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"Ai tedeschi va detto chiaro. Pronti a far saltare il banco"

Fabio Sebastiani intervista Vladimiro Giacchè*

Al di là di quello che accadrà nella due giorni di supervertice e dell'andamento dei mercati finanziari, sembra che l'unico punto fermo sia l'attacco al lavoro.

L'attacco al lavoro è una costante ovunque, non soltanto nella zona euro. Le politiche di austerity nel Regno Unito hanno lo stesso segno. C'è il tentativo evidente di recuperare profitti giocando sull'abbassamento del costo del lavoro. Non si tratta di una novità: sono gli stessi trattati europei a far sì che la competitività si giochi sulla riduzione delle tasse alle imprese e abbassando la protezione dei lavoratori. Questo non avviene soltanto nella periferia dell'Europa ma nel centro. Per esempio, la Germania è il paese dell’eurozona in cui il costo del lavoro è maggiormente diminuito in termini reali dal '99 in poi. Adesso però c'è l'attacco definitivo con la scusa del debito pubblico. All’attacco ai salari diretti, direttamente provocato dalla crisi (che riduce il potere negoziale dei lavoratori), si aggiunge l’attacco a servizi sociali e pensioni, ossia ai salari indiretti e differiti. Infine, c'è l'attacco alla regolamentazione del lavoro nella forma delle cosiddette “riforme strutturali per far ripartire la crescita”. È un attacco organico e a 360 gradi.


Tutto questo con quali prospettive?


Anche assumendo il punto di vista di chi teorizza e mette in pratica tutto questo, è evidente che la cosa potrebbe funzionare solo se l'Europa si trasformasse in una grande Germania cioè decidesse di puntare tutte le proprie carte sull'esportazione tralasciando la domanda interna.

Ma è assolutamente irrealistico che questo avvenga. Quello che è successo sinora è qualcosa di diverso: i tagli al welfare hanno dato un colpo poderoso alla domanda interna. Con effetti di gravità inaudita: basti pensare al -6% nei consumi di generi alimentari. Assistiamo allo smantellamento del sistema sociale che è stato messo in piedi dalla seconda guerra mondiale. E le conseguenze sono queste.


In tutto questo non sembrano emergere contraddizioni nella borghesia italiana e tra i vari settori economici.


Io credo che le contraddizioni ci siano. C'è un forte disagio in una parte della borghesia italiana, quella che non ha bisogno di terrorizzare i lavoratori abolendo l'articolo 18: altrimenti non si capirebbe la freddezza del presidente di Confindustria Squinzi a questo proposito. C'è molta preoccupazione in giro anche sulla possibile spoliazione del nostro apparato economico e produttivo a causa di quel che sta accadendo. Uno degli atti d'accusa che si possono muovere a questo governo è quello di aver messo in pratica una lettura ideologica della crisi e dei rimedi ad essa: puntando a una risposta basata su meno Stato e più mercato, meno regolamentazione e meno diritti per chi lavora. Questa formula ha due difetti, di essere iniqua e di non funzionare economicamente. Qui però bisogna tener conto che in questa crisi entrano in gioco sia il conflitto tra capitale e lavoro, sia la guerra tra capitali.


Abbiamo passato la paura della guerra mondiale ma non quella del conflitto permanente.


Il problema è che i conflitti sono su più livelli. C’è un conflitto tra capitali residenti in paesi diversi e anche un conflitto tra capitali di uno stesso paese. In Germania ad esempio comincia a serpeggiare la preoccupazione tra gli esportatori. La depressione indotta dalle misure di austerity “anti-crisi” fa diminuire le esportazioni. Ma d’altra parte c’è sicuramente una parte del capitale tedesco che non vede affatto male la possibilità di comprare per pochi soldi subfornitori finiti sul lastrico. O di vincere la competizione con imprese che oggi sono in difficoltà perché per raccogliere capitali devono pagare il 4,5% di più delle loro omologhe tedesche. Una cosa è certa. E credo che lo si debba dire in maniera chiara. Il nostro Governo non sta facendo gli interessi nazionali, neppure se si identificano questi interessi con quelli degli imprenditori italiani. Tutto il profilo negoziale che è stato tenuto da questo Governo è stato quello di chi fa i compiti a casa, poi va dalla maestra speranzoso e si becca dei gran ceffoni senza fiatare. Norme come l'imposizione del taglio del 5% l'anno della quota di debito che eccede il 60% del Pil sono deliranti sul piano economico, perché rappresentano la ricetta di una depressione certa. A questa norma è stato dato il via libera nel marzo 2011 da Tremonti (e non a caso lo spread ha cominciato a salire da allora…), che avrebbe potuto mettere il veto e non lo ha fatto. Poi però il governo Monti si è mosso in piena continuità col governo precedente. Oggi quello che si dovrebbe fare è – molto semplicemente - non ratificare il fiscal compact. Oltretutto, anche in Germania c’è chi lo definisce un karakiri economico. Purtroppo però come dicevo il profilo negoziale tenuto da Monti è stato quello dello scolaretto che deve fare i compiti. Sarebbe stato e sarebbe oggi necessario un atteggiamento negoziale più duro. Qualche giorno fa l’ho scritto sul “Fatto”, e mi ha fatto piacere trovare giorni dopo tesi analoghe sostenute sul “Financial Times” da una delle sue migliori firme, Wolfgang Münchau. I costi dell’aggiustamento necessario tra le economie europee non possono essere addossati solo ai paesi del Sud Europa. Se accade questo – e questo sta accadendo – questi paesi sono condannati a depressioni catastrofiche il cui punto d’approdo è inevitabilmente l’insolvenza e a lungo termine l’uscita dalla moneta unica, magari dopo l’intervento del Fmi e la fine di ogni residua sovranità. Allora i Tedeschi devono essere messi di fronte all'alternativa molto secca: o cambiate questa politica che ci porta al disastro, o il momento di far saltare il banco lo decidiamo noi – ed è questo; ed è inevitabile che fine della moneta unica si porti con sé anche l’introduzione di controlli severi sui movimenti di capitale, e probabilmente la fine dello stesso mercato unico. È evidente, infatti, che il percorso che abbiamo imboccato è una replica del film greco, ossia della spirale crisi-austerità-peggioramento della crisi. Altrettanto evidente – e Hollande l’ha capito – è che subito dopo di noi viene la Francia (che oltretutto ha un minore stock di debito pubblico, ma un deficit pubblico molto più elevato e anche una bilancia commerciale molto in rosso, a differenza della nostra). Niente di tutto questo sembra sfiorare Monti, il quale da ogni incontro esce con i nuovi compitini da fare: ieri la privatizzazione di imprese pubbliche per 10 miliardi di euro (un decimo di quello che abbiamo privatizzato nei 10 anni d’oro delle privatizzazioni), oggi la controriforma del lavoro, domani – chissà - il licenziamento degli statali. E tutto questo senza portare a casa niente. E, ironia della sorte, senza che alcuna delle misure subite dal nostro paese interessi affatto ai “mercati”: se non c’è la crescita, e quindi il rapporto debito/pil peggiora, 10 miliardi di euro il mercato se li ingoia in tre sedute negative.


Dicevi dei film già visti, uno è quello del 1929...


I principali commentatori e gestori di patrimoni mondiali stanno dicendo che le manovre imperniate sull'austerity sono una follia e sono destinate a far aumentare il debito che invece dovrebbero curare. Vanno avanti come dei treni esattamente con le politiche che si fecero negli anni Trenta e che portarono la crisi del 29 a trasformarsi in una depressione decennale. Credo che oggi la difesa degli interessi dei lavoratori coincida più che mai con il senso di responsabilità e con il perseguimento degli interessi generali. Credo che in questo momento il più grande contributo alla soluzione dei nodi che strangolano l’Europa sia lo sviluppo di grandi movimenti sociali di opposizione, che siano in grado di inserire tra le variabili di cui tenere conto, una variabile che sinora non è mai entrata in gioco: l'impossibilità di portare a termine le politiche di austerity a causa di una fortissima opposizione sociale. Che vuol dire: di qua non si passa, dovete trovare un'altra soluzione. Sinché non si creerà questa diga, nessun diritto potrà essere in salvo.


*Vladimiro Giacché, economista, lavora nel settore finanziario; è editorialista del “Fatto Quotidiano” e autore del libro “Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato” (Aliberti 2012).
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