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Modernizzare stanca

di Marino Badiale

380 wpm hiresCredo sia opportuno iniziare a discutere un atteggiamento mentale che mi sembra abbastanza diffuso nel piccolo mondo anticapitalistico del nostro paese. È un complesso di idee del quale sarebbe molto interessante ricostruire la storia, che risale probabilmente a fine Ottocento ed è legata, io penso, al modo in cui nel nostro paese è nata e si è sviluppata la moderna impresa capitalistica. Per farla breve, si tratta dell'idea che il nostro sia un paese arretrato, che il nostro capitalismo sia un capitalismo di second'ordine, inadeguato, straccione, e che, di conseguenza, il compito principale delle forze antagonistiche sia quello di modernizzare il paese e di correggere il suo capitalismo favorendone la trasformazione secondo il modello del capitalismo dei paesi “civili” e “avanzati”.

Sono convinto che la necessità di “modernizzare l'Italia” sia stata una delle principali idee-forza della sinistra nel nostro paese, e in particolare abbia rappresentato il fondamento reale del radicamento e del successo del Partito Comunista Italiano in una parte significativa dei ceti dominanti e degli intellettuali.

Sono anche convinto che questa idea-forza sia oggi una palla al piede di ogni tentativo di politica antisistemica. Gli argomenti per questa tesi li ho esposti in un saggio scritto assieme a Bontempelli (adesso contenuto in “La sfida politica della decrescita”).

In sostanza, la tesi in esso sviluppata è che oggi sviluppo, modernizzazione e progresso, almeno come sono declinati dalla totalità del mainstream informativo, sono valori interni a un capitalismo profondamente distruttivo e nella sostanza regressivo.

Ma non voglio adesso approfondire queste tesi, per le quali rimando al saggio citato. Voglio piuttosto far vedere come l'idea dell'Italia come paese arretrato, e della conseguente necessità della sua modernizzazione, stia sullo sfondo in molti dei dibattiti cui assistiamo, e renda più deboli le posizioni critiche verso l'attuale organizzazione economica e sociale. Sono molti gli esempi possibili, ma per evitare di fare discorsi dispersivi mi concentrerò su un dibattito di qualche tempo fa. Si tratta di una discussione fra Michele Boldrin ed Emiliano Brancaccio, pubblicata su Micromega nel numero 8 del 2010 e relativa alle vicende FIAT e alle richieste di Marchionne nei confronti dei sindacati, con lo scontro che ne seguì con la FIOM. Faccio riferimento al testo completo pubblicato sulla rivista, in rete ho trovato solo delle versioni ridotte. Penso che i lettori si possano immaginare le posizioni dei due interlocutori: Boldrin difende le scelte di Marchionne e attacca le eccessive rigidità nel mercato del lavoro italiano, Brancaccio sostiene la posizione opposta. E penso che i lettori di questo blog possano immaginare come io mi senta completamente “dalla parte” di Brancaccio, sul piano intellettuale, teorico, e vorrei dire anche sul piano umano.

Eppure c'è un punto rispetto al quale mi sembra che Boldrin non abbia tutti i torti e Brancaccio sia costretto a sostenere una posizione debole. Si tratta proprio del tema di questo post. Discutendo dei problemi del capitalismo italiano nella competizione internazionale, Brancaccio dà infatti una spiegazione di tipo politico. Il cuore del suo argomento sta nella constatazione dell'arretratezza del capitalismo italiano rispetto ai processi di centralizzazione dei capitali, così importanti nel capitalismo attuale. In questo dibattito Brancaccio si concentra soprattutto sulle piccole dimensioni delle imprese italiane e sul convincimento, diffuso nella pubblicistica

“secondo cui le piccole dimensioni d'impresa costituirebbero un fattore virtuoso, in grado di garantire alle imprese italiane la flessibilità necessaria per competere sui mercati e per reagire meglio a eventuali contraccolpi esterni. Questi ragionamenti sono anche serviti a fornire una giustificazione -una “copertura ideologica”, potremmo dire- per tutti coloro che da questo capitalismo nazionale polverizzato e frazionato sono riusciti a lucrare ampi margini di consenso, magari con l'aiuto di qualche strizzatina d'occhio nei confronti dell'evasione fiscale, del sommerso e di altri fenomeni opachi che tipicamente contraddistinguono il nostro tessuto produttivo.
(…)
L'assoluta prevalenza nazionale delle piccole dimensioni d'impresa costituisce anche il frutto di una particolare linea di indirizzo politico. Quando si fa un certo tipo di politica della tassazione, quando si chiude un occhio -e talvolta pure tutti e due- sull'evasione fiscale, quando si porta avanti una politica pluriennale di compressione dei salari e di smantellamento della regolamentazione del mercato del lavoro, è chiaro che si incide in modo significativo sull'evoluzione del tessuto produttivo e sul grado di organizzazione e di centralizzazione dei capitali. In molti casi si sono fatti sopravvivere pezzi di capitalismo inefficienti a colpi di prebende fiscali, demolizione del sindacato, illegalità diffusa. Una politica economica alternativa, tesa a guidare il processo di riorganizzazione dei capitali, avrebbe attivato meccanismi evolutivi ben diversi.”

In sostanza, ci dice Brancaccio, abbiamo da una parte un capitalismo arretrato e polverizzato che, incapace di competere sul piano della produttività e dell'innovazione, gioca la sua partita sul ribasso dei salari e sull'evasione fiscale, dall'altra un ceto politico che esprime le esigenze di questo capitalismo formando con esso una parte essenziale del ceto dominante.

Perché questa interpretazione della situazione attuale mi sembra debole? Il punto è che il ceto dominante italiano non è certo troppo cambiato in tutto il dopoguerra. Non c'è stata nessuna rivoluzione che abbia abbattuto una classe dominante per sostituirla con un'altra. In tutto il secondo dopoguerra il ceto politico al governo è stato espressione di un particolare compromesso fra frazioni diverse della borghesia, e fra di esse figurava anche (non solamente) quella piccola e media impresa nella quale Brancaccio sembra indicare uno dei fattori di arretratezza del paese. Ma nonostante questo, per i primi trent'anni del dopoguerra, in Italia abbiamo avuto lo sviluppo di grandi imprese, abbiamo avuto innovazione tecnologica, abbiamo avuto capacità di competere sul piano internazionale. Cos'è poi successo, a partire dalla fine degli anni Settanta? E' qui, ripeto, che la spiegazione di Brancaccio mi sembra poco convincente: non c'è stato un cambiamento del ceto dirigente né del blocco sociale che lo esprimeva. E allora non si capisce come mai lo stesso blocco sociale riesce prima ad esprimere un certo tipo di capitalismo e poi un tipo opposto, con tutti i difetti che Brancaccio giustamente addita. A me sembra evidente che la spiegazione vada cercata in un generale cambiamento della forma di organizzazione del capitalismo sul piano mondiale, cioè nel passaggio dal capitalismo “fordista-keynesiano” del “trentennio dorato” all'attuale capitalismo “neoliberista” e “globalizzato”. L'ipotesi che sto sostenendo è che, in quel passaggio, il capitalismo italiano si sia trovato nell'impossibilità di proseguire nel sentiero di sviluppo fino a quel momento seguito con successo, e abbia iniziato un processo regressivo. 

Per spiegare meglio il punto, conviene partire da un passaggio polemico di Boldrin, nel corso della stessa discussione:

“Se si vogliono dare consigli alla Fiat su come fare meglio il proprio lavoro, sarebbe appropriato insegnare alla Fiat come essere più innovatrice, più competitiva e quindi più forte sul mercato mondiale, perchè solo così potrebbe creare occupazione ad alto valore aggiunto. Se qualcuno sa migliorare il piano industriale della Fiat, be', si faccia avanti e lo dimostri!”

Boldrin è sgradevolmente polemico, ma credo che colga un punto importante: in effetti molto spesso in Italia i critici radicali del capitalismo sembrano voler dare consigli ai capitalisti su come fare meglio il loro lavoro. Se togliamo alle parole di Boldrin il loro alone polemico, ne resta un nocciolo razionale, che è il seguente: secondo quel tipo di anticapitalisti, esiste in Italia la possibilità di un capitalismo che riesca a conciliare diritti dei lavoratori e competitività internazionale, e per ottenerlo bisognerebbe seguire le loro indicazioni. Ma se è così, perché i capitalisti italiani non li ascoltano e non perseguono questo capitalismo migliore e più avanzato? Se si possono fare profitti evitando di litigare con la FIOM, perché non lo dovrebbero fare? E per riprendere quanto detto prima sugli anni Settanta, se c'era in quel momento in Italia la possibilità di continuare nel quadro del capitalismo del  “trentennio dorato” (con le sue grandi imprese, l'intervento pubblico, la capacità di innovazione), perché mai i ceti dirigenti avrebbero dovuto rifiutare questa possibilità? Visto che essi si erano formati appunto all'interno di quel quadro, e in esso avevano ottenuto successi e consenso?

Ho l'impressione che, all'interno dello schema mentale che organizza le tesi che stiamo discutendo, l'unica risposta possibile a queste domande stia in una versione di quell'auto-razzismo degli italiani che tante volte abbiamo criticato in questo blog. Stia cioè nel pensiero, magari inconscio, che siamo un popolo inferiore, nemmeno capace di un capitalismo serio. È probabile che Brancaccio e gli altri sostenitori di simili tesi rifiuterebbero una tale deduzione, e questo mi sembra possa favorire la discussione. Infatti, se si rifiuta la tesi auto-razzistica, restano inevase le domande sopra poste: perché mai i ceti dominanti del capitalismo italiano dovrebbero rifiutare ora la possibilità di far profitti rispettando i diritti dei lavoratori, se tale possibilità esiste? Perché avrebbero dovuto farlo in passato?

A me sembra che l'unico modo di risolvere queste difficoltà è ammettere che probabilmente, nella situazione data, dell'Italia e del mondo, per il capitalismo italiano non c'è possibilità ora di fare diversamente, e non c'era negli anni Settanta. Per essere più preciso, penso che si possano formulare la seguenti ipotesi:

Ipotesi n.1: il capitalismo italiano assume fin dalla sua nascita una forma particolare, che lo differenzia dal capitalismo classico (inglese), per varie ragioni legate alla storia del paese e al ritardo della sua industrializzazione. In particolare, il capitalismo italiano è fin dalla nascita fortemente intrecciato all'apparato statale;

Ipotesi n.2: le particolari caratteristiche del capitalismo italiano si adattavano molto bene alla fase “keynesiano-fordista” del capitalismo del “trentennio dorato”. In tale fase quindi il capitalismo italiano riesce a crescere e ad essere innovativo e competitivo;

Ipotesi n.3: al contrario, le particolari caratteristiche del capitalismo italiano non si adattavano alla fase successiva “neoliberista-globalizzata” del capitalismo. Ma era impossibile un cambiamento radicale dell'economia e della società italiane per adattarle alla nuova situazione. I gruppi dominanti della politica e dell'economia hanno allora risposto nel modo descritto da Brancaccio, che ha comportato una sostanziale marginalizzazione del capitalismo italiano nel quadro mondiale.

Si tratta di ipotesi che andrebbero verificate da un approfondito lavoro di ricerca nella storia economica, sociale e politica del nostro paese. Se proviamo ad assumerle momentaneamente come assodate, possiamo trarne la seguente conseguenza: nell'attuale organizzazione del capitalismo mondiale non possiamo sperare una salvezza per il nostro paese. Per difendere i ceti popolari e la civiltà sociale del nostro paese, sembra cioè necessario pensare a forme, all'altezza dei tempi, di superamento del capitalismo. Come ho indicato più volte, ritengo che la proposta della decrescita possa essere una idea in questa direzione.

PS “Modernizzare stanca” è  rubato al titolo di un libro di Franco Cassano, che affronta temi simili da un punto di vista filosofico e antropologico.

PPS Ringrazio Emiliano Brancaccio che mi ha cortesemente fornito il testo integrale della discussione con Boldrin.

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