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Tecnica e decisione

di Walter Tocci

egon-schieleDa ogni parte si leva sempre più ossessiva la richiesta della Decisione. Dalle chiacchiere da bar ai luccicanti talk-show, dalle assemblee elettive ai think-tank, dai summit delle diplomazie ai forum dei poteri economici. Più se ne invoca la presenza più se ne constata l’assenza. Eppure, il trionfo della tecnica mette a disposizione conoscenze e strumenti mai visti prima che dovrebbero creare le migliori condizioni per prendere decisioni.

Il trentennio liberista è cominciato proprio in polemica con la presunta irresolutezza delle istituzioni del trentennio Glorioso. Fin dalla Trilaterale la causa venne attribuita al sovraccarico di domande che bloccava le democrazie occidentali e si è proceduto a restringere la rappresentanza sociale per delegare alle oligarchie burocratiche ed economiche le soluzioni dei problemi1. Tuttavia all’esaurimento del ciclo si è rivelata clamorosamente l’incertezza delle classi dirigenti nel governare la grande Crisi. Gli americani sono stati col fiato sospeso per il rischio di bancarotta del Fiscal Cliff. Gli europei hanno messo in pericolo l’euro per non aver saputo risolvere il problema davvero modesto del debito greco.

Non è bastato alleggerire il “sovraccarico della democrazia” per risolvere il problema del governo di società complesse. Perciò la Decisione viene invocata di nuovo con la stessa intensità degli anni settanta, quando maturò la crisi del modello keynesiano. Ma la delusione è oggi più grande proprio perché la promessa era nel cuore del liberismo.

Lo smacco alimenta il rancore ma non toglie lo scettro a quelli che hanno preso il potere. Annunciano riforme e le chiamano “strutturali” per accentuare la profondità del mutamento, ma in realtà esse servono a omologare i sistemi politici sempre più simili a piloti automatici che seguono un manuale di governo standardizzato a livello sovranazionale. Dal punto di vista dei cittadini tutto ciò esaspera la contraddizione tra le parole e i fatti e aumenta la domanda di un vero cambiamento che, non potendo essere soddisfatto dagli automatismi, viene evocato dall’annuncio di nuove riforme. L’opinione pubblica è come una carovana nel deserto che cerca la frescura di vere decisioni, ma rimane vittima di miraggi che una volta svelati aggravano la delusione. Tutto sembra deciso nella penuria della Decisione.

Questi miraggi non sono solo dell’inganno liberista, ma in una certa misura rivelano un’instabilità che è essenziale alla Decisione, la quale non può essere confusa con una determinazione logica tra alternative predefinite. Anzi, questa è precisamente la situazione della non-Decisione, quando tutto è in mano al pilota automatico. L’atto creativo si rivela proprio nel momento di sospensione della sequenza prevista. La Decisione si afferma contro la non-Decisione in una lotta rischiosa che si svolge sull’orlo dell’abisso, dove viene a mancare la terra solida della normatività. Ma il combattimento può concludersi anche con la rovina di entrambi i contendenti nella valle del nulla di fatto. L’instabilità è intrinseca a una dialettica tra presenza e assenza che non disponendo di una sintesi può sempre risolversi nella conservazione dello status quo. Del carattere ineffabile della Decisione Martin Heidegger è maestro: «La parola decisione, insidiosa e già quasi consunta, viene oggi adoperata particolarmente volentieri dove tutto da tempo è deciso o viene ritenuto deciso»2. Scrive queste parole nella sua lotta intellettuale con la volontà di potenza di Nietzsche, proprio negli anni trenta, quando il mondo era ancora lacerato da scelte fondamentali.

Era già in incubazione il trionfo della tecnica che poi ha caratterizzato il secolo fino ai vertici attuali. Ne dovrebbero scaturire strumenti più efficaci per il governo. Eppure, si ha la sensazione opposta di un crescente squilibrio tra potenza e potere3. A una smisurata capacità di trasformare il mondo corrisponde una debolezza nel regolare i processi del mutamento. Il trionfo ha inorgoglito la tecnica a tal punto che tende a dimenticare quanto la propria ricchezza derivi dai doni elargiti generosamente dalla conoscenza. Da ciò viene una sorta di ingratitudine dei sistemi tecnocratici che non riservano la medesima generosità verso i saperi, ma privilegiano quelli funzionali al dominio dell’utilità.

La scienza economica è ridotta dagli organismi internazionali a tecnologia della decisione obbligata ovvero alla non-Decisione pianificata. Il governo dei flussi finanziari ha accumulato un vantaggio cognitivo rispetto ai poteri di regolazione. I brevetti e i monopoli mettono trappole per catturare la linfa della conoscenza. La libertà della rete è sempre più in conflitto con pervasivi sistemi di controllo. Gli oggetti di consumo nascondono il segreto del proprio funzionamento mentre si propongono user-friendly. La ricerca tende ad essere finalizzata al rendimento economico, sottovalutando tutti i fenomeni di “serendipity”. Le istituzioni della conoscenza vengono sottomesse a eteronomi paradigmi aziendalistici e burocratici. Le scienze umanistiche sono svalutate secondo malintesi criteri utilitaristici. La valutazione della ricerca è dominata da criteri che favoriscono gli argomenti mainstream e i rapporti di forza tra discipline.

Tutto ciò trova alimento in una mutazione più profonda delle relazioni tra tecnica e conoscenza. Dalla rivoluzione del Seicento in avanti la scienza moderna ha sempre mantenuto un primato sulla ricerca applicata anche se non sono mai mancati i feedback dalla pratica alla teoria. Con l’avvento delle tecno-scienze della materia, dell’informazione e della vita il dispositivo diventa più performativo. L’oggetto non è esterno al soggetto ma costruito artificialmente nella relazione cognitiva. Il confine tra invenzione e scoperta è sempre più labile. C’è una teleologia dell’utilità, seppure dissimulata, nella dimensione artificiale delle tecno-scienze4 .

Nell’alleanza col potere la tecnica tende a insignorirsi, basta a se stessa e non sente il bisogno di ricostituire le sorgenti della propria fortuna. Le strutture tecnocratiche colgono i frutti ma inaridiscono la linfa del cambiamento.

Nei momenti di grande trasformazione l’impeto prevale sulla saggezza creando uno squilibrio permanente. Quindi, non solo per un’intrinseca instabilità, ma anche per un carattere dell’epoca è sempre più difficile prendere una Decisione, e anzi è più probabile che sia la non-Decisione a prendere noi e a debilitare la nostra volontà di cambiare il corso delle cose.

Contro l’ineffabilità del concetto bisogna mettere in luce i conflitti che lo attraversano nelle dimensioni fondamentali: la forma, la razionalità e la durata.

 

1. La forma della Decisione

Nell’opera di Heidegger degli anni trenta c’è uno slittamento del significato della Decisione. Viene meno la parola Entschlossenheit che in Essere e tempo assumeva il significato di apertura e la tonalità del fruscio di un velo che cade. Si tratta di una sua tipica forzatura etimologica volta a risvegliare il senso arcaico che il termine avrebbe avuto prima che si affermasse l’uso moderno, soprattutto in ambito giuridico, di sigillo della scelta5 .

Invece, nella parola che subentra nel discorso per il rettorato, la Entscheidung, sia il significato sia la sonorità rinviano alla spada che taglia. Nella divisione appare una verità che si libera dall’irrigidimento metafisico.

Questa forma lacerante ha preso il sopravvento nella nostra epoca anche appoggiandosi al mito più antico dell’atto che recide il nodo gordiano. La spada che taglia è diventata l’immagine del governo forte in grado di imporre la propria volontà eliminando gli ostacoli sociali e ideologici. Di solito viene acclamato come portatore di una semplificazione, ma in realtà produce un surplus di normatività. Nel tagliare, infatti, si opera una riduzione di complessità che porta a normalizzare i fenomeni secondo una funzionalità tecnica. Proprio la cancellazione delle soggettività sociali e della pluralità delle opzioni costringe la rappresentazione della realtà entro gli schemi e i protocolli del decisore. Quanto più le scelte sono spoliticizzate tanto più hanno bisogno di procedure.

La normalizzazione utilizza parametri misurabili che sostituiscono il confronto tra i contenuti delle politiche pubbliche. Gli algoritmi di controllo delle soglie quantitative si tramutano in apparati normativi che nascondono la discrezionalità delle scelte dietro una presunta razionalità tecnica. Non c’è niente di più mistificatorio di un numero se non è appropriato il modo in cui viene calcolato. La Commissione UE stima il deficit strutturale dei paesi secondo criteri discutibili che però danno luogo a sanzioni indiscutibili6. Alcuni professori universitari che discutono la sera a cena possono concordare quali siano i migliori dipartimenti, ma la pretesa di una valutazione oggettiva conduce alle pesanti procedure di controllo ANVUR e AVA. In generale, la diffusione del New Public Management che prometteva di applicare le regole di mercato all’amministrazione si è risolta, soprattutto in Italia, in un aumento della burocrazia.

L’innovazione tecnologica coniugata all’ampliamento dei mercati au-menta la necessità di istituire standard e agenzie che assicurino la concorrenza in condizioni sempre più mutevoli. Con la globalizzazione si diffondono i centri di produzione delle regole, creati non solo dalle autorità statali ma soprattutto da attività contrattuali tra soggetti pubblici e privati. Infine, l’indebolimento dei legami sociali è surrogato da un controllo più diretto sugli individui e perfino sui loro corpi, come ha dimostrato la letteratura della biopolitica. La nostra vita quotidiana è sicuramente molto più regolamentata di trenta anni fa7. Non si dovrebbe credere alla propaganda liberista della deregulation perché mostra solo un lato della medaglia. Certo, si è cancellata gran parte della vecchia regolazione pubblica, anche in virtù dei suoi fallimenti, ma per fare spazio ad una diversa e non meno pervasiva normativizzazione della vita collettiva. Proprio perché è un ordine politico il liberismo mantiene il comando anche quando le sue promesse economiche sono smentite dalla Crisi.

A questi esiti della Entscheidung si contrappone la Entschlossenheit, ovvero l’apertura della decisione che svela una realtà ancora sconosciuta. La sua forma è generativa e non normativa. Corrisponde all’immagine del-la rosa che sboccia. Rilke ne parla come la «contraddizione pura, piacere d’essere il sonno di nessuno sotto tante palpebre»8 .

Nello sbocciare la rosa attuale annuncia il suo non essere più la rosa di prima, è appunto una contraddizione pura tra ciò che si svela e ciò che viene abbandonato. È la Decisione che vince la lotta rischiosa contro la non-Decisione. Al contrario nella Entscheidung il cambiamento è frutto di una riduzione non contraddittoria della condizione precedente. È la Decisione che agita la spada del mutamento radicale mentre conserva la logica della non-Decisione, senza generare una nuova realtà.

Tra queste due forme è possibile, secondo la lezione schumpeteriana che tanto ha influenzato l’epoca, il sincretismo della distruzione generativa. È stata la giustificazione ideologica di tutti i tagli operati nelle strutture pubbliche, ma di creatività se n’è vista poca.

Al contrario, la Decisione generativa è critica e superamento della Decisione che taglia, e di questo noi italiani dovremmo essere maestri. Le cose migliori della storia nazionale sono venute quando i riformatori politici hanno aiutato altri riformatori che nella società già stavano realizzando qualcosa di nuovo. La Seconda Repubblica è fallita per una sorta di ossessione davvero anti-italiana a verticalizzare il sistema politico-istituzionale.

Da venti anni nella scuola si fanno riforme dall’alto che hanno prodotto solo un’alluvione burocratica. Negli anni settanta le sperimentazioni di Don Milani, Mario Lodi, Bruno Ciari crearono una nuova cultura didattica per i giovani insegnanti, si diffusero le buone pratiche, le amministrazioni locali le sostennero, i partiti ne fecero un obiettivo nazionale. Solo a posteriori arrivarono le norme per generalizzare l’innovazione generata nel corpo sociale. Anche in campo economico, il miracolo italiano dei distretti è il risultato di riformatori che hanno aiutato altri riformatori a fare meglio, di governi che hanno creato un ambiente favorevole al cambiamento, di strutture politiche che hanno messo in connessione gli attori. Il mito anglosassone della decisione che taglia ha oscurato questo Italian way dell’innovazione9. Per riportarlo alla luce occorre una meta-Decisione, una sorta di Entschlossenheit della Decisione generativa.

 

2. La razionalità della Decisione

In Europa si diffonde la tendenza di molti esponenti politici a forzare le regole per venire incontro al malessere sociale dei rispettivi Paesi. Tali propositi vengono catalogati come autentiche follie dalle vestali dell’austerità. D’altro canto anche i parametri di Maastricht sono stupidi, come ebbe a definirli il presidente della Commissione Romano Prodi.

L’indirizzo europeo è quindi conteso tra la follia di rompere le regole e la follia delle regole stesse. Questa doppia irrazionalità impedisce qualsiasi alternativa politica, è la non-Decisione come ordine politico. Gli americani votando i repubblicani o i democratici compiono consapevolmente due scelte diverse di politica economica. Noi votiamo destra o sinistra ma la politica europea è sempre la stessa.

Le classi dirigenti incapaci di convincere i cittadini ricorrono al pilota automatico per rendere indiscutibili le scelte di governo. Ma tutto ciò aggrava la frattura tra elites e popolo lasciando spazio ai politici che promettono l’impossibile. L’Italia ha risposto alla Crisi affidando il governo a quattro leader “eccezionali”, due a favore della logica di sistema (Monti e Letta) e due dalla parte del malessere che essa determina (Renzi e Berlusconi). Il caso italiano è il laboratorio che anticipa le tendenze ancora latenti in Europa. Le chiamiamo tecnocrazia e populismo utilizzando parole ormai banalizzate dall’uso mediatico. Per cogliere la mutazione della razionalità decisionale bisogna chiedere aiuto alla grande letteratura.

Italo Calvino racconta nel Cavaliere inesistente le gesta di Agilulfo, l’armatura vuota che rappresenta una normatività astratta e senza vita, come quella del pilota automatico. È accompagnato da Gurdulù, lo scudiero che si butta nella vasca dei pesci per diventare come i pesci, si butta nella zuppa per diventare una zuppa, cioè che aderisce alla realtà senza mediazioni, proprio come il vitalismo populista dà voce al rancore, ma anche come i movimenti radicali “praticano l’obiettivo”. Il cavaliere e lo scudiero non potrebbero mai separarsi. E così la tecnocrazia ha bisogno del populismo e viceversa. Le vere riforme sono impopolari e mostrano di essere efficaci solo se suscitano la protesta, era il mantra di Mario Monti. Al contrario, sono proprio quelle pseudo riforme ad alimentare i serbatoi di disagio cui attingono i demagoghi di tutte le fedi.

Solo quando una follia scaccerà l’altra strappandole una parte di verità si approderà a una nuova razionalità. Chi vuole rappresentare il malessere deve proporre nuove regole. Le classi dirigenti devono prendere coscienza che la gabbia di Maastricht soffoca la crescita europea e acuisce le divisioni tra Nord e Sud.

Queste pur benemerite risposte politiche, però, non sarebbero sufficienti. Lo squilibrio tra potenza e potere rende instabile e incerto il contenuto, cioè il che cosa della Decisione. Lo si vede nella difficoltà di governare il cambiamento climatico, di contenere il primato della finanza sull’economia reale, di condividere le norme sulla bioetica e su tante altre questioni contemporanee.

D’altro canto, la frantumazione sociale dei lavori e delle produzioni, l’indebolimento della sovranità statale a vantaggio di identità esclusive, una certa granulosità antropologica della vita postmoderna, tutta questa eterogeneità dei soggetti rende problematico il chi della Decisione.

Nella Decisione novecentesca il che cosa e il chi erano molto più stabili e convergevano in una relazione forte: il governo del progresso tecnico favoriva l’aumento di produttività e creava i margini per realizzare il welfare garantendo la coesione sociale. Oggi, invece, i due termini tendono a separarsi, ma in questo movimento si impoveriscono e si irrigidiscono. La potenza cognitiva che si allontana dalla diversità dei soggetti riduce il che cosa a una mera soluzione tecnica. La rinuncia alla rielaborazione cognitiva della domanda sociale riduce la molteplicità del chi all’immaginario populista che agglutina l’eterogeneità sociale oppure con la vecchia modalità dello scambio corporativo che offre a ciascuno quanto si aspetta. Entrambi questi strumenti sono stati usati dal berlusconismo nel ventennio passato ma non era solo un’arretratezza italiana. Nuovi immaginari e nuovi interessi erano prodotti da un certo costruttivismo sociale del neoliberismo. Dai think tank che hanno progettato la rivoluzione reaganiana, fino alle narrazioni tecnocratiche e populistiche nella crisi attuale la destra ha sempre saputo fare società con la politica. Semmai, l’anomalia è da ricer-care nella debolezza o addirittura nel rifiuto della sinistra di costruire un frame che consenta ai cittadini di farsi un’idea del mondo e di riconoscersi in una domanda di cambiamento.

Se l’attuale ordine politico è fondato sulla separazione, la via d’uscita è nella connessione. È la Decisione che mette in risonanza la crescita della conoscenza e la molteplicità dei soggetti. Fabrizio Barca la chiama “mobilitazione cognitiva”10, con un’espressione che non piace a Giacomo Marramao, ma potremmo semplicemente chiamarla “creatività sociale”. La nuova razionalità della Decisione deve prima di tutto riconciliare il chi e il che cosa.

 

3. La durata della decisione

La non-Decisione non è solo il fallimento ma anche la condizione di possibilità della Decisione. Il nulla di fatto è certamente il segno di una sconfitta del politico, ma egli riuscirà nel suo scopo solo quando rischierà di non realizzarlo. Le scelte vere non sono mai scritte su un foglio bianco, ma si inverano in un contrasto con la realtà, in una tensione tra ciò che si vuole affermare e ciò che si vuole trattenere o impedire. Come nella lotta notturna di Giacobbe con l’Angelo, ovvero con lo sconosciuto innominabile, che si conclude all’alba con il riconoscimento di una missione per il popolo di Israele. C’è sempre una forza di contenimento che contribuisce invisibilmente alla rivelazione di una libertà.

Questo tributo al negativo che si paga nell’affermazione dei diritti emerge nei principi costituzionali rappresentati, secondo la formulazione di Luigi Ferrajoli, come ciò che non si può decidere e ciò che non si può non decidere11. Sono le condizioni di possibilità della legge mirabilmente scritte nei due commi dell’articolo 3 che vide protagonista Lelio Basso.

Le condizioni postulano un doppio garantismo: il primo comma preserva la dignità umana vietando qualsiasi discriminazione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; il secondo comma – È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli… − indica al legislatore ciò che non può non assumere come suprema responsabilità.

Quando la Decisione fugge la lotta notturna con l’Angelo, quando cioè si allontana dalla tensione creativa della propria negazione, ha la sensazione di poter dominare da sola il campo politico. Ma questa volontà di potenza è minata dalla viltà del mancato combattimento, la quale lascia nell’animo della Decisione l’incubo della non-Decisione. Per allontanare lo spettro allora diventa urgente decidere in fretta, anche a discapito della qualità. Approvare rapidamente tante leggi a prescindere dai contenuti è ritenuto un carattere vincente del politico di turno. È il futurismo legislativo in voga nel nostro paese che alimenta un’imponente produzione normativa12, riscrivendo ogni anno, senza alcun miglioramento, le regole in campi decisivi come il fisco, la giustizia, l’istruzione, il lavoro, la pubblica amministrazione. Il rifiuto e anzi il disprezzo di qualsiasi forma di contenimento fa scivolare il legislatore nell’ipernormativismo, come un improvvido pattinatore che in mancanza di attrito perde il controllo del passo. Aveva ragione Luigi Einaudi nel raccomandare la lentezza parlamentare come virtù che trattiene la produzione normativa e aiuta le scelte più meditate con poche leggi di alta qualità.

Per il ceto politico ormai la legislazione non è più uno strumento ma diventa metafora del cambiamento. Non avendo la forza né la volontà di governare la trasformazione della società si autorappresenta nelle riforme istituzionali. L’argomento, infatti, non costa nulla, ha il pregio di non impensierire i vincoli di bilancio, ma nel contempo esprime una forza simbolica capace di far credere ai cittadini che si vuole un cambiamento radicale.

La Seconda Repubblica è fallita perché i due poli non hanno mantenuto le rispettive promesse. La destra non ha compiuto la rivoluzione liberista e la sinistra non ha realizzato le riforme sociali. Entrambe hanno allontanato da sé lo spettro di queste non-Decisioni, attribuendolo alle Istituzioni. Nel tentativo di rimuovere l’origine dell’incubo, che è nella viltà di aver abbandonato la lotta rischiosa di un vero progetto sociale, il politico compie un transfert della propria impotenza decisionale facendone una colpa a carico dello Stato. I governanti a tutti i livelli, dal presidente del Consiglio all’ultimo consigliere municipale, ripetono sempre che vorrebbero realizzare tante cose ma sono impediti dalle disfunzioni istituzionali. Per risolvere il problema da venti anni si propongono riforme costituzionali che poi si rivelano fallimentari.

La sinistra ha modificato il Titolo V per inseguire Bossi, ha introdotto lo jus sanguinis del voto all’estero seguendo la retorica della pacificazione di Fini, ha sigillato il pareggio di bilancio per dare retta a Monti e oggi chiede la deroga in Europa, ha riscritto la procedura del 138 per legittimare le larghe intese fino a quando sono spirate. La destra è stata più brutale ma anche inconcludente, dalle proposte di legge di Tremonti per cancellare gli articoli 41 e 42 sulla responsabilità sociale dell’impresa naufragate insieme al proponente alla grande riscrittura della seconda parte pensata dai costituenti della baita di Lorenzago e fortunatamente bocciata dai cittadini col referendum del 2006.

Invece di riflettere sulle cause di tutti questi fallimenti l’ossessione prosegue col nuovo governo che cerca di portare a compimento tutti gli errori del ventennio. Essi hanno un filo comune nel tentativo di modificare l’assetto istituzionale per finalità politiche contingenti, e ancor di più nel ricorso ad una sorta di robotica istituzionale per rendere automatiche le scelte che non sgorgano più dalla vitalità degli organismi politici. Ma l’artificialità dell’obiettivo si ripercuote sullo strumento che dovrebbe perseguirlo. La saggezza del sapere costituzionale degrada a mera tecnica del procedimento e fallisce la possibilità di scrivere le regole della Decisione.

Non tutte le generazioni sono capaci di contribuire a scrivere la Carta. La nostra generazione è inadeguata al compito perché non sa ascoltare quelle precedenti e non ha nulla da dire alle successive, è troppo presa dall’autismo del presente, troppo impegnata in un futurismo legislativo che deforma il futuro e ignora il passato. È il tempo della Decisione senza durata, che vorrebbe correre con la velocità della tecnica mentre pesta i piedi nel mortaio, che disprezza ogni contenimento ma si smarrisce senza una meta, che fugge dal buco nero dell’in-Decisione senza poter uscire dal suo campo gravitazionale.

La durata è il contributo più prezioso che la politica riesce a dare quando produce un avanzamento di cui non può fare a meno chi viene dopo. Ciò avviene soprattutto migliorando la Costituzione, che quindi non solo è possibile ma è anche l’occasione per la politica di decidere nella dimensione più alta. Revisionare la Carta è come entrare nella cattedrale, inginocchiarsi di fronte all’opera ricevuta in eredità e immaginare il restauro che consegni la ricchezza della forma e del colore all’epoca successiva. Nella durata la Decisione si rivela come un’arte.

 

1. A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 132-43.
2. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 395.
3. G. Ruffolo, Potenza e potere, Laterza, Roma-Bari 1988.
4. R. Cordeschi, La scoperta dell’artificiale, Dunod, Milano 1998, pp. 158-197.
5. «La Entschlossenheit.. non è il semplice atto di decidere da parte di un soggetto, ma è il passaggio dell’Esserci dall’imprigionamento nell’ente all’apertura dell’essere», M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 51-2. L’uso arcaico è attestato nel classico vocabolario dei fratelli Iacob und Wilhelm von Grimm, Deutsches Wörterbuch, Bd. 3, Leipzig 1862. Sullo slittamento del significato rinvio a W. Tocci, Tecnica e conoscenza, in “Equilibri”, n. 3, 2004, Il Mulino, e più autorevolmente a Jean-Luc Nancy, che individua nell’opera heideggeriana una successione lessicale Erschlossenheit – Entschlossenheit – Entscheidung, in L’essere abbandonato, Quodlibet, Macerata 1995, p. 63.
6. M. Bonaccorsi, La cavolata di Bruxelles, in “Left” 19 aprile 2014.
7. P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013.
8. È il verso che lasciò scritto per la sua tomba, in R. M. Rilke, Poesie II, Einaudi, Torino 1995.
9. F. Butera – G. De Michelis, L’Italia che compete. Italian way of doing industry, Franco Angeli, Milano 2011.
10. F. Barca, La Traversata, Feltrinelli, Milano 2013.
11. L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, Il Mulino, Bologna 2013.
12. W. Tocci, Sulle orme del gambero, Donzelli, Roma 2013, pp. 107-12.

 

Tratto dall'ultimo numero della rivista Parolechiave
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