma: “Più socialismo o meno socialismo?”, rispetto alla sua configurazione storica ‘reale’. In breve: i loro torti non fanno certo le nostre ragioni. Quanto al prematuro annuncio della “fine della Storia”, proclamata solo pochi mesi prima di quel novembre – l’ironia della sorte ­- da Francis Fukuyama, essa è ancora di là da venire, evidentemente. “Vi è ancora cammino da compiere, promesse da mantenere”, nel sentimento lirico greco di Konstantinos Kavafis, classicamente proteso verso la propria Itaca. La nostra Itaca. Oggi, purtroppo, si ha come la percezione aspra e forte che il cielo di Berlino non sia poi stato così azzurro sopra di noi, che quelle pietre ci siano come rovinate addosso. Vero e proprio “Muro del Pianto” de chez nous, se dobbiamo giudicare, sembra inevitabile, dallo stillicidio di sciagure che ne sono seguite, sul piano politico e sociale, morale e culturale. L’intelletto generale in letargo, causa prima, a giudizio di Albert Einstein, storia e saperi alla mano, delle più gravi congiunture di crisi, massimi sistemi universali a parte. Versiamo, da allora, in una penosa condizione di stallo, un’emergenza generale permanente e oppressiva e, in apparenza, priva di sbocchi. Nequizia di un tempo senza muro, fonte sorgiva di frustrazioni e di nausea – “afferra alla gola”, per Sartre, come una morsa – sensi d’inanità disperante. Prescindiamo, tuttavia, solo per un momento, dal dramma della ‘questione sociale’ e da preoccupazioni ‘volgarmente’ economicistiche. Ad esse, in fondo, si potrà sempre porre rimedio, magari contraendo matrimoni in massa con la prole di un ex cavaliere ed ex altro, corresponsabile, in buona e abbondante compagnia, del fatidico stato dell’arte. Sberleffi, certo, da cui traluce acuta sensibilità morale e civile, a quanto sembra discretamente apprezzata. Rivolgiamo, invece, lo sguardo alle condizioni attuali della nostra democrazia, parto travagliato di lotte epocali d’antan, benché tutt’ora defraudata di una memoria pubblica condivisa. Ictu oculi – potenza del ‘latinorum’ – ci rendiamo subito conto della sua ‘friabilità’, se, per dignità e pudore, non vogliamo metter mano a un lessico più intensivo. Agonia, ad esempio.

Eppure, quel muro non c’è più. E “il desiderio di riconoscimento”, anima viva e profonda della democrazia, non solo per Fukuyama, ha aperto vie nuove alla coscienza, alla ricerca e ai bisogni delle identità e dei diritti di ciascuno. Si sa, “la storia procede sempre in modo dialettico e dal lato negativo”, scrive Marx memore di Hegel, non in modo lineare e cumulativo, e sufficientemente ignara del vangelo del “sì, sì, no, no”.

Concediamoci un tuffo nel passato remoto, dal quale, in fondo, “siamo tutti esuli”, nella ‘narrazione’ di Fëdor Dostoevskij. Nell’Atene del V secolo a.C., fulgore dell’”illuminismo greco”, un grande stratega militare e non meno abile politico, Cimone, dopo avere distrutto una flotta persiana, allo scopo di abbellire l’Acropoli decise di utilizzare il bottino di guerra per cingerla con un muro imponente. Presto, però, l’opera si interruppe, anche se non ne conosciamo le ragioni precise. Sappiamo, invece, che quel politico, alla guida del partito aristocratico-conservatore duramente ostile a Pericle, si opponeva alla ‘rivoluzione democratica’ in fieri. E sappiamo, altresì, che la sua morte segnò la fine della politica antipersiana di Atene, e l’inaugurazione di un ‘new deal’ guidato dal partito democratico di Pericle. Quel muro interrotto assurge quasi a simbolo, per noi. Qui, infatti, l’incipit dello scontro di Atene con la rivale Sparta, ostile all’’’imperialismo’ ateniese, e della “guerra del Peloponneso”, mirabilmente scritta da Tucidide, e consegnata a noi come un “bene perenne”, egli scrive, utile e valido fino a quando “l’uomo sarà siffatto”. Un’insuperata  ‘lectio magistralis’ , rimasta lettera morta sul terreno concreto della Storia.

Ma qui, soprattutto,  l’evento epocale. Pericle ‘rompe’ il corso della Storia e realizza per la prima volta  in Atene la ‘libertà democratica’, allo scopo e con l’effetto di salvaguardare le libertà civili, la legittimità del potere e l’autorità dello Stato.

Democrazia, dunque. All’esito di un processo di radicali riforme istituzionali, e sul presupposto di una progressiva presa di coscienza degli opliti  (cittadini-soldati) e di uno sviluppo economico generale in tutta la Grecia e nei territori coloniali, il principio democratico attecchì anche fra i ceti meno abbienti delle città alleate. La forte reazione oligarchica riuscì a causare ‘disturbo’, senza però mordere stabilmente sulla realtà del nuovo Stato e sulla connessa solidarietà interstatuale. Sorgeva e si assestava un regime politico fondato sul potere diffuso di tutti i cittadini a pieno titolo, quelli ‘nati liberi’. “Isonomia”, eguaglianza di fronte alla legge; “isegoria”, libertà di parola; “isotimia”, pari diritto nell’accesso alle cariche pubbliche. Questi i principi fondamentali di quella costituzione, declinati entro la cornice istituzionale di organi collegiali, quali l’”ecclesia”, assemblea generale primaria, e la “bulè”, consiglio eletto a sorteggio (un’idea davvero eccellente), con la funzione di formulare proposte per l’assemblea. Le magistrature, sorteggiate o elette, in carica per un anno, espletavano compiti esecutivi ed avevano l’obbligo dell’”euthuna”, rendiconto all’assemblea, con l’avvertenza che, nel nome stesso, quell’istituto incorporava anche la previsione della punizione.

E’ pur vero, tuttavia, che a questo Stato Platone guardava con preoccupazione critica come “governo del numero o della moltitudine”, ed Aristotele come “governo dei poveri contro i ricchi”, dunque governo di una parte che agisce nel proprio interesse. Insomma, i maggiori intellettuali del tempo non sembra che…esultassero.

In ogni caso, tra limiti e contraddizioni molteplici, inevitabili nel tempo storico determinato, quel popolo concepiva ed offriva un’idea nuova e profonda intorno ai dilemmi dello stare insieme. Non deve, tuttavia, sfuggire il punto essenziale. Se quell’idea radicava in profondità, ciò è dovuto essenzialmente allo spessore culturale di una ‘forma di vita’ pubblicamente nutrita degli splendori della letteratura e dell’arte, delle sommità della filosofia e dell’intera costellazione dei saperi: dalla medicina alla matematica, dalla biologia alla storiografia. Non casualmente, il cuore di quella “paideia” – dalla religione alla filosofia alla drammaturgia – era la “katharsis”, la catarsi purificatrice che innerva ancora segmenti significativi della psicoanalisi e dell’estetica contemporanea, in quanto consapevolezza e ricerca, classicamente, processo di liberazione intellettuale e conoscitiva, previa scarica emozionale, e conseguente conversione del modo di vivere. “Phronesis”. Conoscevano le sfilate di moda, non il “grande fratello”. Perché la massa dei votanti – non tutti, certamente, bensì solo gli ‘aventi diritto’: maschi, adulti e liberi – era organicamente immune da sindromi di ‘analfabetismo funzionale’. E morale. Invero, la democrazia diretta o espressa , rappresentativa o satellitare, di per sé non garantisce alcunché, e può impedire di strambare soltanto entro indefettibili condizioni e presupposti progressivi di sfondo. E se, oggi, la ‘rete’ può rivelarsi uno strumento efficace per la sperimentazione di forme inedite di democrazia partecipata e governante, nuova Ginevra rousseauiana, è anche vero che si  tratta pur sempre di uno strumento, erma bifronte, disponibile per usi e abusi molteplici. Sempre due, dunque, i temi in agenda, non uno soltanto, se anche strettamente correlati. Il primo: come, con quali strumenti e modalità sia più opportuno esprimersi, da un lato. Il secondo: chi sceglie chi e che cosa, e in virtù di quali criteri, dall’altro.

Un rapido e sapido excursus nel dominio dei saperi, in uno dei suoi punti più alti e fondanti, forse può soccorrere. Al riparo di paventati rischi assolutistici o totalitari, J. J. Rousseau, individuava il ‘thema decidendum’ nella “volontà generale”, e ne annetteva il potere entro la sfera del singolo uomo, in ogni individuo sociale, concepito quale ontologica “opzione morale” del bene comune e dell’interesse generale. Risoluta l’esclusione di (pericolose) operazioni di mediazione tra “affinità elettive” individuali, nonché di ogni forma di calcolo combinatorio. La “volontà generale”, infatti, non s’identifica né con la “volontà di tutti”, né con la “volontà della maggioranza”, men che mai con l’assetto (più o meno) democratico del  governo rappresentativo. “Volonté générale” è la “composizione” in unità delle naturali differenze, messe a fuoco e in tensione, non già semplice identità illusoria (e mistica) risultante dall’eliminazione delle volontà particolari. Senza la ricchezza delle differenze, del resto, non potrebbe neppure costituirsi l’unità dell’intero e, proprio perché coincide con “quel che resta” delle differenze, la volontà generale è costruzione permanente in divenire, punto d’approdo, non d’avvio, mai realtà data, totale e compiuta. La specificità stessa del suo nome istituisce una connessione immediata e intrinseca con l’’interesse generale’ del corpo sociale, indipendente e soggiacente a qualsiasi maggioranza, nonché sua fonte di legittimazione, previo “calcolo di tutti i voti”. Di tutti. Si definisce, in tal modo, il nome proprio della “sovranità popolare”, la volontà del popolo come intero, integrante l’identità morale di tutti e di ciascuno nel “corpo politico”. Una condizione ostativa insuperabile perché  la “volonté générale” possa essere in qualunque modo “rappresentata”. Può certo essere “provvisoriamente delegata” (déléguée), in accordo con la volontà (anche) di un solo uomo, senza vincoli di soggezione e, soprattutto, senza scissure nell’intero, alla stregua del peculiare movimento che essa innesca, e del suo carattere naturalmente inclusivo e, appunto, “generale”. Al di là, o al di qua, delle stesse, contingenti espressioni elettorali di libertà, a cadenza più o meno regolare, dunque anche in ragione della massa critica del voto inespresso. Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. Con tutto il rispetto per Locke e Tocqueville, Montesquieu e Mill, teorici e testimoni attenti dell’esistente, e malgrado la loro pervasiva influenza nella tradizione politico-culturale occidentale, fatto è che, dalla Rivoluzione francese alle “Dichiarazioni universali” dei diritti e delle libertà, fino alla teoria del “velo d’ignoranza” di J. Rawls, le grandi linee teoriche della ‘rottura’ sono limpidamente tracciate. Ebbene, se le forze d’occupazione dello Stato e delle istituzioni – Giorgio Napolitano condivide l’assunto di Enrico Berlinguer? Gli consta di essere (stato) il Presidente di ‘quella’ Repubblica? Fantasie a parte del sistema politico-mediale intorno ad asserite seconde e terze Repubbliche – se il sistema dei partiti, si diceva, in testa il “partito della nazione” – della “volontà generale” o del 20%? – compiendo molti passi indietro, rinunciasse ai benefici parassitari e perversi derivanti dalle lacerazioni dell’intero e traducesse il senso dell’enucleata ‘rottura’ in atto di consapevolezza, come d’incanto imboccherebbe la via del reperimento di ampi margini senso. Ergo, della propria (ri)legittimazione. Cosicché, nel fuoco di un’incipiente nuova ‘forma di vita’, l’azione politica si esplicherebbe in convergenza, quanto all’impegno della formazione e del rispetto della volontà generale. Conferma, ove mai necessaria, che la nostra Costituzione, pur lungamente bistrattata, non è il rottame che l’anti-politica di Stato si affanna ad ammannire. Vero è che la Charta attende ancora il suo Godot, la messa in opera, ossia, e in sicurezza, dei suoi gangli vitali, precondizione indefettibile di aggiornamenti opportuni e necessari.

E hic et nunc? Nelle more, non possiamo più destinarci a incrociare, per di più vanamente, flussi permanenti di ‘mani pulite’, disfatte in sequenza del passato, di “classi dirigenti generali” ed “assemblee democratiche”, ancorché elette, come avveniva fino a pochi anni fa, quando – l’oblio farisaico non giova – non erano ‘nominate’, e quando, inoltre, la ‘forbice’ sociale era incomparabilmente meno divaricata. Conferma inequivoca dello strabismo epistemico di taluni approcci (molto) teorici al tema della crisi della democrazia rappresentativa, essenzialmente interpretata quale effetto diretto dell’akmé delle diseguaglianze sociali. Eppure, gli anni ’50 e ’60, in particolare, sono stati i peggiori, ma anche i più significativi, della seconda metà del secolo scorso, dominati da un forte oscurantismo di matrice (post)fascista. Mentre in Germania avanzavano i Panzer della ‘denazificazione’ e il “Godesberger Programm” faceva piangere Marx, in casa nostra piangevano le madonne e andavano in pellegrinaggio; si registrava una miracolosa espansione dei poteri criminali delle mafie e del loro controllo lungo vasti territori dello Stato, in quanto “infrastruttura di sviluppo e di ricambio dei gruppi dirigenti della società e dello Stato” (Salvatore F. Romano); il primo deputato fascista (ri)entrava in Parlamento; le ACLI e l’Azione Cattolica emanavano fluidi di collateralismo; le elezioni si nutrivano delle sapienti promesse di una scarpa prima e una scarpa dopo; la DC prendeva diligentemente appunti e istruzioni dagli USA e dal Vaticano; statisti e politici, a furor di popolo, tessevano interessanti relazioni (anche di ‘democrazia rappresentativa’) con ‘cosa nostra’, attiva “dentro e con lo Stato, attraverso i rapporti esterni con i suoi rappresentanti e nelle istituzioni”, a giudizio di Pietro Grasso, già procuratore nazionale antimafia; e il PCI attraversava ‘questo’ guado, anche a prescindere dal fattore K.  Amenità siffatte. Per la gioia del popolo italiano e della (compianta?) democrazia rappresentativa d’antan, quantunque la mondializzazione, l’euro e l’economia finanziarizzata fossero ancora fuori dall’orizzonte della storia. Infine, ma non da ultimo, il sottosuolo incubava il berlusconismo: nome proprio della scissione, cifra esatta di un “cavaliere inesistente”.

Perché, invero, di libertà e di democrazia bisogna sempre parlare “in situazione”, argomenta Sartre, e non già per esercitazioni tecniche, soltanto all’interno di “un campo”, non mai in termini assoluti, per astrazioni indeterminate. Immersi, come siamo, nelle nostre vite e nel mondo degli uomini, tra amici e parenti, passanti e conoscenti, passato, presente e (sic) futuro. E solo quando la libertà ‘incontri altro’ fuori di sé, nel significato delle parole di Martin Luther King: “La mia libertà finisce dove comincia la vostra”. E nel senso ulteriore che, senza l’altrui, neppure la nostra avrebbe inizio. Quel “campo”, tuttavia, – ecco il punto – altro non è, se non il terreno da costruire e su cui camminare insieme, hegelianamente da percorrere proprio mentre lo costruiamo, attraverso l’elaborazione teorica e la conduzione pratica di essenziali problematiche locali e universali. Affrancati, è un auspicio, dal mugugno impotente del “ressentiment” – altro dal  ‘risentimento’ del linguaggio comune – su cui Nietzsche per primo ha scritto pagine definitive. E guai se ‘la rete’ usurpasse la funzione  consolatoria delle sacrestie o del bar dello sport, che svolgono ancora egregiamente il proprio lavoro. Guai, insomma, se essa svilisse in medium di compensazione per frustrazioni e pulsioni emozionali, esacerbando gli inconvenienti connaturati alla tecnologia informatica. Primo dei quali, il ribaltamento del senso stesso della realtà e dell’’esperienza’, sempre da costruire mediante l’attraversamento del mondo, ora, invece, in assunzione dall’esterno, da un mondo, ossia, cui non siamo noi ad andare incontro, ma che, viceversa, ci viene incontro dall’interno di una sofisticatissima scatola. Di certo, non ci arride la fine ingloriosa del “prete asceta”, patetica quanto innocua figura ‘morale’ della sublimazione: di miserie e sensi di colpa, debolezze e frustrazioni. Pie donne ai piedi di una croce: tragedia, la prima volta, farsa, le altre, secondo Marx correttore di Hegel. Oppure, ‘pianto greco ’ di prefiche, sublimità dei cori tragici a parte. Vertiginosa posta in gioco, in realtà, la marxiana “umwälzendePraxis” è prassi sovvertitrice. Meglio: inversione della prassi. Un tema ancora tutto da svolgere. Non è un caso che, agli albori della modernità, un’altra formidabile macchina da guerra contro-ideologica, Baruch Spinoza, avesse già severamente ammonito: “L’odio e il pentimento sono nemici mortali dell’uomo. Non si piange sulla propria storia. Si cambia rotta”.

Avversi ‘destini’ non sono ascrivibili alla volontà o agli interessi di capri espiatori esterni e di comodo. Alla ‘rappresentanza’ politico-istituzionale, putacaso, il cui radicamento terreno è pacifico, e non necessita di ulteriori dilucidazioni. Ovvero, alla magistratura e alle sue dinamiche, spesso discutibili, talora dissennate, non solo nell’esercizio della giurisdizione, ma bensì anche negli ‘interna corporis’. D’altra parte, se abitassimo arene felici di giustizia dispiegata e compiuta, senza falle più o meno gravi, nella beatitudine dell’“eden dei diritti innati dell’uomo” del Marx più amabilmente ironico, non avrebbe neppure senso parlare di giustizia. Anzi, alla luce della lezione della grecità classica, non disporremmo neanche del lemma e del concetto relativi. Fino a quando, naturalmente, il “garantismo”, dalle molte vite e dal volto cangiante, dell’inopinata pretesa d’impunità non ci rinfrescasse la memoria e il senso dell’umano. E non ci ricordasse, ancora Marx, l’ineluttabilità degli apparati di giustizia e di repressione, prodotti della devianza in ogni formazione sociale finora esistita, segnatamente entro il modello di produzione con capitale e la macchina statuale del “sorvegliare e punire”. Non ci ricordasse, tra l’altro, la quisquilia che l’hegeliano “regno animale dello spirito” della società borghese moderna sussume la (decantata) “libertà civile” nella legge, quale espressione della volontà generale del corpo sociale, soggezione all’”io comune”, ancora Rousseau, alla “società come trama di legami e relazioni”, ancora Marx. Non a pulsioni egotiche patologiche (finanche postribolari) di ogni quaquaraquà che “parteggiando viene”, ancorché meta libidica – Piero Gobetti sul “mussolinismo” – di non trascurabili frazioni di popolo prudenzialmente allergiche alla volontà generale.

Vero di fatto è che, se nella notte hegeliana “tutte le vacche sono [sembrano] nere”, di giorno, più sensatamente, prestando ascolto al monito di I. Kant, secondo cui “ragionare è distinguere”, la mente non può non correre alle prerogative inalienabili del popolo sovrano. E alla sua mira fallace nell’espressione di sé stesso e delle ‘proprie’ classi dirigenti. Impellente il bisogno di riorientare l’esercizio dello sguardo sulle cose ed “auto-sovvertire” le pratiche individuali e pubbliche, a pena di esiti di  non ritorno. Perché, “la radice dell’uomo è l’uomo stesso”, Marx insiste. Come non rammentare, al riguardo, una lontana, ma caustica e più che mai attuale osservazione del cancelliere tedesco Gerhard Schröder? A giudizio del quale la questione delle riforme, nel Belpaese, soffre  intensamente lo stato entropico (e antropico) della volontà generale. Il potere più forte. In tema, la madre di tutte le riforme, la nostra prima rivoluzione culturale (e politica), attraverso uno sguardo alla Ponty, nella cui prospettiva “il mondo è già costituito, ma non è mai completamente costituito”. Se è nel vero chi, come Marx, ritiene che “gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni”. Il teatro di guerra. I fatti, vale a dire le condizioni oggettive di vita, e le tradizioni, cioè la storia di sfondo, intellettuale e culturale.

Noi e ‘loro’. Senza muri. Purché s’intenda che ‘loro’ siamo noi, infine. Se, dunque, ‘loro’ si separano da noi, ciò dipende dal fatto che, ancor prima, noi ci scindiamo da noi stessi, e proprio nel momento cruciale in cui li scegliamo tra di noi. Ne va di noi, in questo moderno rito sacrificale dell’intelligenza, della volontà e del libero arbitrio.

“Hybris”, memoria tragica, è anche questa tracotanza, questa perversione della volontà generale. E “gli dei se ne vanno”. (Sofocle).

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