Print
Hits: 5154
Print Friendly, PDF & Email
euronomade

Syriza, l’Europa e la dura legge del Minotauro

Note sulla congiuntura attuale a partire da “Il Minotauro globale” di Yanis Varoufakis

di Miguel Mellino

Politica e mitologiaminotauro

Yanis Varoufakis è balzato definitivamente alla ribalta dopo la vittoria di Syriza in Grecia. L’arrivo di Varoufakis nei labirinti del potere UE – come ministro delle finanze del governo Tsipras – può essere considerato come uno degli effetti più rilevanti del ciclo di lotte anti-austerity che è andato sviluppandosi nell’Europa meridiana, ma non solo, negli ultimi anni. La vittoria di Syriza pone l’UE come mai prima di fronte a un bivio: perseverare in modo diabolico nel proprio dispotismo neoliberista, e confermare così la sua guerra di classe alle diverse popolazioni europee, o cominciare a cedere a un movimento che prima o poi non potrà più contenere, se non ricorrendo a forme di violenza sempre più esplicite. Tsipras e Varoufakis rappresentano oggi qualcosa come il “punto nodale”, per riprendere qui un noto concetto lacaniano, dell’attuale scontro tra l’Europa costituita e l’Europa costituente. Al di là della mitologia costruita dai media soprattutto italiani sui “sembianti” di questi due uomini – ritratti spesso insieme, e che vanno da uno Tsipras cresciuto al “caldo del movimento no global” e della “tradizione della sinistra italiana” (come se questo di per sé fosse garanzia di qualcosa), a un Varoufakis “diverso” perché arrivato in moto al vertice dell’Eurogruppo (in un ibrido tra James Dean e Che Guevara) – sappiamo ancora poco del modo in cui intendono portare avanti la richiesta di una svolta anti-austerity in Europa per affidare unicamente al loro operato nell’ambito delle istituzioni comunitarie, ovvero alla “polizia” (per stare al modo in cui Jacques Ranciére ha definito le istituzioni sovrane moderne), il nostro futuro “politico”. E questo, ovviamente, al di là della buona volontà di entrambi. Forse si può ricavare qualche indizio in più di ciò che potrà accadere da una lettura del libro più importante di Yanis Varoufakis Il Minotauro globale (Asterios, 2012), rimasto misteriosamente in secondo piano (quasi mai citato) negli attuali dibattiti.

 

Nel ventre della bestia: anatomia del Minotauro 

Il punto di partenza del libro è la crisi finanziaria del 2008. Varoufakis identifica subito la causa-luogo della crisi: gli Stati Uniti (in realtà Wall Street) e il suo progressivo divenire dal 1971 (dalla fine della convertibilità del dollaro in oro) un “feroce Minotauro globale”. Come la figura mitologica del Minotauro della Creta minoica, la bestia metà umana metà taurina che rinchiusa nel suo labirinto chiedeva al Re Minosse un regolare tributo di carne umana straniera come condizione della sua tutela della pax-cretese, per Varoufakis gli Stati Uniti non hanno fatto che nutrirsi per trentacinque anni (1973-2008) di esazioni e tributi imposti e prelevati al mondo intero sotto forma di un’appropriazione “unilaterale” delle eccedenze commerciali e monetarie globali, ovvero del convogliamento verso il proprio sistema economico-finanziario di buona parte dei flussi globali di capitali e merci. Varoufakis è estremamente chiaro su questo punto: si tratta della soluzione escogitata dalle élites del capitalismo USA per uscire dalla lunga crisi della stagflazione degli anni settanta e per “riappacificare” un mondo sempre più caotico sotto il loro comando. Il Minotauro globale è stato il prodotto di un’unica e consapevole strategia imperiale, anche se articolata a partire da tre diversi momenti: a) la decisione di Nixon di porre fine alla legge della convertibilità del dollaro nel 1971; b) la concessione di prestiti massicci a basso tasso di interesse a molteplici paesi dell’Est dell’Europa e del Terzo Mondo durante e subito dopo la crisi petrolifera del 1973; c) la decisione di Paul Volcker (presidente della Federal Riserve con Carter e Reagan) di aumentare in modo smisurato i tassi di interesse dei Fed Funds fino a portarli nel 1981 al 19% annuale; d) lo sviluppo del Washington Consensus e di tutte le sue misure improntate a una deregolamentazione globale dei flussi di capitali a partire dagli anni ’80. Tuttavia, il Minotauro, chiarisce Varoufakis, non avrebbe mai potuto vedere la luce senza l’esistenza di altri due “esorbitanti” privilegi della potenza americana, tuttora irrinunciabili per gli USA ed ereditati dalla messa al lavoro globale del sistema di Bretton Woods, ovvero il signoraggio del dollaro in quanto moneta di riserva globale, e la capacità-possibilità (unica al mondo) di stampare dollari senza alcuna restrizione da parte delle istituzioni globali. La finanziarizzazione/neoliberalizzazione del comando capitalistico sono quindi per Varoufakis l’inevitabile prodotto del sorgere di questo mostro. Un mostro, egli ci tiene a precisare, che non era nella linearità delle cose, ma che rappresenta il frutto di scelte politiche. E si tratta di scelte, ricorda Varoufakis, elaborate dalle élites americane per affrontare il proprio crescente e incontrollabile debito pubblico, generato in primo luogo dai costi crescenti della lunga guerra in Vietnam e dall’attuazione del programma di Welfare della “Big Society” lanciato da Johnson nel 1965; attraverso questo programma Johnson cercava di spegnere il fuoco di un conflitto sociale interno sempre più ingovernabile, alimentato dalle insurrezioni sempre più frequenti dei neri nei ghetti, dallo sviluppo del movimento per i diritti civili e dalla crescente povertà ed emarginazione di ampi settori del proletariato bianco, soprattutto al Sud. La metafora degli USA come Minotauro globale è dunque il modo attraverso cui Varoufakis legge lo sviluppo di ciò che chiama la seconda fase (1973-2008) del capitalismo del dopoguerra, ovvero un ciclo economico imperniato su un’egemonia americana diversa, e quindi più fragile, da quella dell’immediato “dopoguerra”, poiché costruita più sulla “nuova” debolezza strutturale del sistema economico-finanziario americano che non sulla sua “vecchia” potenza produttiva. In sintesi, il Minotauro era (e per Varoufakis occorre certamente parlare al passato) causa e conseguenza di un dominio imperiale improntato al governo e al rafforzamento del doppio deficit pubblico e fiscale (bilancia commerciale e bilancia dei pagamenti) americano, e cioè alla produzione e mantenimento con ogni mezzo necessario di un’inversione della direzione globale dei flussi di capitali rispetto alla fase precedente (1945-1973).

 

La crisi, la Troika e la (dubbia) morte del Minotauro

La radice della crisi finanziaria del 2008 per Varoufakis è tutta qui: negli squilibri economico-finanziari prodotti dalla natura diabolicamente insaziabile del Minotauro, assecondata dalle sue diverse “ancelle”: a) gli “spiriti animali” che abitano da sempre Wall Street, ma che con la progressiva finanziarizzazione del capitale sono stati messi in condizioni di esprimersi al meglio; b) il complesso di istituzioni globali (WTO, FMI, Banca Mondiale, Agenzie di Rating) eterodirette dal mostro (potremmo qui aggiungere NATO, ONU e Croce Rossa per completare il quadro di Varoufakis); c) il modello imprenditoriale Walmart, così definito da Varoufakis in quanto simbolo di un capitalismo sempre più “estrattivo”, nella sua combinazione di finanziarizzazione e sfruttamento intensivo della forza lavoro; d) l’attuale UE governata dal mercantilismo neoliberale della Germania e dal monetarismo della BCE. Il 2008 tuttavia è per Varoufakis una data spartiacque, poiché segna la morte definitiva del Minotauro globale: gli Stati Uniti, dal suo punto di vista, sono entrati in una fase di crisi terminale, non riuscendo più ad indirizzare i flussi di capitale verso Wall Street. Ma se il Minotauro è morto, egli precisa, ciò che chiama le sue “ancelle” sono ancora vive e hanno ereditato il potere messo in circolazione dalla bestia: è con esse che dobbiamo fare i conti. Stando al suo ragionamento, quello che un luogo comune oramai diffuso ha denominato “Troika”, altro non è che una sorta di “protesi” rimasta orfana del suo Dr. Frankenstein: i molteplici architetti del Minotauro americano. Per Varoufakis, dunque, la crisi finanziaria del 2008 ha aperto una fase di transizione globale, segnando in modo definitivo il declino degli Stati Uniti come potenza egemone. Fin qui l’analisi di Varoufakis si mostra poco originale: le tesi sul declino economico e politico degli Stati Uniti costituiscono già da qualche anno una sorta di “ordine del discorso”, raccogliendo il consenso non solo di altri autori marxisti come Wallerstein, Harvey e Giovanni Arrighi, ma anche di analisti e scuole che vanno certamente oltre la sinistra politica e accademica in tutte le sue sfumature. Forse per questo il suo testo è passato inosservato nell’attuale dibattito su Syriza e la crisi europea. Tuttavia, su questo argomento, Varoufakis mette a fuoco alcune questioni, pur senza affrontarle fino in fondo, su cui occorrerà tornare, soprattutto alla luce della soluzione “post-neoliberista” alla crisi proposta dall’attuale comando capitalistico occidentale; si tratta di una soluzione non solo tesa a ristabilire in qualche modo proprio le linfe più vitali del mostro (prima di tutto il sistema bancario globale, attraverso massicce iniezioni di denaro pubblico, ma anche l’autonomia e legittimità del comando finanziario avvoltoio), ma di un management della crisi gestito soprattutto dall’amministrazione Obama e quindi ancora eterodiretta dal complesso FED-Wall Street-Dollaro-FMI. Problematico rispetto al discorso di Varoufakis resta anche quanto sta accadendo, per esempio, in Iraq, Ucraina, Siria e Libia e intorno alla gestione del mercato mondiale del petrolio, in cui la storica alleanza tra Arabia Saudita e USA, come accaduto per la crisi energetica del 1973 e il successivo accumulo dei “petrodollari”, si sta configurando di nuovo, oggi attraverso il contenimento anziché il rialzo dei prezzi, come un attacco frontale al resto del mondo: se nel 1973 servì, tra l’altro, per colpire duramente sia le aree concorrenti (Europa e Giappone) sia i paesi del Terzo Mondo che uscivano dal processo di decolonizzazione e optavano per un modello di sviluppo in qualche modo simile a quello dell’URSS, oggi sembra porsi come finalità essenziale lo strangolamento dei paesi produttori emergenti “non allineati” (Venezuela, Russia, Iran, ecc.). Ma torniamo sulla tesi centrale del suo lavoro: Varoufakis sostiene che la forza del Minotauro americano dipendeva esclusivamente dall’essere diventato il principale creditore del mondo; lungi dal divenire una condizione di debolezza o di subalternità, egli chiarisce, nella fase dell’ascesa del mostro l’enorme debito degli USA è venuto a costituirsi, diversamente da tutti gli altri debiti, come un altro dei suoi “esorbitanti” privilegi, come l’unico debito davvero “Sovrano”, sottoponendo con la forza della sua legge il resto dei debiti alla condizione di “sudditi”. Si trattava di una situazione globale che convinse perfino la Germania ad accelerare sulla creazione dell’Euro. Anche se non è mai riuscito a divenire realmente una moneta globale alternativa al dollaro, andrebbe ricordato che l’Euro è nato anche da questa condizione di “subalternità” sempre più difficile da gestire per le economie europee. E’ dunque difficile suggerire la “morte del Minotauro” quando molte delle condizioni che resero possibile la sua nascita sono ancora in grado di “surdeterminare” lo scenario politico e geopolitico mondiale: il dollaro resta ancora la moneta di riserva mondiale; la potenza militare americana continua a esercitare su acqua, terra, mare, e si può dire anche sul settore delle “telecomunicazioni” globali, il proprio potere a livello globale; Wall Street (con la sua protesi della City Londinese) è ancora l’ingranaggio centrale del comando finanziario globale; il gigantesco debito pubblico americano continua a essere il grande (de)stabilizzatore del comando capitalistico globale; la UE continua a comportarsi come “ancella” o “vassalla” politica, finanziaria e militare degli interessi messi in moto dal Minotauro. Sia chiaro: suggerire che si tratta di condizioni ancora in grado di “surdeterminare” lo scenario globale, non significa considerarle come dei Leviathan o dei Moloch invincibili, bensì ricordare che con esse qualunque tipo di programma politico “alternativo” deve fare in qualche modo i conti. Se si accettano le nostre obiezioni, è chiaro che continuare a parlare di “Troika” in riferimento al comando capitalistico europeo può avere un significato del tutto fuorviante, “ideologico” nel senso marxiano del termine. A parte l’orientalismo e l’anticomunismo anacronistico messi in moto da tale significante, ci sembra che si tratti di un termine eccessivamente semplificatorio: non siamo di fronte a una “Troika”, ovvero a una burocrazia politica arroccata ai proprio posti di comando in modo ostinato e irrazionale, e capace di gestire in modo “autonomo” il proprio potere, come una certa banalizzazione del pensiero di Foucault oggi assai diffusa sembrerebbe proiettare sulla tipologia di questo soggetto, ma a qualcosa di ben più complesso e di cui il testo di Varoufakis, malgrado le sue conclusioni in merito, offre un’ottima genealogia. Forse il limite fondamentale del suo discorso, come di molte delle altre tesi sul declino degli USA, sta nel non soffermarsi più di tanto su che cosa intenda effettivamente per declino, al di là di un generico riferimento al presunto ridimensionamento dell’apparato produttivo industriale americano, all’emergere per la prima volta sin dal dopoguerra di un potenziale concorrente capitalistico alla pari (la Cina con i cosiddetti BRICS) o alla presunta ingovernabilità del sistema politico mondiale. Su quest’ultimo punto, poi, la “balcanizzazione” o “instabilità” che ha caratterizzato i territori rasi al suolo dal Minotauro e dalle sue ancelle negli ultimi anni (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e ora potenzialmente Ucraina e Siria) non sta a significare di per sé il fallimento della strategia globale del Minotauro e delle sue protesi. Se guardiamo alla storia coloniale e imperiale dell’Occidente, emerge anche a uno sguardo superficiale che la strategia di balcanizzazione – e il puntare su rivalità o fazioni interne alle “colonie” e sulle “borghesie compradoras” – è stata una delle modalità centrali di dominio. E poi: chi ha mai creduto che gli interventi militari in queste zone fossero davvero finalizzati a una qualche stabilizzazione “democratica”? E’ chiaro che in un secondo momento le cose possono sempre sfuggire di mano – è sempre accaduto, e oggi sta accadendo, ad esempio, con l’Isis, prima alleato-strumento e ora rivale della “comunità internazionale”. Come più volte detto, l’Isis è un’internazionale sunnita (retriva e fascista) finanziata dai “petrodollari” sauditi la cui forza si basa certamente sul potere economico e sulla capacità di sostentamento e redistribuzione (sotto forma di un reddito mensile) nei confronti dei suoi militanti o affiliati, ma andrebbe anche aggiunto che trae buona parte della sua linfa dal risentimento che frazioni importanti dei ceti popolari e anche medi e intellettuali musulmani hanno accumulato in diverse zone del mondo (comprese le metropoli nel cuore dell’Europa, come mostrano i fatti di Charlie Hebdo) verso il mondo occidentale, dopo decenni di violenze e umiliazioni subite. A noi dunque sembra più utile, a livello politico e geopolitico, parlare di transizione aperta dalla crisi dell’attuale modo di accumulazione globale di capitale che non di declino degli Stati Uniti tout-court. Si tratta della crisi di un modo di accumulazione globale del capitale che è venuto a fondarsi sempre di più sulla violenza della finanza, della rendita e di uno sfruttamento del lavoro sempre più “estrattivo”, “razzializzante” e “gerarchizzante”: un modo di accumulazione sostenuto e alimentato da un blocco di potere occidentale sicuramente transnazionale, ma che ha avuto nelle classi dirigenti americane ed europee degli ultimi decenni la sua leva centrale di comando politico. In sintesi, gli Stati Uniti sono al centro della crisi, ma anche del suo management: ed essi giocheranno la loro partita fino in fondo. Ci sembrano argomenti ineludibili di qualsiasi agenda politica “anti-austerity”, poiché dare corso a un’agenda economica in qualche modo anticiclica significherà automaticamente doversi collocare materialmente nei confronti di tutte queste variabili.

 

L’Europa tedesca è l’Europa americana

Varoufakis dedica le pagine più originali del suo lavoro all’analisi del ruolo della UE all’interno del sistema capitalistico globale degli ultimi decenni. Egli parte giustamente da lontano: dalla stessa costituzione della UE come sistema politico-economico incentrato sulla progressiva integrazione transnazionale dei diversi mercati nazionali. Come prima cosa, Varoufakis ricorda che il vero precursore della CECA–UE è stato il Piano Marshall, ovvero quello che fu la pietra angolare del “nuovo piano globale” (così Varoufakis chiama il sistema nato a Bretton Woods) ideato dagli architetti del New Deal per “salvare il capitalismo da una crisi irreversibile”. Il ragionamento di Varoufakis è semplice: di fronte alla minaccia comunista proveniente dall’Est sovietico e alla paura di una nuova crisi globale come quella del 1929 (ancora piuttosto presente nella memoria dei principali architetti del New Deal, egli precisa) le élites americane decisero di fondare il sistema globale nascente sull’integrazione progressiva (anziché sulla distruzione totale del loro apparato produttivo, come era stato ipotizzato in un primo momento) di Germania e Giappone come “trading states” (stati esportatori), ovvero come stati finalizzati soprattutto all’esportazione di beni industriali principalmente, almeno all’inizio, negli Stati Uniti. Nel caso dell’Europa, la rinascita industriale della Germania (politicamente controllata in quanto paese “occupato”) doveva fungere da traino all’intera ricostruzione dell’economia europea. Varoufakis ricorda poi che la condizione posta dagli americani “per spartire qualcosa come il due per cento del loro PIL annuale era l’abolizione delle barriere doganali intraeuropee e un processo di integrazione economica che si sarebbe sempre di più incentrato sulla rinascente industria tedesca”. Per questo, egli aggiunge, è indiscutibile che “senza la guida degli Stati Uniti la CECA non avrebbe mai visto la luce”. Il progetto americano dell’integrazione europea doveva soddisfare però anche altre esigenze fondamentali del “nuovo piano globale”: a) la nascente CECA doveva al tempo stesso costituirsi come “spazio vitale” dell’economia tedesca e favorire il processo di dollarizzazione dell’Europa (in modo da rendere la dipendenza europea dagli USA più solida e duratura), uno stato di cose che non avrebbe fatto che alimentare ulteriormente la domanda di beni dagli Stati Uniti; b) il Marco era destinato a rappresentare (con lo Yen) uno dei due principali supporti del dollaro in quanto moneta globale, ovvero una delle altre due monete forti in grado di costituire un’area di rifugio del capitale globale in caso di crisi o recessione momentanea dell’area del dollaro. In questo modo, ricorda Varoufakis, il sistema nato a Bretton Woods realizzava qualcosa di inedito nella storia del capitalismo: l’incorporazione degli sconfitti nel “dispositivo centrale di governo del mondo” per sostenere e incentivare “la stabilità globale dell’economia capitalistica”. E questo perché gli architetti del “nuovo piano globale”, ci dice sempre Varoufakis, erano del tutto consapevoli, dopo la traumatica esperienza del 1929, che un sistema davvero globale non poteva reggersi sul primato incontrastato di un un’unica moneta (il Dollaro) e di un’unica regione-monetaria-industriale. Si trattava dunque di un tentativo non solo di vasta scala, ma “sorprendentemente ambizioso di superare gli imperialismi multipli e in conflitto che avevano caratterizzato l’economia politica mondiale fino alla Guerra dei Trent’anni”; e il cui obiettivo fondamentale, prosegue Varoufakis con un tono di grande ammirazione e di sentita stima per gli architetti “keynesiani” del New Deal, era quello di “cercare un futuro più sicuro per il capitalismo” a partire dalla costruzione di una rete economica globale interdipendente fondata sull’integrazione di tre zone monetarie-industriali in cui “la zona del dollaro doveva restare quella predominante”. Varoufakis finisce il suo excursus sulla genealogia della UE così come lo aveva cominciato, e cioè affermando che la tesi – raccontata spesso agli studenti dell’integrazione europea – secondo cui la UE sarebbe nata da un bisogno europeo di creare un baluardo (incentrato sulla pace, sull’estensione dei diritti e sul libero mercato) contro il capitalismo selvaggio americano “sembra non essere altro che un mito della stessa creazione dell’Unione Europea”. Tuttavia, va precisato che quello che sembra una critica dell’Europa è in realtà un elogio dell’America del New Deal e delle capacità dei suoi architetti di generare un “piano globale” di sviluppo in cui gli stessi Stati Uniti avrebbero sacrificato buona parte del loro benessere in favore di una sua più equilibrata (e quindi pacifica) redistribuzione globale. A noi la genealogia di Varoufakis sembra comunque importante, al di là delle sue conclusioni, poiché potrebbe tornare ancora utile nella comprensione della ripetuta subalternità mostrata dalla UE nei confronti del neoliberismo e del suo comando globale. Inoltre, questa parte del testo di Varoufakis potrebbe completare in modo efficace le genealogie e l’analisi delle governamentalità neoliberiste abbozzate da Foucault in La nascita della biopolitica e da Christian Laval e Pierre Dardot in La nuova ragione del mondo, nel senso che finirebbe di spiegare (forse) i motivi della magica confluenza europea di ordoliberalismo tedesco e neoliberalismo americano sancita nella stessa Costituzione UE. Diciamolo in modo più diretto: il testo di Varoufakis renderebbe meno complesso comprendere perché la UE abbia deciso di consegnarsi così dolcemente all’abbraccio letale e necrofilo del Minotauro. E’ l’arrivo sempre più imminente del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) non farà che consegnare ulteriormente il continente alla fauce del mostro.

 

Tra l’incubo del Minotauro e il sogno (post-keynesiano?) di una nuova Europa

Varoufakis dedica pagine assai originali e convincenti anche alla ricostruzione americana del Giappone, ma soprattutto al ruolo che la guerra di Corea (prima) e quella in Vietnam e nel resto dell’Indocina (poi) hanno avuto come “spazio vitale” nello sviluppo dell’economia giapponese e, in modo indiretto, dell’emergere delle cosiddette “tigri asiatiche”. Un processo la cui onda lunga è alla base anche dell’apertura della Cina (siglata nel 1972 tra Kissinger e Mao) all’economia capitalistica. Anche in Asia, ricorda Varoufakis, gli architetti del “nuovo piano globale” cercarono di riprodurre, con i dovuti accorgimenti in virtù delle differenze tra l’Asia e il vecchio continente, la stessa ricetta riservata alla Germania e all’Europa occidentale: l’incorporazione strategica di diversi stati asiatici come “trading states” nei meccanismi dell’economia globale. Si tratta di una strategia alla base della stessa ascesa della Cina, anche se qui, come sappiamo, e per ragioni su cui non possiamo soffermarci in questa sede, non si è ripetuto lo stesso processo di subalternizzazione americana del resto dei paesi asiatici (compreso il Giappone). Come diversi analisti hanno messo in luce, la forte dipendenza dei paesi del Sudest dell’Asia dal capitale e dal comando del Minotauro è venuta chiaramente alla luce con la grave crisi finanziaria che ha colpito questa regione nel 1997. Varoufakis ricorda giustamente che la ricostruzione di questa regione dell’Asia è fortemente dipesa anche da una sorta di “keynesismo di guerra” americano (un tessuto fatto di eserciti e basi militari da rifornire, logistica da sviluppare, ecc.) dislocato nel pacifico e durato circa venticinque anni. Se si accetta il suo ragionamento, la sconfitta americana in Vietnam andrebbe riletta sotto una lente meno manichea e a partire dai suoi effetti di “lunga durata”: gli Stati Uniti hanno perso, chiaramente, ma da un altro punto di vista forse hanno anche vinto. Il “neoliberismo come eccezione”, per riprendere il titolo del noto testo di Ahiwa Ong, stringe la sua morsa da decenni anche in Asia e, da qualche anno, ha esteso la sua influenza anche in Vietnam. Lo stesso discorso vale per una riconsiderazione di tutte quelle tesi marxiste e non che già a partire dagli anni ottanta (Wallerstein, Arrighi, Harvey, Brenner, ecc.) vedevano l’ascesa di Germania (Europa) e Giappone come altro “sintomo” della “fine” del Secolo americano: credo che quanto è successo dagli anni Novanta in poi abbia mostrato abbastanza chiaramente la totale subalternità di queste due macro-aree economico-monetarie alla dura legge del Minotauro. E’ quanto si può desumere dal ragionamento di Varoufakis, anche se, come abbiamo precisato, egli non ne trae la stessa conclusione. Tuttavia, vi sono altri enunciati del suo testo che risultano difficilmente condivisibili. In primo luogo, appare piuttosto bizzarra l’idea secondo cui quello che si può chiamare la “contro-rivoluzione globale” americana nel Terzo Mondo, ovvero il loro interventismo militare (e non) in favore della “strategia del contenimento” negli anni della Guerra Fredda, fosse finalizzata semplicemente a garantire petrolio e altre materie prime a basso costo ai paesi-regioni (Europa e Giappone) pilastro del “nuovo piano globale”. E’ però una tesi del tutto in sintonia con la sua idea di un “altruismo americano” alla base del “nuovo piano globale” e quindi con la sua ammirazione degli architetti del New Deal, il cui sguardo inclusivo e di lunga portata è qui considerato di tutt’altra natura rispetto quella che muove gli appetiti voraci, sanguigni e immediati del Minotauro. Certo, sorprende non poco questa sua visione del tutto “impolitica”, se così si può dire, della costruzione dell’ordine globale americano di Bretton Woods; e, cosa più rilevante, sembra tradire una concezione alquanto “ideologica” del capitalismo e della sua storia (del tutto interna alla grammatica di quelli che Marx chiamava gli “economisti borghesi”): non vedendo le continuità con il passato coloniale dell’agire degli USA nell’ex Terzo Mondo, omettendo non solo la storia imperiale degli USA sin dalla loro nascita, ma anche il loro rilevamento delle vecchie potenze coloniali negli anni della Guerra Fredda (prima di tutto in Vietnam) per imprimere al processo di decolonizzazione globale una logica “neo-coloniale”, divenuta realtà materiale negli anni Settanta con la concessione dei prestiti alla base del loro indebitamento attuale, Varoufakis finisce per lasciare in secondo piano un elemento essenziale del comando capitalistico, ovvero il suo intreccio storico e costitutivo con “dispositivi coloniali” di dominio e di gerarchizzazione, e quindi di produzione delle soggettività. Di qui forse la quasi totale assenza nel testo di un qualche riferimento al governo delle migrazioni in quanto parte essenziale del dispositivo di gerarchizzazione neoliberista del lavoro e della cittadinanza agito dal Minotauro anche negli Stati Uniti. Sia chiaro: non occuparsi della centralità del colonialismo e dell’imperialismo nella storia può non essere di per sé una critica: il problema è che il discorso di Varoufakis – nella sua ammirazione per il New Deal – appare eccessivamente incentrato sulla fiducia nelle possibilità di ricostituire un capitalismo “normalizzato” o “regolato”, una sorta di post-keynesismo improntato più all’egemonia globale che non alla “violenza estrattiva” dell’attuale capitalismo neoliberista. Si tratta di un’impostazione che avvicina le sue posizioni a quella di David Harvey o di Giovanni Arrighi e che finisce per considerare colonialismo, razzismo, imperialismo e, infine, neoliberismo, come una sorta di “deviazione” o “eccezione” (politica, culturale) storica di una presunta “norma” del rapporto capitalistico. Come è noto, Dipesh Chakrabarty ha messo bene in luce nel suo Provincializzare l’Europa quanto non sia mai esista una “norma” del rapporto di sfruttamento capitalistico. Da qui forse altri due elementi problematici del testo d Varoufakis: il primo riguarda la mancanza di ogni riferimento (se non in modo del tutto indiretto) alla “lotta di classe” come fattore chiave nelle crisi di accumulazione e quindi nello sviluppo del modo di produzione capitalistico. Poco o nulla ci viene detto nel testo delle lotte operaie negli Stati Uniti e in Europa durante i “Trenta gloriosi” o dello sviluppo dei movimenti sociali globali dagli anni novanta in poi. E, ancora più sorprendentemente, non vi è alcuna menzione né del ruolo determinante delle rivolte popolari dell’America Latina, a partire da quella zapatista fino a le grandi insurrezioni di massa in Argentina, Bolivia ed Ecuador, nella crisi del “Consenso del Minotauro” né della svolta “progressista” che, pur con molte contraddizioni, sta caratterizzando la politica del continente da qualche anno a questa parte. Si parla tanto delle analogie tra la situazione della Grecia e il collasso del neoliberismo in America Latina, ma stranamente non ne troviamo alcuna traccia nel lavoro di Varoufakis. Si tratta di un silenzio che andrebbe forse interrogato. Nel complesso Varoufakis, pur non soffermandosi più di tanto sull’argomento, sembra vedere le crisi capitalistiche come un mero prodotto ciclico della “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Nel suo considerare tra le principali cause della stagnazione attuale l’annichilimento del lavoro intrinsecamente umano prodotto dal suo disciplinamento crescente in nome della redditività e dallo sviluppo tecnologico Varoufakis sembra seguire in qualche modo il marxismo di Robert Brenner. Nel caso del “New Deal” prima e del “Minotauro globale” poi, egli riconduce le cause della crisi a un fattore ben preciso: “la mancanza di un meccanismo di riciclo più egalitario delle eccedenze e degli squilibri economico-finanziari globali tra le regioni più ricche e quelle più depresse”. Detto in termini semplici, per Varoufakis gli enormi squilibri tra regioni ricche e depresse, tra stati con grandi surplus commerciali e monetari e stati con deficit crescenti, andrebbero corretti con la creazione di meccanismi istituzionali in grado di dirottare nelle aree depresse le eccedenze prodotte in quelle con più surplus. Chiaramente, la proposta è ancora vaga per dire qualcosa in merito. Tuttavia, a un primo sguardo, si tratta di una soluzione poco praticabile, non solo a causa delle dinamiche intrinsecamente concorrenziali, conflittuali e quindi potenzialmente non-regolabili dello Juggernaut capitalistico, almeno entro la logica del suo modo di produzione, ma soprattutto perché il problema degli squilibri, per stare al discorso di Varoufakis, non sta solo a monte (nelle eccedenze già prodotte), bensì a valle, ovvero tanto nell’impossibilità di realizzare tale massa di profitti se non a condizioni ulteriormente redditizie per il capitale (almeno in una situazione di normale Rule of Law capitalistica) quanto nelle modalità stesse di appropriazione – sempre più violenta e predatoria – della ricchezza socialmente prodotta. Non è quindi soltanto una questione di “polizia”, per tornare a Ranciére, ma di “politica”. Si tratta di un punto importante, poiché è soltanto da qui che può partire una reale svolta anti-austerity: solo aprendosi alle istanze, alla forza, all’organizzazione e alla riappropriazione costituente che i movimenti sociali europei sapranno costruire.

Da questa UE, come si può desumere dal libro di Varoufakis, non possiamo aspettarci nulla: e l’atteggiamento minatorio ed estorsivo nei confronti del governo greco non fa che confermare questo stato di cose. Al di là della specificità dell’accordo raggiunto ieri tra governo greco ed Eurogruppo, è presto per dire se Tsipras e Varoufakis saranno in grado di farci avere qualcosa di più di un cappio al collo meno stretto. Certo, chiedere alla UE di cambiare politica come se si trattasse di cambiare vestito significa, nei migliori dei casi, non aver compreso bene che cos’è che si ha di fronte, nel senso che, come abbiamo cercato di mostrare, dare corso a una reale svolta anti-austerity rappresenta rompere di fatto con una serie di politiche che sono la stessa la ragion d’essere della Ue come dispositivo di governo. Il trionfo di Syriza resta un punto di partenza, e tra poco ci sarà la Spagna e Podemos: è chiaro però che se non vogliamo lasciare il campo libero alle risposte più regressive alla crisi il momento di dare vita a un’altra Europa es ahora! La mobilitazione convocata da Blockupy il 18 Marzo a Francoforte viene così a configurarsi come un evento di estrema rilevanza.

Web Analytics