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losguardo

La sophia del pop e la libertà post-metafisica

di Corrado Ocone

klimt114Il movimento più evidente del pensiero degli ultimi secoli è quello che ha sempre più portato a eliminare la dicotomia fra il mondo ideale, fatto di strutture più o meno stabili per quanto diversamente concepite dai diversi filosofi, e il mondo reale, soggetto al mutamento e alla finitezza. Come Nietzsche scrive nel Crepuscolo degli idoli (1888), tratteggiando quella che considera la “storia di un errore”, “a certo punto il ‘mondo vero’ finì per diventare favola”. Era stato Platone a identificare nelle “idee” quella “realtà vera” che gli uomini, chiusi in una caverna, vedono solo attraverso ombre. Era allora iniziata una storia, quella della Metafisica, che è, nel bene e nel male, la storia stessa dell’Occidente.

Ma la Metafisica, per lo più, oggi ci sembra poco plausibile. E questa poca plausibilità fa si che, con essa, poco plausibile sembra essere la stessa filosofia. In effetti, la Metafisica è stata sempre identificata come la filosofia prima, la filosofia senz’altro. È possibile continuare allora a filosofare e in che modo, con quale senso, nell’epoca della “fine della filosofia”? È una delle domande, forse la domanda, che ha percorso il Novecento filosofico. Le risposte sono state diversissime: hanno coperto un’ampia e differenziata gamma di “soluzioni”.

C’è stato chi ha annullato la filosofia nel sapere scientifico concreto; chi l’ha vista come una sorta di collettore dei saperi particolari; chi ne ha decretato semplicemente la fine per palese esaurimento o “inattualità” o semplicemente per necessità epocale di convertire la teoria nella prassi. Soprattutto quest’ultima “soluzione”, che accomuna i marxisti ai gentiliani e ad altre forme di pragmatismo filosofico, può avere conseguenze “pericolose” in quanto abdica alla “comprensione” delle cose nel pensiero.

Interessante a me sembra invece, anche per cercare di delineare uno o il possibile oggetto della popsophia, considerare la conclusione a cui giunse Benedetto Croce dopo essersi posto le suddette domande. Per il filosofo napoletano, la filosofia può ancora avere oggi un senso, ma deve porsi semplicemente come “metodologia della storiografia”. È una definizione che in verità qualche problema teorico lo crea, ma che, per intanto, va considerata come un tentativo radicale di superare la tradizionale dicotomia fra verità di ragione e verità di fatto. Dando al pensiero l’unico compito di giudicare e/o qualificare i fatti del reale. Ma ancora più significativa è sempre a me sembrata la conseguenza che Croce traeva dalla sua concezione, giusto un secolo fa (la prima edizione di Teoria e storia della storiografia uscì in tedesco nel 1915), per quel che concerne il ruolo del filosofo o in generale dell’intellettuale, diciamo pure così, post-metafisico. Secondo il filosofo napoletano, ci sono sei pregiudizi che vanno finalmente smontati, in quanto residui del passato.

1) Il primo preconcetto è quello che possa esistere “un problema fondamentale della filosofia”, ad esempio quello dell’Essere, che si riproduce intatto nei secoli e che tocca solamente rinfocolare ogni volta. Al contrario, esistono, per Croce, i sempre nuovi problemi che sgorgano dalla storia, con cui dobbiamo confrontarci, e che esigono risposte sempre altrettanto nuove e adeguate. Nessun oggetto in quanto tale è indegno di essere fatto oggetto di pensiero, così come nessun problema: ovviamente c’è un pensiero diretto, diciamo così, che è per Croce la filosofia in atto, la filosofia-storia. E c’è il momento, più propriamente filosofico, in cui a essere oggetto di pensiero è non la realtà ma le strutture stesse con cui la pensiamo. In ogni caso, non esiste una scorciatoia che porti a pensare qualcosa fuori dal reale, una trascendenza assoluta e non relativa.

2) Il secondo pregiudizio, anch’esso di origine metafisica e teologica, consiste nell’anteporre l’unità alla pluralità, la conciliazione alla scissione. Il compito del filosofo diventa perciò proprio quello di ritrovare l’uno nel molteplice, la verità oltre le infinite apparenze del mondo reale. Il filosofo spregia così “la distinzione per l’unità”, conformandosi così al concetto teologico, che tutte le distinzioni si unificano sommergendosi in Dio, e all’atteggiamento religioso, che nella visione di Dio dimentica il mondo e le sue necessità”.

3) C’è poi la tendenza che si sforza ancora di trovare la “filosofia definitiva”, quella che metterebbe fine alla sequela di filosofie che si sono susseguite e contraddette nella storia. L’idea è in qualche modo, dice Croce, quella di “tornare dalla filosofia alla religione e riposarsi in Dio”.

4) C’è poi un pregiudizio che discende da questo modo di pensare, cioè dall’idea che tenendosi lontani dalle passioni del mondo si possa conquistare uno sguardo puro e disinteressato in grado di farci cogliere la “verità”. È quello che ci fa vedere “la figura del filosofo”, ma potremmo dire dell’intellettuale in genere, “quasi Buddha o ‘risvegliato’, che si pone superiore agli altri (e a se stesso, nei momenti nei quali non è filosofo), perché, merce la filosofia, si tiene ormai liberato dalle umane illusioni, passioni e agitazioni”. Croce continua osservando che è un po’ l’atteggiamento del mistico o dell’amante, aggiungendo che però la nuova filosofia deve negare il primato che la vecchia metafisica dava alla vita contemplativa, o genericamente teorica, rispetto a quella pratica, puntando a rappresentare “la vita nella sua integralità, che è a una pensiero e azione”. È a questo punto che Croce fa la sua nota equiparazione del purus philosophus al purus asinus. Di esso, che “è in più parti erede del ‘maestro di teologia’ delle università medievali”, Croce si augura la scomparsa, in modo che, dissolvendosi la stessa filosofia nelle discipline o attività particolari, gli studiosi tutti, e in genere tutte le teste pensanti, diventino “consapevoli e disciplinati filosofi; e il filosofo in generale, il purus philosophus non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sapere”.

5) Un altro pregiudizio da smontare è, in conseguenza, quello che concerne la modalità di studio “che gli studiosi di filosofia si sogliono dare e che consiste nel frugare quasi esclusivamente i libri dei filosofi, anzi dei filosofi ‘in generale’, dei sistematori della metafisica: così come il dotto in teologia si formava sui sacri testi”.

6) Ne consegue infine che bisogna abbattere l’ultimo pregiudizio, quello concernente la forma espositiva della filosofia, che, secondo la vecchia concezione, deve avere “ora la forma architettonica, quasi di un tempio consacrato all’Eterno, ora quella calorosa e poetica, quasi di un inno o salmo cantato all’Eterno”. Passare dal “sistema” al filosofare come metodologia del pensare in atto da una parte e pensare in atto tout court dall’altra, significa privilegiare le forme della discussione, della polemica, del saggio, persino dell’articolo in atto (anche secondo l’idea collingwoodiana della logica della domanda e risposta). Croce era ben consapevole del fatto che quella che egli proponeva era una tranquilla “rivoluzione filosofica”.

Quindi, seguendo la traccia di Croce, ma gli esempi potrebbero essere tanti altri, possiamo dire che il pensiero, terminata l’età della Metafisica, non può che porsi come pensiero del reale: pensiero di contenuti immanenti e non trascendenti, come possono esseri quelli concernenti Dio o l’Essere. Ogni contenuto, nel momento in cui è pensato, è filosofico. Anche se, in un ulteriore senso, filosofico in senso stretto è, per così dire, quel pensiero che ha per contenuto le strutture formali del pensare stesso, il pensiero nella sua attività. Tutto è degno di essere o farsi filosofia, senza distinzione di alto o basso, di “colto” o “popolare”: ciò che lo qualifica come filosofico non è null’altro che il fatto di essere pensato con rigore e coerenza. Fare quindi filosofia della cultura popolare, del pop, è legittimo e doveroso. A maggior ragione oggi che questa cultura forgia il mondo e l’esperienza in somma parte. Un pensiero che non pensi il reale, e quindi anche il quotidiano, semplicemente non sarebbe pensiero ma astrazione metafisica.

Però, per un’ottica come quella crociana a cui io mi richiamo, “popsophia” è termine che può essere inteso solo e propriamente come “sophia del pop”. Ed è una distinzione importante. Se si fa della stessa cultura pop una filosofia, casomai insistendo sul carattere attivo o performativo che dovrebbe avere la filosofia, si compie una commistione che è sicuramente portatrice di esiti non piacevoli. A considerar bene, nemmeno per la stessa attività cultural-popolare che, essendo una forma artistica, ha necessità di estrinsecarsi in piena o totale libertà: senza limiti o briglie “filosofiche”.

La popsophia come sophia del pop, a ben vedere, per come concepisco io le cose, finisce per essere non una modalità fra le tante del fare filosofia, ma l’unica che possa avere un senso se ci si colloca in una dimensione postmetafisica. In tale ordine di discorso, la popsophia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo del filosofare: la libertà. Che, nel Novecento, si è come offuscato per un processo che potremmo definire di “tradimento dei chierici”. La filosofia si è asservita al potere, contravvenendo al suo spirito profondo di attività che non rassicura ma inquieta, che non asseconda il potere ma ne mette in luce i limiti e le contraddizioni, che non costruisce edifici veritativi o sistemi politici ma ne mette in evidenza le contraddizioni quando qualcuno pretende di mettere mano a essi. La filosofia dà un senso al mondo e un orientamento a esso, ma il mondo si costruisce poi in assoluta libertà. Commerciando con quegli enti (ed eventi) che un tempo venivano visti come l’ambito dell’impuro, dell’imperfetto e del precario, ma che oggi, proprio per le considerazioni qui fatte, vengono finalmente riconsiderati in tutta la loro ricchezza possibilità umane.

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