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Il Viale del tramonto... porta all'Alba dorata

di Alberto Bagnai

(sì, ho capito, mi faccio un culo come un secchio tutto il giorno... e allora vorrete privarmi di un quarto d’ora di sano divertimento? Suvvia, ho capito che la crisi è una cosa seria, ma non facciamone una malattia. A rilassarci ci aiuta l’ironia involontaria di tanti orecchianti, e anche quella, volontaria, lucida, disperata, del buon Basilisco.... per non parlare di quella buona pezza di santo subito che mi ha fatto modificare il titolo...). 

Caro Alberto, non so se ricordi una fantastico film di Elio Petri del 1973 "La proprietà non è più un furto" dove Flavio Bucci interpreta un personaggio che si definisce marxista-mandrakista.  Come sai io sono decrescista-leninista. Non si tratta di una scelta ma di una condanna inflittami dalla mia fede nelle leggi della termodinamica e dall'importanza che attribuisco all'epistemologia (non posso non stimare uno che dovendo fare la rivoluzione d'ottobre si preparava studiando l'empiriocriticismo di Mach). E tu sai bene quante discussioni abbiamo fatto e quante ne faremo su questi temi. Sono però costretto a riconoscere che gli ambientalisti di sinistra in Italia generano in me il più profondo sconforto (al di là dei casi estremi come Chicco Testa e Nichi Vendola per i quali forse la psicoanalisi può dare una risposta). Va bene, vogliamo fate la rivoluzione e farla verde. Avanti compagni! Ma cosa facciamo in attesa dell'ordine nuovo che verrà? Per esempio sull'euro che scelta bisogna fare? A me pare che su queste questione ci sia il più grande caos tattico mascherato con visioni epicamente strategiche (come tu stai facendo vedere nel blog). Qualche giorno fa ho mandato una lettera al Manifesto che non mi sembra sia stata pubblicata. Te la mando, magari ti può interessare. Marco Basilisco Aspetta, Marco: prima permettimi di dirti una cosa. Ci sono in Italia due partiti, o meglio due movimenti (più o meno riferiti a partiti), fautori di politiche pinochettiane di riduzione del “government footprint”, due schieramenti di nemici dello Stato e dell’intervento pubblico nell’economia. I loro orientamenti politici sembrano diversi, sembrano opposti: pensa, uno sembra di sinistra, e l’altro sembra di destra. Ma sono entrambi di destra. Li accomuna una cosa: l’incomprensione strumentale di cosa ha veramente detto Keynes (e di cosa ha veramente detto Keynes ci siamo occupati qui e qui), e, naturalmente, l’odio ideologico verso la contabilità nazionale. Oggi non voglio parlarti dei pinochettiani di destra, lasciamoli ragliare in pace perché non abbiamo bisogno di loro. Avremmo bisogno dei pinochettiani di sinistra, se gli si riuscisse a far capire due cose:

 

1)      la prima, più difficile, che è arduo proclamarsi di sinistra propugnando politiche pinochettiane. Sì, per un po’ puoi farlo, perché la gente si ricorda di quando eri giovane e berciavi slogan sconclusionati (ma esteticamente riconducibili alla sinistra). Solo che per l’Italia gira uno al quale non glie ne frega un cazzo e che per hobby grida “il re è nudo”... sicché, se non fai attenzione, prima o poi le tue striminzite pudenda vengono richiamate all’attenzione generale. Ma questo non riguarda te, caro Marco, né le tue floride ecc.
 
2)      la seconda cosa, che invece riguarda te, dovrebbe essere più facile da capire, ma tu non la capisci. Anzi, aspetta: nemmeno tu la capisci (quanto affetto in un avverbio). Eppure è semplice. Aspetta, ti faccio una domanda: un cavatappi è di destra o di sinistra? Ardua la risposta, vero? La contabilità nazionale è di destra o di sinistra? Io continuo a non capire gli orecchianti (ma capisco benissimo, oh. se li capisco, i furbetti) che hanno intrapreso una crociata contro il concetto di Pil. Le leggi della termodinamica, amico caro, non c’entrano un beneamato cazzo. Lo so benissimo, tesorino mio, che prima o poi le risorse finiranno e che di questo dobbiamo preoccuparci adesso. Il fatto è, però, che una impostazione razionale e non demagogica di questo discorso non ha più relazioni col concetto di Pil di quanta ne abbia una cernia con la pratica del tennis da tavolo, capisci?
 
L’equivoco sul quale giocano i furbi, per strumentalizzare i grulli, è Pil=prodotto= beni fisici=monnezza. Non è così, ovviamente. Sarebbe così se si potessero sommare le mele con le pere. Ma invece non si può, e allora il Pil è una misura di valore, nella quale non rientrano solo le produzioni “materiali” (quelle che i furbi incitano i gonzi a identificare con spreco e inquinamento, perché qualche volta è così), ma anche e soprattutto le produzioni immateriali. Un mondo più verde sarà un mondo nel quale aumenterà il valore e il Pil crescerà. Lo hai capito? Ti faccio un disegnino? Bene: questo occorre che fra noi sia chiaro. Latouche è un simpatico demagogo che ha trovato un buon brand. Onore al merito. Preferirei che lo avesse usato per vendere una marca di birra, o qualsiasi altra cosa della quale posso fare a meno. Di un discorso serio sull’ambiente non posso fare a meno, e trovo deprecabile che esso sia inquinato da dei cialtroni opportunisti e demagoghi (non mi riferisco specificamente a Latouche, ovviamente), esattamente come trovo deprecabile che il discorso sulla moneta sia inquinato dai donaldiani.
 
Quindi, siccome tu non sei un cretino (forse: al dubbio bisogna lasciare sempre aperta la porta), siccome sei aperto a un ragionamento scientifico (forse: quelli che tu sai fare sono talmente complicati che io non li capisco, quindi potresti semplicemente starmi facendo una supercazzora), siccome tu sei interessato al futuro di questo paese su questo pianeta (forse: potresti anche essere un fan dell’algonchino e del samoiedo, chissà...), converrai con me che non puoi essere un “decrescista”, perché questa etichetta non ha alcun fondamento nella contabilità nazionale.
 
Dice: sì, vabbè, lo so, basta che sse capimo...
 
No.
 
Non basta.
 
Perché vedi, carino, voi animelle verdi bisognerà pure che impariate a esprimervi con rigore scientifico quando vi avvicinate non dico all’economia (non ce n’è bisogno) ma alla contabilità. Perché se non lo fate succede una cosa molto semplice: i miei colleghi vi accolgono con una salva di pernacchie, vi danno (purtroppo meritatamente) dei dilettanti e dei cialtroni, e il dialogo non parte mai. E purtroppo c'è bisogno dei miei colleghi, da un lato, come dall'altro ci sarebbe bisogno di portare i temi dell'ambiente in primo piano, ma in modo non dilettantesco.
 
Solo che perché il dialogo parta è necessario fare un’operazione di verità, che deve partire da questo semplice concetto: lasciate in pace la contabilità nazionale. Il Pil non c’entra. Il Pil può tranquillamente crescere in un mondo più verde. I modelli di crescita economica, del resto non prevedono una crescita eterna del prodotto, lo sapevate? E allora non pensiate di aver scoperto grandi cose. Avete scoperto il protossido di idrogeno caldo.
 
Va bene così?
 
D’accordo: possiamo cominciare.
 
Scrive un lettore dello Sibilifesto a Guido Viale (dove la notizia cattiva è che lo Sbilifesto ancora esiste – e noi paghiamo – e quella buona è che i suoi lettori stanno cominciando a ragionare):
In riferimento all’articolo di Guido Viale pubblicato sul Manifesto del 25 luglio scorso, con mio grande dispiacere ho notato che ha riconfermato la sua abitudine a proporre azioni politiche che guardano al lontano futuro e mai al presente (oggi, domani, subito). Io sono stato, fino a poco tempo fa, un estimatore del pensiero di Viale. Condivido il discorso sull’ambiente e la riconversione ecologica, ma non può ignorare la necessità di dare risposte, ora, su ciò che accade.
L’Unione europea e l’euro stanno saltando e la proposta che riformula è quella solita di una costruzione della società futura. Se non si interviene correttamente subito, con un’azione politica che miri ad affrontare il problema cruciale, per evitare che l’Europa o, almeno l’Italia, non sprofondi nel precipizio, la stessa società futura che propone (e che io condivido), non si potrà realizzare mai. Non si può separare, come fa, gli obbiettivi a lungo termie con quelli immediati, a breve, medio e lungo termine. Pena la sconfitta su tutti i fronti. Non può liquidare il ritorno alle valute nazionali con due righe. Addirittura «Alba» (il nuovo soggetto politico a cui ho aderito) ha un atteggiamento di sufficienza verso chi la considera una possibile opzione.
Ritengo che sia un atteggiamento sbagliatissimo per degli intellettuali, per giunta di sinistra, che dovrebbero scandagliare e analizzare tutte le possibilità, senza scartarle a priori. Ci sono tanti economisti di sinistra che condividono e/o auspicano questa possibilità e la analizzano nel dettaglio. Sono tutti rimbecilliti? E poi ci sono tanti modi per uscire dall’Euro, non solo quelli che propone la destra. E ci sono anche soluzioni intermedie (Jacques Sapir «Bisogna uscire dall’Euro?»). E poi non è sufficiente, a mio avviso, giustificarlo dicendo che non è più possibile riproporre il Keynesismo.
Ci sono tante strade percorribili, ma debbono comunque mirare, ripeto ora, a liberarci dalle catene della finanza internazionale e, quindi, dai vincoli che l’Unione europea ci pone (e che saranno sempre più stretti fino a strangolarci). E non ci si può limitare, come fa Viale, a un confronto con il potere della finanza semplicemente «imponendo» una radicale ristrutturazione dei debiti (ma come? e poi? vedi Grecia).
A questo punto chiedo a Viale (e suo tramite anche ad «Alba»): come intendete affrontare la situazione oggi? Se vi ostinate a non proporre un’uscita controllata dall’Euro (quantomeno studiatene l’eventualità e quindi le possibili modalità), cosa proponete perché l’Italia si liberi da subito, dalle grinfie dei mercati finanziari?

Valerio, Modena
 

Risponde Guido Viale:

Fuori o dentro l’euro? Non è una decisione che dipende da noi, qualsiasi cosa si intenda con quel «noi». Ma è comunque una scelta ineludibile per la costruzione di un programma di governo e, soprattutto, preliminare alla costruzione delle forze necessarie per potersi porre il problema del governo. Nell’assemblea di Alba a Parma è emerso un orientamento generale che ricalca quello di Syriza: dentro l’euro – fin che si può; non dipenderà mai solo da «noi» – rinegoziandone radicalmente le condizioni. Con in più la cautela di non affrontare isolatamente il problema, ma di trattarlo come un tema per costruire un fronte di tutti i paesi sotto scacco e di tutte le organizzazioni che condividono questo approccio. L’esatto opposto della pratica dei «compiti a casa»: che vuol dire competere perché a cadere per primo sia qualcun altro, accelerando così il collasso di tutti. Ma il problema è tutt’altro che chiuso e merita alcune precisazioni.
Un ritorno al passato, cioè alle svalutazioni competitive per riaprire la strada alle esportazioni, è precluso. Il modello mercantilista tedesco è vincente perché gli altri partner europei, dentro e fuori l’eurozona, ne sono le vittime; ma proprio per questo non è replicabile: soprattutto se a mettersi in competizione tra loro a suon di svalutazioni fossero tutte le economie oggi schiacciate dalla supremazia tedesca. Né la congiuntura mondiale offre molto spazio a un’espansione delle esportazioni fuori dai confini europei. E d’altronde, che cosa esportare? Le imprese italiane che hanno prodotti e tecnologie vincenti hanno continuato a farlo con successo. Ma si può pensare che con una svalutazione del 20, o anche del 50 per cento, dovendo pur sempre pagare a prezzi maggiorati gli input produttivi importati, la Fiat possa esportare in Europa un milione di auto, o la Merloni qualche milione di frigoriferi prodotti in Italia, e così via? In molti casi il treno della competitività è stato perso per sempre.
In secondo luogo, un aumento della domanda aggregata prodotta da una politica salariale e da una spesa pubblica meno restrittive, in mancanza di una politica industriale mirata a produzioni «a kmzero», rischierebbe di tradursi solo in un peggioramento della bilancia delle partite correnti perché è difficile ormai, per molte produzioni nazionali a basso costo, competere con quelle sfornate dalla fabbrica globale del sudest asiatico. Lo schema keynesiano della domanda aggregata che sostiene l’occupazione funziona in un sistema economico chiuso; ma quello attuale non lo è più da tempo.
In terzo luogo, l’alternativa tra «euro sì» ed «euro no» non è un confronto tra teorie economiche contrapposte, tra una scienza buona e una scienza cattiva, come a volte sembra emergere dai testi dei fautori del ritorno alla lira (per es. nell’e-book di Micromega «Oltre l’austerità»). L’euro non è nato da una teoria errata, ma da una scelta politica, ancorché non del tutto consapevole per tutti i suoi promotori, tesa a sottrarre agli Stati nazionali, dopo averla sottratta ai governi con l’autonomia delle banche centrali, il controllo su alcune variabili decisive delle politiche economiche: base monetaria, tasso di sconto, cambio. Il tutto in funzione del contenimento delle spinte salariali e degli istituti del welfare. Che poi gran parte di quei poteri siano stati di fatto consegnati alla finanza internazionale era per alcuni un lucido disegno e per altri una conseguenza imprevista da cui non si sa più come sottrarsi. In ogni caso non sarà un ripensamento della teoria economica a riportarci alla situazione quo ante: cioè, non ci sarà una transizione graduale dall’euro alle valute nazionali come c’è stata da queste all’euro: ci si arriverà, caso mai, attraverso un crollo dell’intero edificio europeo provocato, passo dopo passo, dall’inconcludenza dei «vertici» europei che si susseguono da due anni a questa parte.
Il problema è allora quello di prevenire quell’evento, senza illudersi che il risultato, la rifondazione su nuove basi dell’Unione europea, possa realizzarsi senza passare attraverso uno scontro frontale con i poteri della finanza, e non solo con i vincoli (pareggio di bilancio, fiscal compact, ispezioni della troyka, ecc.) che l’Europa ha eretto a loro difesa. Cioè, in termini economici, senza passare attraverso una radicale ristrutturazione di gran parte dei debiti pubblici e privati (cioè di Stati e di banche) e una riforma profonda del credito, del sistema bancario, della moneta per sgonfiare la bolla finanziaria che sovrasta il pianeta. Come? Per l’Italia, che peraltro ha un avanzo primario consistente, sarebbe sufficiente la minaccia delle conseguenze di una moratoria o di un default non negoziato: una cosa che Monti e i suoi sostenitori non faranno mai, preferendo portarci verso il disastro greco a piccoli passi più o meno omeopatici.
Ma in entrambi i casi quello che ci aspetta è un periodo prolungato di grande turbolenza politica e sociale. Che per molti, in Grecia e in Spagna, è già iniziato. E per noi è alle porte. Grande turbolenza e grandi rivolgimenti comportano spostamenti ed emersione di nuove forze sociali e rapide scomposizioni e ricomposizioni di forze politiche; cioè grandi opportunità e tremendi rischi, come insegnano la impressionante ascesa di Syriza e, dal lato opposto, quella del movimento fascista Aurora (e non Alba) Dorata in Grecia. O il successo di Grillo.
Per questo la conversione ecologica non è un programma da rimandare al futuro (il futuro è già qui, anche se molti non se ne sono ancora accorti), ma un orientamento generale che può e deve impegnarci già oggi, se è, come dovrebbe, uno strumento di promozione di un’alternativa reale tanto ai diktat della finanza quanto al vano inseguimento di una «crescita» contabile del Pil; ma soprattutto uno strumento di aggregazione e di organizzazione delle forze necessarie a sostenere questa alternativa. Come continuare la lotta contro la privatizzazione dei servizi pubblici, rivendicandone la gestione come beni comuni, se non si promuovono forme di partecipazione sostanziali alla loro gestione? Per l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili, per una gestione delle risorse a rifiuti zero, per un’agricoltura e un’alimentazione ecologiche, per una mobilità sostenibile, per una gestione partecipata del territorio, per un’educazione permanente e aperta a tutti. E come salvaguardare il serbatoio di professionalità, di esperienza, di impiantistica presente in aziende oggi votate alla chiusura se non si cerca di coinvolgere le comunità che ne dipendono in una gestione fondata sulla loro riconversione? E come far fronte alla stretta dei redditi se non si promuovono fin da ora nuove forme di consumo condiviso che offrano uno sbocco concreto alle imprese convertite e riterritorializzate? Sono temi che si può cominciare ad affrontare subito: convocando in ogni territorio delle conferenze di produzione per discuterne.
 
 
(commovente il modo in cui difende il suo brand: loro sono l’Alba, gli altri l’Aurora...)
 

Incalza Marco Basilisco:
 

Guido Viale a Stalingrado (Lettera inviata al Manifesto il 16 agosto 2011):

Sul Manifesto di ieri, mercoledì 15 agosto, è apparsa una interessante lettera a firma di Valerio, un lettore di Modena. La lettera faceva presente a Guido Viale (e ovviamente non solo a lui) che il tema di una fine dell'euro è discusso da numerosi economisti e che appare non eludibile per qualsiasi forza politica che si proponga sulla scena. In sostanza Valerio sostiene che mentre ci prepariamo a una rivoluzione ambientalista che trasformi completamente il pianeta (tutti d'accordo) non possiamo sfuggire ai problemi dell'oggi, la strategia non può dimenticare la tattica. Insomma che ne pensa Viale dell'euro? Cosa deve proporre, qui e ora, una forza politica di sinistra su questo tema?
 
Trovo la risposta di Viale sconcertante e tale da alimentare pienamente i dubbi e le critiche del lettore di Modena. Colgo alcuni punti dell'argomentazione di Viale:
 
1) "Fuori o dentro l’euro? Non è una decisione che dipende da noi, ... Nell’assemblea di Alba a Parma è emerso un orientamento generale che ricalca quello di Syriza: dentro l’euro – fin che si può; ..."
Ma perché mai? E' in grado Viale di spiegare la convenienza di una permanenza dell'euro per i salariati e disoccupati greci, spagnoli, portoghesi e italiani?
 
2) "Un ritorno al passato, cioè alle svalutazioni competitive per riaprire la strada alle esportazioni, è precluso. ... In molti casi il treno della competitività è stato perso per sempre ... è difficile ormai, per molte produzioni nazionali a basso costo, competere con quelle sfornate dalla fabbrica globale del sudest asiatico. Lo schema keynesiano della domanda aggregata che sostiene l’occupazione funziona in un sistema economico chiuso; ma quello attuale non lo è più da tempo."
 
Su quali dati Viale basa la sua analisi? Su quali serie storiche? Non mancano economisti che dicono l'opposto mostrando come la rigidità del cambio appaia direttamente legata alla diminuzione della produttività italiana. E non credo si possa sostenere che prima dell'euro o dello SME il nostro mondo economico fosse un sistema chiuso.
 
3) "In terzo luogo, l’alternativa tra “euro sì” ed “euro no” non è un confronto tra teorie economiche contrapposte, tra una scienza buona e una scienza cattiva, come a volte sembra emergere dai testi dei fautori del ritorno alla lira (per es. nell’e-book di Micromega Oltre l’austerità). L’euro non è nato da una teoria errata, ma da una scelta politica, ancorché non del tutto consapevole per tutti i suoi promotori, tesa a sottrarre agli Stati nazionali, dopo averla sottratta ai governi con l’autonomia delle banche centrali, il controllo su alcune variabili decisive delle politiche economiche: base monetaria, tasso di sconto, cambio. Il tutto in funzione del contenimento delle spinte salariali e degli istituti del welfare. Che poi gran parte di quei poteri siano stati di fatto consegnati alla finanza internazionale era per alcuni un lucido disegno e per altri una conseguenza imprevista da cui non si sa più come sottrarsi. In ogni caso non sarà un ripensamento della teoria economica a riportarci alla situazione quo ante ..."
 
Qui la confusione di Viale raggiunge forse il suo massimo.  Da un lato sostiene (giustamente!) che l'euro non nasce da un "errore" degli economisti ma da una precisa scelta politica che viene descritta come un momento dell'attacco alle condizioni di vita dei salariati. Poi evoca un presunto "ripensamento della teoria economica ..." Ma quale ripensamento? Secondo la teoria delle Aree Valutarie Ottimali (AVO) l'euro è un'assurdità. E' proprio dando ascolto agli economisti che alcuni paesi dell'unione si sono guardati bene dall'aderire all'euro. Non c'è bisogno di nessun "ripensamento" come l'ebook di MicroMega spiega chiaramente. C'è invece bisogno di far pagare il conto politico a quelle forze e a quei personaggi che ci hanno condotto nella presente situazione esattamente per gli scopi così ben descritti da Viale. Conniventi o incompetenti scelga lui.
 
Evidente: Viale "Oltre l'austerità" lo ha solo sfogliato
 
4) "Per questo la conversione ecologica non è un programma da rimandare al futuro (il futuro è già qui, anche se molti non se ne sono ancora accorti), ma un orientamento generale che può e deve impegnarci già oggi, se è, come dovrebbe, uno strumento di promozione di un’alternativa reale tanto ai diktat della finanza quanto al vano inseguimento di una “crescita” contabile del PIL; ..."
 
Viale conclude con un pistolotto ambientalista con cui non si può dissentire: ma che c'entra con l'euro? Posso anche concordare che i problemi ambientali e sociali a livello planetario non verranno risolti dall'uscita dell'euro, ma non capisco quale vantaggio ricaverei io (per esempio) come salariato dalla permanenza dell'Italia nell'area euro. La posizione di Viale assomiglia a quella di uno che trovandosi a Stalingrado nel gennaio '43 faccia presente che prendere a fucilate la sesta armata di Von Paulus non risolverebbe l'inquinamento del Volga. Caro Viale con l'euro puntato alla testa mi riesce difficile progettare e pensare a un economia solidale, con la filiera corta, con una bassa impronta ecologica,...
 
Sulla prima pagina del Manifesto c'è ancora scritto Quotidiano Comunista. Si tratta di un vecchio ricordo del passato, qualcosa rimasto a marcire in soffitta? Avete uno splendido modo di dimostrare che così non è: fate un bel dibattito, approfondito, sulle conseguenze dell'euro per le classi subalterne, usate il vecchio linguaggio relativo alla lotta di classe e invitate gli economisti che su questo hanno qualcosa da dire (vedi sempre "Oltre l'austerità"), un bel dibattito ma con alla base i dati e non le chiacchiere. Dopotutto i fondatori del pensiero comunista moderno hanno passato la vita a studiare l'economia politica. O no? Evitate invece le scandalose interviste "neutre" a coloro che in questo caos ci hanno portato: qualsiasi riferimento all'intervista a Giuliano Amato fatta da Rossana Rossanda il 30 agosto 2011 non è puramente casuale.
 
 
Caro Marco, non sarai stupito di sapere che non è mica la prima volta. Guarda infatti cosa scriveva l’amico al tramonto sul Manifesto a settembre dello scorso anno:
 

Nel pozzo del nostro debito - Commento,13/09/2011

Guido Viale
 
Ora si comincia a parlare di default (fallimento) come esito - o come soluzione - del debito pubblico italiano. La discussione assume aspetti tecnici, ma il problema è politico e merita approfondimenti sui due versanti. Dichiarare fallimento imboscando dei fondi, è truffa. Ma è truffa anche se una condizione insostenibile viene protratta oltre ogni possibilità di recupero; in particolare, per spremere quelli che si riesce a spennare con la scusa di rimettersi in sesto, prima di dichiarare che «non c'è più niente da fare».  Proprio quello che l'Unione Europea e i suoi governi (e non solo la Bce) stanno chiedendo a Grecia, Portogallo e Irlanda, ma forse anche all'Italia.
C'è chi, senza escludere il default, vede una soluzione alla crisi del debito nell'uscita dall'euro. Il problema, vien detto, non è tanto il debito pubblico quanto il debito estero; in cui si riflette la perdita di competitività del paese, costretto dalla propria inflazione e dalla minore "produttività" a finanziarsi all'estero per importare più di quanto esporta. L'uscita dall'euro consentirebbe un recupero di competitività attraverso la svalutazione - oggi resa impossibile dalla moneta unica - riequilibrando così, con maggiori esportazioni, i conti con i paesi che, come la Germania, possono evitare di rivalutare la loro moneta e perdere competitività proprio grazie all'appartenenza all'eurozona. L'aumento delle esportazioni produrrebbe, sostiene per esempio Alberto Bagnai, «risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero - aggiunge - rimarrebbe la possibilità del default ... come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo». Ma una svalutazione - posto che l'uscita dall'euro sia praticabile - basterebbe a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell'Italia, o quella di altri paesi dell'eurozona in difficoltà? In altre parole, costando il 15 o il 20 per cento in meno le auto della Fiat prodotte con il metodo Marchionne - a cui forse Bagnai attribuisce eccessiva credibilità - potrebbero ancora sottrarre consistenti quote di mercato alla Volkswagen? O costando il 15 o il 20 per cento in più l'Italia cesserebbe di importare turbine eoliche dalla Danimarca e pannelli fotovoltaici o impianti di cogenerazione dalla Germania, mettendosi finalmente a produrli in proprio? O ancora, con la lira l'Italia potrebbe tornare a esportare arance - raccolte con manodopera schiava - nei paesi dove l'organizzazione commerciale degli agricoltori spagnoli le ha portato via il mercato? Eccetera.
Non siamo più nel '92; da allora non è cambiato solo il secolo, ma tutto il contesto. Forse ora, e in futuro, il problema non è esportare (o tornare a esportare) di più, ma importare - per quanto è possibile - di meno: produrre di più in loco (o il più vicino possibile) quello che si consuma; e consumare o utilizzare di più quello che ogni comunità è in grado di produrre. Non con il protezionismo, predicato a fasi alterne dalla Lega (e un tempo anche da Tremonti), ma inattuabile nel contesto odierno; bensì con una progressiva riterritorializzazione dei processi economici con cui accompagnare l'inevitabile e non più rimandabile conversione ecologica di produzioni e consumi.
Ma in Italia ogni possibilità di recupero risulta inibita dalla scomparsa del concetto stesso di politica industriale, che altri paesi hanno invece in qualche misura mantenuto, nonostante che sulle scelte di fondo la delega ai "mercati", cioè all'alta finanza, sia per tutti totale. Quello che ora manca è una politica industriale adeguata ai tempi, cioè a una crisi ambientale planetaria che rende inutile e dannoso rincorrere chi ci ha da tempo superato in settori - come quello dell'auto - destinati a immani crisi di sovrapproduzione. E che impone invece di attrezzarsi per svolte improcrastinabili con progetti e produzioni ecologiche dal sicuro avvenire (anche di mercato, se per "mercato" si intende non lo strapotere del capitale finanziario, ma uno dei modi per mettere in rapporto produzione e consumo).
In gioco ci sono questioni come efficienza e conversione energetiche; agricoltura e alimentazione a chilometri zero; mobilità sostenibile (proprio mentre Fiat chiude l'unica fabbrica di autobus urbani del paese); manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e storico esistente; gestione accurata di risorse e rifiuti; accoglienza ed educazione per tutti; e una ricerca mirata a tutti questi obiettivi. Se iniziative del genere venissero finanziate invece di dissanguare i lavoratori per pagare gli interessi sul debito, ben venga il default; costringerebbe i responsabili dell'eurozona a correre ai ripari.
Diversi economisti pensano invece che il default degli Stati membri si possa evitare, e non solo procrastinare, se un organo dell'eurozona rilevasse - magari "sterilizzandoli" con un rinvio a lungo termine del loro rinnovo - i debiti degli Stati membri in difficoltà; o una loro quota consistente. È la proposta degli eurobond; per alcuni sono "la soluzione"; per altri - come l'agenzia di rating S&P - non farebbero che trasferire lo stato comatoso dai paesi beneficiati a tutta l'eurozona. Default per tutti.
Ma gli eurobond difficilmente potrebbero risolvere il problema; nemmeno nella versione proposta da Prodi e Quadrio Curzio, che ai bond emessi a copertura dei debiti di alcuni Stati ne affianca altri per finanziare un programma europeo di Grandi opere. Con l'intento di promuovere quello che l'Italia e altri paesi non riescono a fare da soli: "rilanciare la crescita" - da tutti considerata la strada maestra per azzerare il deficit e ridurre il debito - avendo però messo "al sicuro" i conti pubblici. Ma quella crescita non è così facile "rilanciarla": in Italia non c'è più da tempo e sta non a caso svanendo anche in paesi fino a ieri considerati "locomotive" economiche.
Inoltre, la principale iniziativa europea per produrre crescita si chiama Ten (Rete transeuropea di trasporto). Anche se con gli organi di governo che l'Unione si è data non sembra che per ora ci siano molte altre modalità di intervento praticabili, proposte del genere sono comunque inaccettabili.
È con quella iniziativa, infatti, che oggi si cerca di giustificare lo scempio del Tav in Valsusa, che persino l'Economist considera uno spreco. Ma non è di Grandi Opere che c'è bisogno, bensì di tante "piccole opere" di manutenzione del patrimonio esistente e di conversione ambientale nei settori portanti della vita economica e sociale. Interventi concepiti, progettati, realizzati e gestiti a livello quanto più decentrato; e sottoposti a un controllo dal basso - analogo a quello richiesto per la gestione dei "beni comuni" - imponendo a tutti regole di trasparenza integrale. Esattamente l'opposto di quel che succede sia in Valsusa che altrove. Il Tav infatti non è un caso isolato; rappresenta in modo paradigamatico il modus operandi di un'economia governata dalla grande finanza.
Dove, proprio come in Valsusa, progettazione ed esecuzione di opere gigantesche - costose, inutili, altamente dannose e completamente dissociate dalle esigenze del territorio - vengono realizzate a spese delle finanze pubbliche mediante una catena senza fine di appalti e subappalti sottratti a qualsiasi controllo; e devono essere imposte con la forza - o, in altri casi, fatte svanire con una improvvisa delocalizzazione - tanto che in Valsusa si è arrivati a schierare i carri armati (sì, i carri armati) e 2000 militari per aprire un cantiere.
Il problema allora non è "costituzionalizzare" il pareggio di bilancio per soddisfare il capitale finanziario che tiene in pugno le politiche, non solo economiche, degli Stati con il controllo dei debiti pubblici; né promuovere, con interventi senza senso e prospettiva - e senza ricadute per lavoro e occupazione - una crescita del Pil evanescente, nel vano tentativo di azzerare il deficit con le imposte ricavate da un ancor più evanescente aumento dei redditi.
Il problema è invece quello di imporre con lotte e mobilitazioni le misure necessarie per recuperare risorse da chi le ha e non ha mai pagato. Ma non per buttare il ricavato nel pozzo senza fondo degli interessi sul debito. Quello che occorre è mobilitare le risorse sia finanziare che umane - le conoscenze e i saperi diffusi; la fiducia reciproca che si crea nella lotta - necessarie alla riconversione ecologica del tessuto produttivo. Non saranno né questo governo né il prossimo a promuovere o consentire una svolta del genere. Ma se non si mette in chiaro che quel debito non va saldato e che è inevitabile affrontare il rischio di un default, ancorché selettivo, si lascia la palla in mano a chi sostiene, e sempre sosterrà, che ai diktat della finanza "non c'è alternativa"; azzerando così qualsiasi prospettiva di riscatto sociale e politico. Per questo è bene capire a che cosa si va incontro e come far fronte a un default; e qui un maggiore impegno degli economisti che condividono queste prospettive sarebbe benvenuto.
 
 
Dove il problema era il solito: una serie di cose condivisibili, per le quali si vorrebbe veramente poter interagire con chi le dice, vengono intruppate in una lettura superficiale e totalmente dilettantesca del quadro europeo che fa cadere le braccia e toglie ogni speranza di possibile dialogo con chi proprio non ce la fa.
 
E anche allora qualcuno intervenne a far notare che si poteva fare di più:
 
Caro Viale, la ringrazio per l’attenzione che ha dedicato al mio intervento. Mi permetta però di farle notare che nelle mie due asserzioni che lei cita le nostre posizioni sono in realtà molto più vicine di quanto lei sembri credere. Seguendo il suggerimento di un amico, ricorrerò, per farlo, ai pensieri di Pippo: “è strano quanto una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Anche una svalutazione, vista dall’estero, somiglia a una rivalutazione. Voglio dire che se la nostra valuta costasse di meno per i nostri partner commerciali, ovviamente la loro valuta costerebbe di più per noi. E quindi la svalutazione, favorendo le nostre esportazioni, al tempo stesso sfavorirebbe le loro, cioè le nostre importazioni. La sua osservazione secondo cui “dovremmo importare di meno” è quindi già contenuta nel mio articolo, in un modo assolutamente ovvio per chi abbia un minimo di familiarità con l’economia. Il debito estero è definito in termini netti: è la differenza fra i nostri debiti e i nostri crediti verso l’estero, cioè fra i soldi che dobbiamo restituire e quelli che ci devono essere restituiti (qualcosa prestiamo anche noi all’estero). E così anche le risorse destinate a ripagarlo vanno definite in termini netti. E infatti io non dico che la svalutazione produrrebbe risorse “attraverso l’aumento delle esportazioni”, come dice lei riportando infedelmente il mio contributo e facendomi dire cose per le quali sarei costretto a bocciare uno studente di secondo anno. Perché è assolutamente ovvio che l’aumento NETTO di risorse deriverebbe sia dal fatto di ricevere più soldi vendendo beni all’estero, sia dal fatto di spenderne di meno per acquistare beni esteri.
L’economia, purtroppo, è una scienza complicata perché occorre sempre tener presenti i due lati di ogni transazione. Io li ho ben presenti e spero di averle chiarito il mio pensiero. Aggiungo che sono convinto della sua buona fede. Un po’ meno di quella della redazione di sbilanciamoci, che ha affibbiato al mio articolo un titolo che non riflette minimamente il mio pensiero. Io non dico da nessuna parte che l’Italia “dovrebbe uscire” dall’euro. Dico (1) che non ci sarebbe dovuta entrare; (2) che l’euro esploderà per colpa della Germania; e (3) che questo non sarà una tragedia perché il recupero dell’autonomia monetaria e valutaria doterà gli stati di strumenti utili per reagire a shock esterni come l’ultima recessione mondiale. Mi preoccupava cioè il furto di democrazia evidente non solo nella costruzione dell’euro (governato da una Bce priva di responsabilità politica e prona alle telefonate della Merkel), ma anche nella sua adozione (sottratta alla decisione democratica dei cittadini e accompagnata da una campagna di disinformazione su vasta scala). Gli economisti (non quelli pagati dalla Commissione Europea, ovviamente!) si erano pronunciati in modo abbastanza univoco, prevedendo quello che ora sta succedendo. Ma mi sembra che la risposta che la “sinistra” dei Bersani ha in mente sia un nuovo governo tecnico (cioè un nuovo furto di democrazia, nuove manovre recessive, nuove privatizzazioni, ecc). Questo mi preoccupa.
Chiamando il mio articolo “l’uscita dell’euro prossima ventura” e riassumendone il contenuto con la frase “chi è in deficit può cavarsela svalutando” (frase che non mi rappresenta minimamente) la redazione ha cercato di farmi passare per un “catastrofista-complottista” da autobus. Ma dai commenti dei lettori mi pare che non ci sia riuscita quasi con nessuno, e questo nonostante io non sapessi che il mio articolo sarebbe stato pubblicato sul Manifesto, e avessi quindi adottato un linguaggio relativamente tecnico.
E per quanto riguarda Marchionne, caro Viale, a me sta molto meno simpatico che a lei. Ma mi sta ancora meno simpatica la stupidità (o la furbizia?) di chi, avendo imposto al nostro paese il bias deflazionistico dell’entrata nell’euro, se la prende con gli imprenditori che ne traggono le conclusioni. Sarò più esplicito: chi ha voluto e vuole l’euro vuole anche Marchionne (che lo sappia o meno). Nel mio articolo è detto apertis verbis. La Fiat non è mai stata un modello di democrazia e lungimiranza nelle relazioni industriali. Ma finché il sistema economico italiano ha avuto un minimo di fisiologica elasticità valutaria, il ricatto non è mai stato così esplicito. Chiaro? La sinistra italiana, come dico nell’articolo, è in trappola perché ha fatto una scelta fascista nel merito e soprattutto nel metodo (paternalistico): ora gli elettori se ne stanno accorgendo. Nonostante questo Berlusconi se ne andrà, ma a causa di questo le cose non miglioreranno molto. E, come vede, molti lettori del Manifesto se ne rendono perfettamente conto.
Ho aperto con Pippo, e mi permetta di chiudere con Proust: “j’ai vu tout de suite que vous n’aviez pas l’habitude”, dice il barone di Charlus alla signora Verdurin. Le regalo l’unica cosa veramente di sinistra detta in Italia negli ultimi quaranta anni. Dopo venti anni passati a fare ricerca e a insegnare in ambito accademico produco sicuramente molti, troppi rifiuti. Ma parlo mai di rifiuti io?
Amici come prima (non di Marchionne).
 
 
Ecco, Marco.
 
Gli ecologisti di sinistra sono persone che ignorano cosa sia il Pil, o che, come Viale, ignorano che una svalutazione non ha effetti solo sulle esportazioni lorde (aumentandole), ma anche sulle importazioni lorde (riducendole). La svalutazione, o la rivalutazione, a seconda dei casi e dei punti di vista, insomma: la flessibilità del cambio, rimane uno strumento essenziale per perseguire proprio quelle cose che a chiacchiere questo qui dice di voler perseguire.
 
Cioè, scusa, compagno Viale, che da giovane andavi ai cortei mentre io leggevo Proust, fammi capire, compagno: tu vuoi accorciare la filiera all’interno di un sistema monetario che oltre al trascurabile (per te che hai fieno in cascina) difetto di scaricare tutti gli shock nominali sulle classi subalterne, di fatto ci impone di importare praticamente tutto dall’estero, perché non possiamo ripristinare condizioni di convenienza per le nostre produzioni interne?
 
Ma questa cosa è geniale! Certo, fare la filiera corta con la moneta forte è come fare la rivoluzione da qualche salotto buono: una cosa che a certe persone può sembrare naturale, ma dalla quale non ci si posson certo aspettare grandi risultati.
 
Questi sono gli intellettuali della sinistra italiana. Quelli che non capiscono che le esportazioni di qualcuno sono le importazioni di qualcun altro. E non capendo questo, a valle, cosa pensate che possano capire? Per questo rinuncio a entrare nel merito delle sottili esegesi keynesiane del nostro. Questa gente deve aver il buon gusto di scomparire, di non inquinare più, con la sua presenza, un dibattito che merita di essere condotto ad un altro livello, e che può essere condotto ad un altro livello, come lo sforzo che qui stiamo facendo dimostra.
 
Avete un animo ecologico? Ecco, fate qualcosa per l'ambiente: andatevene. Anzi: no: restate. A giudicare dai commenti dei vostri lettori, l'utilità che arrecate divertendoli è maggiore del danno che arrecate disinformandoli.
 
Una cosa però ve la posso dire: Alba, come gli ortotteri, se parte così è un movimento nato morto. Un movimento che oggi non ha una posizione sull’euro non può essere che un movimento pinochettiano di traghettatori del vecchio regime in un vecchissimo regime, tutto Statobrutto e distintivo (arcobaleno).

 

Oh, questa è una mia opinione, e avendo tempo potrei anche motivarvela meglio. Ma comunque fate voi. Ripeto: viviamo tempi complessi, ma capire con chi si ha a che fare è diventato straordinariamente semplice.

Savonarola, aspetta, che il prossimo sei tu... Ma ora torno al libro...

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