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Olli Rehn, ovvero: il dogma con le altrui terga

Mauro Poggi

Olli Rehn, vice presidente della Commissione europea (un altro dei tecnocrati democraticamente NON eletti),  si è assunto il compito di rappresentare l’epitome vivente dell’ottuso euro-dogma dell’austerità, quello che sembra esser dettato, più che da esigenze economiche, da imperativi morali.

Nonostante le conclamate evidenze di questi anni, ultima in ordine di tempo l’Italia proconsolare di Mario Monti, egli è ancora convinto che la politica del rigore sia l’unica possibile (ovviamente a carico delle classi disagiate – una categoria in piena crescita; perché – diciamocelo una buona volta – i poveri, se sono tali, devono pure aver fatto qualcosa per meritarselo).

 


Il signor Rehn è così compreso nella difesa  dei principi ispiratori dell’euro-dogma che si stizzisce se analisi da fonti non sospette, ancorché tardive (per esempio tale Olivier Blanchard, capo economico del Fondo Monetario Internazionale)  raccomanderebbero una maggior cautela nella loro applicazione.

E tanto se ne adonta da scrivere un’accorata lettera a chi di dovere, per far notare sostanzialmente che il dibattito in materia è irrilevante (probabilmente perché sono irrilevanti i soggetti chiamati a pagarne lo scotto) e anzi dannoso, in quanto “erode la fiducia che abbiamo meticolosamente costruito in questi anni durante numerose riunioni notturne” (sic).


Osservava perplesso Paul Krugman qualche giorno fa, in un editoriale ripreso dal Sole 24 ore:

“… Olli Rehn, vicepresidente della Commissione europea e fiero paladino del rigore, ha scritto una lettera ai ministri dell’Economia in seguito alle disastrose notizie sull’economia europea, che hanno confermato l’allarme dei contestatori dell’austerity e indotto a rivedere i moltiplicatori della spesa pubblica, troppo elevati in una situazione di trappola della liquidità. La risposta di Rehn? Dobbiamo smettere di diffondere questi studi economici, perché compromettono la fiducia nel rigore!

Un doveroso inciso: il moltiplicatore esprime in percentuale l’impatto (negativo o positivo) che un intervento su una o più variabili macroeconomiche – consumi, investimenti, spesa pubblica – avrà sul reddito nazionale, o PIL. Tanto per capire, i modelli su cui si sono basate le politiche di austerità della troika (BCE, CE, FMI), prevedevano che per ogni punto percentuale di taglio della spesa avrebbe corrisposto un mezzo punto di riduzione del PIL (moltiplicatore -0,5). Le “indagini” di Blanchard sull’evoluzione di 28 economie dal 2008 a oggi dicono invece che il moltiplicatore si colloca in realtà fra -0,9 e -1,7;  vuol dire che rispetto all’ipotesi adottata le politiche di austerity hanno avuto effetti recessivi due o tre volte superiori. Ooops!


Anche Jeremy Warner, del Telegraph, scrive alcune considerazioni sul signor Rehn, prendendo lo spunto dalle sue ultime dichiarazioni  a Der Spiegel, dove ribadisce che per i paesi periferici (meglio conosciuti come PIGS) “non ci sono alternative” se non attenersi al compito loro assegnato di consolidamento budgetario (austerity).

Con l’Italia in aperta rivolta politica e il resto dei paesi mediterranei alle prese con una apparentemente inesorabile recessione, [scrive Warner], Mr Rehn dice che non c’è spazio per manovre [di sostegno all'economia ndt].

Normalmente, quando un sistema non funziona si prova un approccio diverso, ma lo sfortunato vicepresidente si trova così imprigionato nel ruolo di difensore dell’indifendibile – la moneta unica – che non è in grado di offrire alternative. [...] La sua rigida adesione alle sacre scritture è diventata una comicamente incondizionata forma di dogma, che lo rendono più un soggetto ridicolo che non il temibile gendarme che gli piacerebbe essere.

Difficilmente può credere a ciò che dice, ma un più leale portavoce per la causa dell’austerità sarebbe difficile trovarlo
.
Recentemente, il signor Rehn ha definito il dibattito sulla politica economica europea come “inutile”, quasi a dire che ogni discussione su possibili alternative non è più permessa. Egli continua inoltre a ripetere che il peggio della crisi è passato, solo per essere continuamente smentito dai fatti.

Il sig. Rehn non dovrebbe più essere preso sul serio, ma almeno ci si può congratulare con lui per le sue doti di comico intrattenitore. Ne avremmo già avuto abbastanza da tempo, se in qualche modo rispondesse democraticamente alle nazioni sulle quali sta infierendo, ma la sua posizione gli permette di restare serenamente al di sopra queste spiacevolezze.

Comunque, il problema non è l’austerità, ma il tentativo di costringere nazioni fiscalmente differenti e con divergenti competitività in un’unica area valutaria. L’austerità non è altro che la risposta scelta per rimediare a un progetto sbagliato.

Che il farmaco prescritto stia cominciando a minacciare le istituzioni democratiche
sembra essere un fatto irrilevante rispetto al maggior bene di mantenere in vita il progetto.

L’istituto IFO della EEAG – European Economic Advisory Group – sottolinea che la crisi dell’eurozona è in realtà il risultato di tre differenti criticità; le crisi del debito sovrano e delle banche sono, in effetti, i sintomi di un sottostante problema di divergenza competitiva, che a portato alla classica vecchia crisi di bilancia dei pagamenti.

Normalmente gli squilibri commerciali del tipo di quelli che si sono creati nell’eurozona vengono corretti attraverso gli aggiustamenti dei cambi, ma questo ovviamente non può avvenire in un’area a valuta unica.

Gli squilibri sono stati finanziati in un primo momento da prestiti dei paesi con avanzo commerciale, che finanziavano i paesi in deficit perché questi acquistassero i loro prodotti. Quando la crisi bancaria ha bloccato i canali di finanziamento le nazioni più deboli sono state abbandonate a se stesse invece di essere supportate comunitariamente da fondi di salvataggio europei o dalla BCE.
L’analisi di EEAG fornisce tre possibili soluzione a questa situazioni, le uniche possibili in assenza di reale unione politica e fiscale: 

1) I paesi in deficit escono dall’euro e svalutano la propria moneta;
2) I paesi in deficit operano una svalutazione interna attraverso attraverso deflazione;
3) I paesi in surplus riflazionano attraverso l’inflazione;

Delle tre, la seconda opzione è quella che i tecnocrati dell’eurozona come Mr Rehn hanno preferito adottare.
L’uscita di una o più  nazioni deboli è stata scartata per timore del contagio che potrebbe generare.
L’uscita di una o più nazioni deboli è stata scartata per timore del contagio che potrebbe generare.
La terza opzione è stata scartata per il danno che provocherebbe ai paesi in surplus, quindi elettoralmente impossibile per Angela Merkel. Un’analisi della Goldman Sachs suggerisce che la Germania dovrebbe sopportare un tasso di inflazione del 4% più alto della periferia per un periodo di 10 o 15 anni per conseguire tale rivalutazione e ristabilire gli equilibri. Ciò implicherebbe un declino del 40% della ricchezza tedesca, ferme restando le altre variabili. Nessuna nazione, per quanto altruistica, accetterebbe volentieri un tale colpo.

Questo lascia alla periferia l’onere di assumersi tutto il peso degli aggiustamenti. GS stima che per riacquistare competitività al Portogallo occorrerebbe un 35% di deflazione interna, alla Grecia 30%, alla Spagna 20%. All’Italia occorrerebbe un 10-15%.

L’esempio degli stati baltici, forzati a deflazioni anche maggiori per difendere la loro appartenenza all’euro – mostra che può essere fatto, ma in questo caso si tratta di piccoli ex-satelliti sovietici che avevano goduto di giganteschi balzi economici pre-crisi e sono stati in grado, comunque, di esportare una buona parte dei loro problemi di disoccupazione.

Le economie più avanzate sono un altro paio di maniche.

Italia non ha avuto un boom pre-crisi, e tuttavia le viene chiesto di tollerare una punitiva deflazione che l’ha già riportata a livello dei primi anni ’90, quando l’euro ancora non esisteva.
Prezzi e salari si sono dimostrati in pratica piuttosto vischiosi. Essi non sono facilmente comprimibili, con il risultato che l’insieme degli aggiustamenti hanno provocato l’incremento della disoccupazione.

I
tecnocrati dell’eurozona tendono a vedere nelle diminuzioni del deficit commerciale e del costo lavoro per unità prodotta (CLUP) la conferma che la politica adottata è quella giusta. Ma ciò che sta dietro a questo riequilibrio è per un verso il collasso della domanda interna e per l’altro l’incremento della disoccupazione.

Se questo è valutabile come un successo, allora l’eurozona è davvero sulla strada della follia.


Da: “Debito. Il Debito pubblico come non ve l’hanno mai raccontato” di Bruno Amoroso

 

Costringere l’economia a questa apparente competitività, inoltre, peggiora la posizione fiscale.  Il debito nominale rimane la stesso anche se l’economia si contrae, perciò in proporzione al PIL diventa ancora più grande. La strategia dunque non porta affatto alla sostenibilità fiscale. Più l’eurozona lotta per riequilibrarsi, peggio è.

Si era soliti sostenere che una delle ragioni per cui l’Europa stenta a mantenere l’unione monetaria è che diversamente dagli USA essa non ha la necessaria mobilità del lavoro come valvola di sfogo alla disoccupazione.

L’analisi di M Alexandrovich, della banca d’affari Jefferies, mostra che la mobilità è cambiata drasticamente dall’inizio della crisi, con forti livelli di migrazione della mano d’opera dai paesi in deficit a quelli con avanzo. Disgraziatamente, per i paesi periferici ciò rende la sfida del riequilibrio fiscale ancora più difficile, poiché l’emigrazione li priva di potenziali contribuenti. Una popolazione in calo abbassa il tasso di crescita, e aumenta la quota di deficit strutturale.

Un qualche grado di debito e federalismo fiscali rimuoverebbe queste distorsioni, ma per il momento ciò non è neppure lontanamente in agenda: neanche fra le nazioni in deficit, figurarsi fra quelle che alla fine dovrebbero pagarne il conto.

Rehn è uno sciocco o un furfante? In ogni caso la storia non lo giudicherà amabilmente.


Anche Mario Seminerio, “eurista” ma critico nei confronti delle misure anti-crisi della Troika, non è tenero nei confronti di Rehn.

‘…Dato che il debito medio supera il 90 per cento del Pil in Ue, [dichiara Olli Rehn] non penso ci sia spazio di manovra per lasciare il percorso di consolidamento di bilancio. Non risolveremo i nostri problemi di crescita accumulando nuovo debito su quello vecchio’.
Certo. Ma Rehn potrebbe andare a guardarsi i dati degli ultimi anni: scoprirebbe che il rapporto debito-Pil non ha fatto che aumentare, rompendo la soglia magica del 90 per cento su base aggregata. Quindi, stiamo effettivamente “accumulando nuovo debito su quello vecchio” ma non certo per dissipatezza fiscale bensì perché l’austerità ed il credit crunch hanno causato un crollo tasso di crescita del Pil nominale sotto il costo medio del debito, causando quindi l’autoalimentazione del rapporto debito-Pil. Come dovrebbe essere noto a chiunque, ma evidentemente non a Rehn ed al suo dominus tedesco. Di certo, a trattare con simili personaggi e con la loro persistente ottusità c’è solo da aver paura. “

Purtroppo abbiamo visto che questo signore si stizzisce quando i dati divergono dalla sua personale rappresentazione della realtà, è quindi probabile che eviterà, ancora una volta, di guardarli. Del resto così fanno i suoi omologhi della BCE, del Consiglio Europeo, del FMI, le cui previsioni di ripresa economica vengono reiterate con una pertinacia pari solo alla faccia tosta con cui di volta in volta ne spostano l’orizzonte: sempre all’inizio o a metà dell’anno successivo, a seconda del momento in cui cade la previsione.

Sono personaggi, ricordiamocelo, che nessuno di noi ha eletto ma che ciascuno di noi è costretto a subire. Così vanno le cose in questa Europa diversamente democratica.

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