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"Non è affatto detto che la fine dell’euro comporti una svalutazione di una 'nuova lira' italiana"

Cesare Sacchetti intervista Gennaro Zezza*

nuova-moneta-fiscale-per-vincere-la-crisi-477Professore secondo i recenti dati dell’Istat, l’Italia nell’ultimo trimestre del 2014 ha superato il rapporto deficit/PIL dei parametri di Maastricht, toccando quota 3,5%. Il Governo ha dichiarato che con le misure correttive inserite nella legge di stabilità, conta di ridurre la percentuale fino al 3% nel corso dell’anno. Lei crede che tutto ciò basterà a Bruxelles, o corriamo il rischio di nuove misure correttive con un commissariamento ancora maggiore? Quali sono gli effetti delle politiche procicliche di riduzione del deficit in questa fase congiunturale?

Quanto è successo in Europa, ed in particolare in Grecia, negli ultimi anni dovrebbe aver chiarito che il tentativo di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL con una contrazione fiscale – aumentando le tasse e riducendo la spesa pubblica – ha effetti devastanti sull’economia. Il reddito diminuisce, e con il reddito cala anche il gettito fiscale, l’economia va a rotoli e – se pure si riesce a diminuire il deficit, la caduta contestuale del PIL rende la manovra insostenibile per il Paese. La Grecia ha raggiunto a stento un precario equilibrio dei conti pubblici, pagando un prezzo esorbitante in termini di disoccupazione e di povertà. I governi italiani non sembrano aver imparato la lezione: a mio avviso la lunga recessione italiana è dovuta in gran parte alla politica di “risanamento” dei conti pubblici attuata nel momento peggiore. Sarebbe invece urgente sospendere i vincoli imposti dai trattati europei per pensare alla creazione di posti di lavoro.

 

Secondo i calcoli dell’Istat, il “reddito disponibile” delle famiglie è aumentato dell’1,4% rispetto all’anno precedente, e il potere di acquisto delle famiglie sarebbe cresciuto. Come spiega questo aumento del reddito disponibile e quanto crede che abbia influito la deflazione sull’aumento del potere d’acquisto?

Gli ultimi dati trimestrali dell’Istat mostrano un aumento dell’1,4% nel terzo trimestre del 2014 rispetto al terzo trimestre del 2013. Se confrontiamo però il dato dell’ultimo anno con quello dell’anno precedente, l’incremento è molto più contenuto, e pari allo 0,3%. Dai dati disponibili non ancora chiara l’origine di questo aumento, che si riscontra anche nei redditi da lavoro dipendente, in aumento dello 0,4%. Tutti questi aumenti sono calcolati a prezzi correnti, e implicano quindi un aumento del potere d’acquisto anche maggiore in presenza di riduzione nei prezzi.

I dati sull’aumento nei redditi da lavoro non sono facilmente interpretabili, dato che l’occupazione non è in aumento, anche se - nell’ultimo trimestre disponibile - ha smesso di diminuire. Una prima spiegazione plausibile può essere legata alla dinamica dei redditi nelle imprese che esportano: le esportazioni sono infatti aumentate durante la crisi. Una seconda spiegazione può far riferimento alla dinamica interna ai redditi da lavoro, che includono sia lo stipendio dell’operaio che il compenso del manager, ma non ci sono ancora informazioni sufficienti a verificare questa seconda ipotesi. 

 

Sale il tasso di disoccupazione arrivato al 13,4%, segnando un nuovo record negativo nell’economia italiana. L’entrata in vigore del Jobs Act, a suo dire, avrà un effetto positivo sui livelli occupazionali o il vero obbiettivo è la riduzione dei salari? Quale tipo di politica economica dovrebbe essere intrapresa per combattere la disoccupazione?

A mio avviso l’obiettivo del Jobs Act è l’aumento nella profittabilità di impresa, che passa per una ulteriore precarizzazione del lavoro. Non vedo come questo possa creare occupazione. E probabilmente il Jobs Act è una fase intermedia per precarizzare i rapporti di lavoro anche nel settore pubblico. In questa fase, l’eliminazione della disoccupazione non può che passare da un intervento pubblico di creazione diretta ed indiretta di posti di lavoro, e se questo confligge con i trattati europei, sono questi ultimi da rivedere.

 

Continua la politica delle privatizzazioni: il Governo  punta alla dismissione di asset pubblici per un 0,7% di Pil, pari a circa 11 miliardi di euro. L’obbiettivo è la cessione di Poste, ENAV, e Fs nel 2015. Le dismissioni , secondo quanto dichiarato dal Governo,  sono dettate da una riduzione del debito pubblico, nonostante nelle passate cessioni di partecipazioni non si siano riscontrate diminuzioni del debito. Quali saranno, a suo dire, gli effetti delle dismissioni?

Le dismissioni riguardano sempre attività produttive che garantiscono ottimi margini di profitto, dato che gli imprenditori privati che acquisiscono la gestione di imprese pubbliche non lo fanno per beneficenza! L’impatto sul debito pubblico è di solito irrisorio. In pratica, con le dismissioni, in cambio di liquidità immediata si rinuncia a tutti i redditi futuri derivanti dalla gestione di questi asset pubblici, e gli effetti di lungo periodo sul bilancio pubblico non sono univoci. E inoltre, che le dismissioni rendano più efficienti, o meno costosi, i servizi per i cittadini, è tutto da dimostrare.

 

Spesso si sente accostare la crisi attuale a quella del 1929. Negli anni’30 gli stati nazionali riuscirono ad invertire la tendenza negativa, grazie anche ad un fondamentale intervento statale nei processi economici, si pensi all’istituzione dell’Iri, all’approvazione della legge bancaria del 1936 nel caso italiano, e alle politiche di lavori pubblici intraprese con il New Deal di Roosevelt, difese e raccomandate da Keynes nei momenti di recessione come quelli attuali. La crisi economica odierna, non si arresta e continua nella sua spirale negativa. Lei crede che dovremmo ispirarci alle formule economiche del passato, basate su un economia mista e un aumento della spesa pubblica? Crede che questa prolungata recessione possa durare ancora per molto oppure siamo vicini ad un punto di rottura?

Vorrei chiarire che se le ricette Keynesiane sono “del passato”, le ricette basate sull’austerità fiscale sono ancora più vetuste! Come ho già sottolineato, ritengo indispensabile – seguendo Keynes – un intervento del settore pubblico per stabilizzare i mercati e rilanciare l’occupazione. Le elezioni in Grecia potrebbero rappresentare un punto di svolta, se il nuovo governo avrà successo nel mettere in discussione il funzionamento delle istituzioni dell’euro

 

Uno sguardo al caso della Grecia e alle prossime elezioni di fine gennaio. Il partito favorito nei sondaggi è Siryza di Alexis Tsipras, che si è impegnato in caso di vittoria alle urne a sospendere il pagamento degli interessi sul debito. Recentemente i tassi sui bond decennali greci stanno conoscendo un andamento incostante, aumentati prima al 9.60% per poi calare al 8,99%. Lei crede che in caso di vittoria alle elezioni di Tsipras, i tassi di interesse sul debito possano salire e se questa ipotesi dovesse realizzarsi, il pagamento del debito greco sarebbe ancora sostenibile ? 

Il debito greco è oggi prevalentemente un credito delle istituzioni europee e del Fondo Monetario Internazionale, e solo una parte residua è in mano di creditori privati. Detto questo, se Syriza vuole rompere con l’austerità e far ripartire l’economia, avrà bisogno di un sostegno finanziario dall’estero. Se non sono disponibili fonti di finanziamento, il congelamento del debito estero può diventare una strada obbligata, liberando circa 7 miliardi di euro l’anno che possono essere utilizzati per stimolare l’economia.

 

Il Fmi e la Bce hanno minacciato di sospendere completamente il piano di finanziamenti al governo greco se questo non dovesse garantire il pagamento degli interessi sul debito. Quali alternative restano in questo caso ad un eventuale governo Tsipras?  

La Grecia ha bisogno di liquidità dall’estero: una sospensione dei finanziamenti rende inevitabile il default, che non sarebbe nell’interesse immediato dei creditori, appunto Fmi e Bce.

 

Il precedente che viene spesso usato per sottintendere un paragone con l’Euro a livello economico è quello dello SME, accordo di cambi fissi, dal quale l’Italia uscì nel 1992 dopo forti speculazioni finanziarie e con lo smantellamento delle partecipazioni statali. La transizione all’epoca fu gestita da un governo tecnico, il governo Amato.  Secondo lei, andiamo incontro allo stesso scenario, con un’uscita dall’Euro gestita da un governo tecnico?

Nel luglio del 1992 fu abrogata – dal governo Amato - la scala mobile, che consentiva una qualche tutela dei salari a fronte di una svalutazione della lira, e solo dopo la Banca d’Italia abbandonò la difesa del cambio. Un governo “di sinistra” ha tutto l’interesse a cedere il passo ad un governo “tecnico” se si prevede un uscita dall’euro che comporti una ulteriore compressione dei salari reali. Dal mio punto di vista, però, non è affatto detto che la fine dell’euro comporti una svalutazione di una “nuova lira” italiana. Se i Paesi dell’euro riprendono ad usare valute nazionali, il “nuovo marco” tedesco si andrà sicuramente ad apprezzare rispetto alla lira, al franco, alla dracma, ma non è affatto detto che la nuova lira debba svalutarsi rispetto al nuovo franco, o al dollaro. Tutto questo al netto dei possibili attacchi speculativi, che vanno senz’altro disinnescati in caso di uscita dall’euro. 

 

L’Italia negli ultimi anni ha visto il processo di deindustrializzazione acuirsi notevolmente a causa della crisi economica. Sarà possibile stabilire una politica di reindustrializzazione e, se ciò fosse possibile, con quali politiche economiche?

A mio avviso una politica di reindustrializzazione è necessaria, con le ovvie tutele dell’ambiente, e anche con molta attenzione alla riduzione degli squilibri territoriali. Sarebbe ora di spostare il dibattito pubblico su questo, piuttosto che su come ridurre il debito pubblico.

 

Qualora l’Italia torni alla sovranità monetaria, e con l’intenzione di costruire un modello economico differente da quello neoliberista, crede opportuno il ripristino di un modello interventista come quello costituzionale dell’economia mista, attraverso il controllo statale della banca centrale e una presenza della mano pubblica nel settore bancario, attraverso la creazione di istituti bancari pubblici? 

Assolutamente si.

 

*Professore di economia politica all'Università di Cassino. Dal 2002 Research Scholar, Levy Economics Institute of Bard College (NY, USA). Autore di "Introduzione alla microeconomia", Giuffrè, Milano.
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