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il rasoio di occam

Consumismo etico

di Carlo Augusto Viano

La critica al consumismo sembra in declino nel campo della sinistra, probabilmente a causa della crisi economica. Ma c’è un bene di cui invece sta aumentando il consumo, ed è quello dell’etica. Le vicende del mercato editoriale lo confermano

consumo-responsableRecentemente la rivista Paradoxa ha dedicato un numero, curato da Dino Cofrancesco, alla questione del consumismo nella cultura di sinistra; infatti c’è da domandarsi che fine abbia fatto la polemica contro il consumismo tradizionale nella sinistra. Non intendo discutere del fascicolo di Paradoxa, ma mi pare che il problema sollevato meriti qualche attenzione. La critica del consumismo non sembra molto popolare di questi tempi, nei quali si sentono ogni giorno lamentele sulla caduta dei consumi e si invoca il loro risveglio, come nelle siccità si invoca la pioggia. Forse una delle ragioni per le quali gli ambientalisti non sono oggi molto popolari sta nel fatto che essi sono rappresentati come i più rigorosi anticonsumisti; e giustamente lo sono, perché i consumi comportano uso dell’ambiente.

Bisogna pur dire che la polemica contro il consumismo della sinistra tradizionale, soprattutto quella austera condotta dai comunisti, aveva una carta di riserva. Più che ridurre i consumi, si voleva cambiarli, perché quelli offerti dal capitalismo erano banali e pericolosi: prima che emergesse l’ambientalismo, quei consumi, più che minacce alle risorse disponibili, apparivano come armi di corruzione morale, con le quali si voleva distrarre il proletariato, trasformando gli operai in bambini o in ospiti di paradisi artificiali. C’era un vena di tristezza in quella proposta, ben rappresentata da Enrico Berlinguer. Gli ambientalisti, venuti dopo, avrebbero cercato di rimediare, inventando una serena allegria nuova, un po’ faticosa, forse, ma sana, quella del volenteroso ciclista, con lo sguardo sereno, senza i nervosismi di chi è costretto a godere dei piaceri della guida.

Poi verranno comunitaristi e repubblicani democratici a rallegrare un po’ l’atmosfera, inventando il piacere diretto della virtù, della partecipazione alla vita collettiva, con le rievocazioni delle feste popolari inventate dalla Rivoluzione francese. Solo il socialismo rampante degli anni ottanta cercava di collegare consumi con ambientalismo, esaltando i consumi leggeri ed eleganti, la grande sartoria in luogo dell’industria pesante.

Poi è arrivata la crisi, i consumi si sono ridotti e si è visto ciò che si sapeva già: che si riducono i consumi dei poveri, mentre crescono quelli dei ricchi, sempre più ricchi e sempre meno numerosi, almeno in termini relativi. E allora si è ricominciato a dire che i consumi devono essere orientati in modo diverso: non più consumi banali e alienanti, che non creano lavoro e inquinano; magari acciaio di stato, che fa pensare alle grandi fabbriche e agli operai austeri, senza voglia di intrattenersi con i giocattoli del capitalismo, oppure lavori socialmente utili, per migliorare l’ambiente, con interventi piccoli, che fanno pensare agli orti di guerra. Ma i discorsi sul consumismo in generale sembrano in ribasso, perché far tornare i conti diminuendo la soddisfazione, magari soltanto apparente, fa venire in mente l’austerità, che sa di burocrazia europea, di commissari che impongono di tirare la cinghia, di Germania che assegna compiti a casa.

I vecchi marxisti avevano strumenti efficaci per combattere il consumismo senza mettersi a far prediche: il moralismo anticonsumistico apparteneva per loro alla sovrastruttura ed essi pensavano di poter manovrare la struttura o, meglio, di poter orientarsi nel medesimo senso in cui la storia stessa avrebbe trasformato la struttura. Nella nuova società nuovi consumi, significativi, sarebbero diventati possibili per tutti. Un’utopia, certamente, ma, si sa, le utopie contano non per ciò che di esse si realizza, ma per gli atteggiamenti di attesa che generano. Poi le utopie marxiste diventarono meno credibili, il capitalismo celebrò i propri trionfi ed ebbe le proprie crisi, tuttavia ben diverse da quelle che i marxisti si aspettavano e dalle quali si attendevano la rigenerazione del mondo. Allora poteva tornar utile Keynes, un tempo guardato con sospetto, come colui che aveva inventato l’ultimo trucco per salvare il capitalismo, magari impiegando la gente a fare buchi nella sabbia, in attesa della crisi finale. Gli economisti classici, complice la matematica, lo avevano riassorbito nelle loro complicate teorie? Guardiamo a Heidegger! esortava Napoleoni; e, se Heidegger era politicamente scellerato, lo si poteva sostituire con Severino, una specie di pastore dell’essere nostrano e meno drammatico, tanto da poter leggerlo sul “Corriere della Sera”. Ma si poteva anche andare indietro, a Nietzsche, per esempio, un po’ folle, ma politicamente innocuo o ripulito, o a rispettabili professori, come Kant o Hegel, che non avevano abbandonato la cattedra universitaria per innamorarsi di musicisti o di donne capricciose. Si mette insieme l’improbabile terzetto costituito da Kant, Hegel e Nietzsche, si ricuperano i resti del keynesismo e si sostituiscono i buchi nella sabbia, inventati da un libertino un po’ blasé, con industrie di stato o lavori socialmente utili.

C’è un articolo che è diventato oggetto di consumo, un articolo che non inquina, si presenta bene e ha anche un alto potere sostitutivo di consumi per un verso o per l’altro discutibili. È l’etica. Ho un ricordo della sinistra d’epoca, quella della mia giovinezza, che richiamo senza nostalgia né indulgenza. Quando quella sinistra proponeva di cambiare qualcosa con riforme, magari con “riforme rivoluzionarie”, si sentiva ammonire di non fidarsi delle leggi: le leggi possono essere aggirate, mentre ciò che conta è lo spirito, non la lettera, il costume; questo va cambiato. “Volete la riforma radicale o la rivoluzione? — si sentiva dire da chi voleva che nulla cambiasse — Ma i veri rivoluzionari siamo noi, perché vogliamo la rivoluzione morale, che muta gli uomini dall’interno”. La creazione dell’uomo nuovo attraverso la politica, le leggi, le riforme e la conquista rivoluzionaria del potere è andata male, ma l’invocazione dell’uomo moralmente rinnovato si capiva subito che cosa volesse dire: non fare nulla. Gli uomini perbene, forse perché sono perbene e dunque, come la divinità aristotelica, non potrebbero se non peggiorare cambiando, sembrano in generale contrari al cambiamento. Contro le invocazioni della morale e dello spirito contrapposto alla lettera  gli uomini della vecchia sinistra si facevano forti della conoscenza del senso della storia: quelle critiche potevano andar bene per i riformatori borghesi, che si affidavano ai formalismi legali, non per loro, che non cambiavano a casaccio, ma “guardando avanti”, perché sapevano dove va la storia.

Quando il senso della storia diventa inafferrabile, anziché conoscere, si preferisce giudicare e ci si rivolge all’etica. Se la pretesa della vecchia ideologia di essere una scienza, o quasi, risulta fittizia, non c’è nessun sapere positivo su cui le proposte normative possano fondarsi e l’etica diventa finalmente una disciplina autonoma, con i propri principi interni, indipendenti dalle conoscenze positive e dai fatti. Non lo aveva detto Kant, che se una cosa è moralmente obbligatoria è possibile? E Hegel non aveva collocato la moralità e l’eticità sopra la conoscenze delle cose? Che avessero ragione i vecchi filosofi (ma anche i nuovi hanno ripetuto più o meno le medesime cose), i quali additavano nell’attaccamento alle cose (e al corpo, attraverso il quale le cose agiscono) la vera matrice di ogni male, che è sempre servitù alle cose? Il denaro, la più generale e astratta delle cose, capace di rappresentare ogni cosa e di trasformare ogni cosa in mezzo, non è forse il veleno più pervasivo e infido? In fondo con il riconoscimento del primato dell’etica potrebbe essersi realizzato ciò cui hanno quasi sempre mirato i filosofi, la liberazione dalle cose, dal corpo e dal denaro.

Tempo fa si discuteva presso un editore di un possibile testo di filosofia per le scuole secondarie superiori. Venne preparato un testo di prova, che non piacque e non se ne fece nulla. Normale faccenda editoriale, ma fu significativa la domanda di un redattore esperto e colto:  “ma qui si vuol fare della cultura o si vogliono fare dei soldi?” Un testo scolastico si scrive per guadagnare dei soldi, o anche per guadagnare dei soldi, cosa del tutto legittima. Giusto, come era giusto che un redattore fosse deluso perché non trovava ciò che lui si aspettava e che probabilmente si sarebbero aspettati gli insegnanti, ai quali il testo era destinato: un preoccupazione corretta, perché si rischia di non vendere il manuale, scontentare l’editore e deludere l’autore. Al di là del gergo editoriale e delle reticenze culturali, ciò che emergeva era la preoccupazione per la mancanza dell’edificazione filosofica, di un messaggio, di un orientamento di valore o qualcosa del genere. Ed era questo che si chiedeva di consumare, che si poteva vendere, da cui si poteva guadagnare qualcosa. Uno potrebbe aspettarsi che non abbia successo un testo troppo difficile o moralistico; invece no, perché la morale tira.

Un tempo la scuola italiana si distingueva per il tempo assegnato alla filosofia nelle scuole secondarie superiori, per certi versi un’anomalia, ma il liceo italiano era l’erede della scuola gesuitica, nella quale la filosofia aveva un’importanza particolare, perché era considerata preliminare alla teologia. Lo storicismo idealistico italiano aveva dato un’impostazione storica all’insegnamento della filosofia, partendo dall’idea che il corso storico della filosofia fosse una marcia verso l’immanentismo, più propriamente verso una religione o religiosità immanentistca. Così l’intento edificante dell’insegnamento filosofico veniva mascherato dall’apparente oggettività dell’impostazione storiografica, non certo gradita alla cultura cattolica, che però si era tenuta al margine della cultura laica, dominata dal patriottismo risorgimentale. Quando, con il fascismo, i cattolici avevano accettato la nazione italiana, erano incominciati i tentativi di modificare l’impostazione storicistica, condotti però senza troppa insistenza, perché continuava a essere apprezzata la funzione della filosofia nell’educazione nazionale. Né veniva sottovalutata la funzione che la filosofia aveva di contrapposizione alla cultura scientifica, che il liceo italiano relegava in secondo piano. Quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i nazionalismi hanno incominciato a recedere, l’insegnamento storiografico si è conservato, in parte per resistere all’invadenza della cultura cattolica e in parte perché lo storicismo continuava a caratterizzare la cultura filosofica italiana e le ideologie dominanti, fossero liberali, socialiste o marxiste. Queste ideologie avevano in comune filosofie della storia, magari discordanti nei contenuti, ma simili nell’impostazione. La perdita di fiducia nel liberismo economico e nel socialismo, l’ideologia dei diritti umani, il comunitarismo e i nazionalismi locali o religiosi hanno messo in crisi gli schemi ricavati dalle filosofie della storia. Mentre filosofie della storia e esposizioni storiografiche della filosofia davano l’impressione di collegare i discorsi dei filosofi a qualche forma di conoscenza positiva, la dissoluzione di quelle basi ha fatto della filosofia un tipo di discorso essenzialmente normativo, fondato sul primato dei valori rispetto ai fatti

L’interesse per la filosofia pare stia crescendo e l’idea di introdurre il suo insegnamento nelle scuole sembra convincente, perché risponde alla funzione propria delle scuole di educare i giovani. Nelle scuole di paesi nei quali il culto della patria è scomparso e non c’è un regime religioso o ideologico, si dovrà pure dare qualche orientamento. Se è necessario predicare un po’, è comprensibile che filosofi, a corto di conoscenze attendibili, sempre più complicate, si candidino. Si capisce anche che gli editori si preoccupino di rispondere a questa domanda e suggeriscano agli autori di abbandonare l’idea di far cultura attraverso i testi scolastici, perché con i testi si possono far soldi, ma la via è quella dell’etica. Da Rousseau a Marx si è sognato di un’umanità che non consumasse cose servendosi del denaro; ma che l’etica potesse diventare essa stessa la fonte del denaro sembrava davvero impossibile.

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