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ideecontroluce

Il teorema di Maastricht e la sua confutazione

di Davide Tarizzo

138467547 d7fc721a41 zL’attuale strozzatura della vita democratica in Europa si può ricapitolare in un solo e unico teorema, che non si può ridurre al teorema dell’euro, già ampiamente smentito dai fatti, ma va identificato con il teorema di Maastricht, più inclusivo e insidioso del primo. In base a questo teorema, l’integrazione economica tra i vari paesi europei può essere disgiunta, come di fatto accade tuttora, dalla loro integrazione politica. Ciò implica una lunga serie di conseguenze che non erano difficili da prevedere: una delle più rilevanti è che paesi con discrepanti legislazioni sul lavoro saranno lasciati competere in un mercato unico, affidando al capitale la valutazione sulla legislazione più conveniente per il capitale stesso. I capitali tenderanno, di conseguenza, a concentrarsi là dove i salari sono meno tutelati, per incrementare i profitti, mentre i paesi in cui i salari sono più protetti tenderanno ad adeguarsi e ad abbassare le tutele sul lavoro, per recuperare competitività, in una spirale al ribasso senza fine. Questo processo è automatico e oggettivamente inevitabile se l’integrazione economica non è preceduta da, o associata a, una qualche forma di integrazione politica. È inevitabile perché le legislazioni nazionali sono così lasciate in balia del capitale, che tende automaticamente, necessariamente, oggettivamente a fare i propri interessi. È questo che chiamo il teorema di Maastricht.

In queste condizioni è oggettivamente impossibile perseguire politiche di sinistra, vale a dire politiche di tutela dei salari e dei diritti sociali. Ciò significa, di riflesso, che la vita democratica è oggettivamente dimidiata. I partiti di sinistra sono oggettivamente obbligati a fare politiche di destra. Tutti ricordano la descrizione orwelliana della neo-lingua del Grande Fratello: “La guerra è pace, la schiavitù è libertà, l’ignoranza è forza”. Nel nostro caso, la destra è sinistra. Non c’è più distinzione o dialettica democratica. Si entra in un regime di pseudodemocrazia. Di qui la domanda che inquieta certuni: siamo forse al capolinea della democrazia?

Personalmente, non lo credo. Quello che stiamo vivendo è uno stallo della democrazia, da cui c’è una sola possibile uscita: il ripristino dei normali processi democratici. Lo stallo potrebbe durare ancora a lungo, peggiorando la situazione economica di larghe fasce della popolazione, ma alla fine usciremo dallo stallo, e l’uscita dallo stallo sarà segnata dal risveglio della sinistra, dalla sua ritrovata capacità di distinguersi dalla destra e di accendere nuovamente il conflitto democratico. Le ragioni che mi fanno dire questo si ricavano da un’analisi della crisi in corso leggermente diversa da quelle più in voga. Qual è la natura della crisi in Europa?

Si tratta di un conflitto tra capitalismo e democrazia? Si tratta di un capitolo particolarmente aspro della storia della finanziarizzazione del capitale e della deregulation neoliberale avviata alla fine degli anni Settanta? Di sicuro esiste una precisa continuità storica tra la Reaganomics e la costruzione dell’unione economico-monetaria europea. Al centro delle due vicende c’è lo stesso manipolo di economisti e lo stesso pensiero economico, che attende ancora lo storico capace di liberarci dai fumi delle etichette suggestive ma piuttosto vaghe: Robert Mundell è stato il protagonista principale della nouvelle vague “neoliberale” degli ultimi trent’anni. A lui, e allo stuolo di economisti seguaci del mundellismo, che è l’esatto rovescio del keynesismo, noi tutti siamo debitori, letteralmente, sulle due sponde dell’oceano. E sarebbe ora di dare a quest’uomo i tributi che merita, ben più significativi del premio Nobel conferitogli nel 1999, anno di entrata in vigore dell’euro.

Detto questo, la crisi europea non è una semplice crisi economica, ragion per cui non la si può imputare unicamente a scelte, di per sé discutibili, in materia di politica economica. La crisi europea è una crisi istituzionale. La differenza tra le due sponde dell’oceano si fa sempre più chiara ogni giorno che passa. Nessuno in America ha mai messo in discussione il principio del governo democratico della cosa pubblica negli ultimi trent’anni. Mentre è proprio questo che si sta verificando oggi in Europa. Il Teorema di Maastricht prevede che sia non difficile, bensì oggettivamente impossibile attuare politiche di Sinistra nei paesi che fanno parte del mercato unico. Questa impossibilità corrompe alla radice il principio stesso della democrazia. E questa impossibilità non è di natura economica bensì istituzionale. Il risultato è che siamo scivolati in una fase costituente di durata indefinita ma priva in sé e per sé di qualsiasi sbocco: la forma di governo democratica è stata oggettivamente invalidata in Europa senza riuscire a sostituirla con una forma di governo alternativa. La legittimità politica delle istituzioni europee viene a sua volta intaccata da un simile, grandioso pastiche istituzionale. La fine è scontata, sul piano politico prima ancora che economico. La fine sarà la fine del Trattato di Maastricht.

Le forme di governo non si improvvisano, sono il prodotto di prolungate fasi di maturazione storica e sedimentazione culturale. Dato che il progetto di sciogliere i vari popoli europei in un unico popolo e di dare vita a una democrazia europea è stato ed è tuttora respinto dalla volontà dei popoli stessi, dato che tra un cittadino tedesco e uno greco non esiste nulla di paragonabile a un vincolo di solidarietà nazionale, e dato dunque che né una condivisione dei debiti pubblici né una condivisione delle politiche estere né altre forme di condivisione democratica sono prevedibili a breve tra i popoli europei, l’esito di questa crisi istituzionale sarà un ripristino delle democrazie nazionali come uniche forme di governo legittime. Lo dicono ormai in tanti, Dani Rodrik tra questi, con particolare lucidità. Ma per capirlo, e da tempo, bastava in fondo leggersi La democrazia in America di Alexis de Tocqueville. Ciò avrebbe consentito, tra l’altro, di evitare spericolati raffronti tra la difficile, tortuosa costruzione degli Stati Uniti d’America e il “sogno”, troppo facile per essere vero, degli Stati Uniti d’Europa.
Siamo allora destinati a regredire, a tornare indietro nel segno di un rinnovato nazionalismo, quale, per esempio, quello propugnato da Marine Le Pen? Saranno i movimenti nazionalisti a spingerci fuori dal guado? Non è detto. Tutto dipende dal ruolo che la sinistra saprà svolgere in questa fase di transizione. Il segno che avremo superato la crisi istituzionale sarà dato, in ogni caso, dal ripristino di un agone democratico tra destra e sinistra, anche qualora siano le destre reazionarie a guidare il processo. Realisticamente, tuttavia, ritengo che quest’ultima eventualità potrebbe realizzarsi solo a patto di un ulteriore, severo inasprimento della crisi, sia politica che economica. Esiste un’inerzia dei processi storici di cui occorre tener conto. È, se non impossibile, assai difficile che i popoli europei siano pronti a cancellare trent’anni di storia in un batter d’occhio. I legami che stringono assieme gli Stati membri non sono solo economici, ce ne sono molti altri di natura giuridica e amministrativa. Schengen e il diritto europeo, per citare due capisaldi non economici dell’Europa odierna, sono conquiste di cui non sembra realistico prevedere la fine facile e repentina, a meno di non pensare appunto a violenti scossoni politici, nutriti da una forte esasperazione dei popoli europei. Ciò significa, per non farla troppo lunga, che si sta aprendo una fase di stagnazione e di lenta, progressiva decomposizione democratica non solo delle mura marce, le prime destinate a venir giù, ma anche delle mura buone della costruzione europea. È in questo interstizio della storia che la sinistra europea ha l’opportunità, e forse il dovere, di inserirsi per evitare il crollo completo dell’edificio europeo e l’unica vera catastrofe che si profila all’orizzonte: la catastrofe politica, non quella economica (che è già in corso da un pezzo), la catastrofe delle frontiere ritrovate, dell’irrigidimento identitario, del razzismo e della xenofobia.

Appiattirsi sulle posizioni reazionarie delle destre nazionaliste, intonare un inno alla nazione, progettare addirittura uno strano Partito della Nazione, non pare una scelta lungimirante né, soprattutto, caratterizzante. Se l’Europa si disgregherà in maniera caotica, chi capitalizzerà i violenti rigurgiti di nazionalismo sprigionati dalla nuova congiuntura politica saranno i partiti tradizionalmente nazionalisti, non i partiti della sinistra, e questo anche là dove le destre oggi paiono attestarsi su percentuali di consenso piuttosto ridotte e contenute. La grande mobilità del consenso è un altro dei fattori di cui occorre tener conto in frangenti come questi. Al di là poi della convenienza elettorale, resta il fatto che una sinistra camuffata da destra non è la sinistra.

Io mi sto chiedendo, invece, quale spazio di manovra politica ci sia per la sinistra ora in Europa. Non è vero che non esiste spazio di manovra. Non è vero che non esiste alternativa. Non è vero, per finire, che l’unica alternativa per la sinistra sia quella di travestirsi da destra. La sinistra, che per tradizione, in Italia e altrove, è e resta europeista, non ha che da scegliere di essere se stessa, optando per l’unica soluzione ormai possibile: riscrivere i Trattati.

Riscrivere i Trattati non significa semplicemente uscire dall’euro, formula che di per sé non ha molto significato, a meno di non farla seguire da un numero variabile di corollari. Riscrivere i Trattati non significa nemmeno abolire i Trattati, cancellare i Trattati, punto e a capo, formula delle destre reazionarie alla Le Pen. Riscrivere i Trattati significa proprio riscrivere i Trattati. Come farlo? Con chi farlo? In che modo riuscirci? Proverò a illustrare more geometrico quale dovrebbe essere il primo passaggio. Sono convinto che, comunque vadano le cose, il processo storico imboccherà, prima o poi, la strada che sto per indicare. Questo non significa che sia la strada buona. Potrebbe anche essere una strada che non conduce da nessuna parte, lasciando alle destre reazionarie il compito di gestire la confutazione del teorema di Maastricht. Non si arriverà però a un esito così infausto senza aver tentato prima la strada che sto per segnalare, o una simile, se non altro perché i costi politici, storici e perfino psicologici di una regressione reazionaria saranno molto alti e ci vorrà parecchio tempo prima che i popoli europei accettino davvero di accollarseli a colpi di violenti strattoni politici.

1) Se l’idea è quella di riscrivere i Trattati, e dunque provare a rifondare l’Unione Europea su basi diverse da quelle stipulate a Maastricht, questa operazione non potrà che essere discussa, negoziata e concertata a livello europeo, passo dopo passo.

2) Tra le forze politiche europee, sole le sinistre possono assumersi una iniziativa del genere. Le destre reazionarie alla Le Pen fanno rotta verso un paesaggio politico diverso, rigidamente nazionalista e anti-europeo. Il resto delle forze politiche, che potremmo anche definire destre istituzionali, sono e resteranno fino alla fine i portavoce del Teorema di Maastricht.

3) Ne consegue che la sede appropriata, nonché l’unica possibile, per avviare un processo di rinegoziazione e riscrittura dei Trattati è qualcosa di simile a una Convenzione della Sinistra Europea, che raccolga idealmente tutti i partiti affiliati al Partito Socialista Europeo e tutte le altre forze di ispirazione socialista che esistono nei vari Stati membri (Syriza e Podemos, ma anche Die Linke, Front de Gauche, Sel, e altri) e premono per un’uscita dallo status quo.

Si tratta di una strada stretta e accidentata, come si capisce al volo. Per adesso, da molte parti nella sinistra europea non esiste la volontà politica di imboccarla, per due ragioni: primo, non esiste una piena consapevolezza della natura dei problemi che abbiamo di fronte; secondo, il personale politico, anche a sinistra, ragiona spesso solamente nella prospettiva del successo e dell’affermazione personale. Si vuole sopravvivere politicamente, costi quel che costi, per cui si sceglie la via più comoda e sicura per durare, che al momento è ancora quella di piegarsi al Teorema di Maastricht, assecondando la domanda di un elettorato che vuole la tranquillità e chiede, più di ogni altra cosa, di essere tranquillizzato.

C’è poi un terzo motivo per cui l’idea di una Convenzione della Sinistra Europea, chiamata a ragionare su una riscrittura dei Trattati e su una ridefinizione dell’architettura istituzionale della UE, potrebbe trovare scarsa eco: la risposta della sinistra tedesca. Da cento anni a questa parte, nei momenti cruciali della storia europea, la sinistra tedesca ha fatto prevalere i vincoli di solidarietà nazionale con il resto dei cittadini tedeschi sui vincoli di solidarietà sociale (o di classe) con il resto dei cittadini europei. Perché dovrebbe cambiare idea proprio adesso? Non sono state forse le riforme Hartz, promulgate dal governo Schroeder, una delle concause della recessione economica nei paesi meridionali dell’eurozona?

Ma mettiamo pure che dalla Germania nessuno si muova, nemmeno Die Linke, dove figura un personaggio di spicco della Sinistra, Oskar Lafontaine, che da tempo denuncia la trappola di Maastricht. E mettiamo pure che alcuni grandi partiti socialisti, dalla Spagna alla Francia, non aderiscano all’invito, per miopia o per biechi interessi personali. Già solo il fatto di formulare l’invito e di porre le questioni sul tappeto, con chiarezza e onestà, non consentirebbe di fare un primo passo nella direzione giusta? Non consentirebbe di aprire un dibattito democratico sul futuro dell’Europa, in Italia e altrove, smarcandosi dalle posizioni della destra, e senza tra l’altro suscitare paure eccessive nei mercati finanziari, sensibili alla possibile uscita di questo o quel paese dall’eurozona ma meno sensibili, con ogni probabilità, all’apertura di un dibattito di assai più ampio respiro? Non potrebbe aiutare a diffondere tra i media, che sono uno degli snodi della crisi attuale, una versione più aderente ai fatti della congiuntura storica e politica, non solo economica, che stiamo attraversando? Non è, insomma, qualcosa che andrebbe fatto in ogni caso? Non è qualcosa su cui varrebbe la pena scommettere politicamente, sforzandosi di riallacciare un legame di fiducia con i cittadini, dando loro fiducia prima di chiedere la loro fiducia, in attesa di un riscontro che premi questa scommessa e ristabilisca il circolo virtuoso della democrazia, dove a una corretta rappresentazione politica dello stato di cose fa seguito, se le cose funzionano come dovrebbero, una commisurata rappresentanza elettorale?

Stefano Fassina, in un suo intervento recente, rievocava gli “eroi della ritirata” che guidarono il doloroso processo di smembramento dell’Unione Sovietica. Le parole d’ordine a quel tempo erano glasnost e perestrojka. Per farle nostre qui ed ora occorre trovare il modo di farle pesare nell’arena politica europea. Una Convenzione della Sinistra Europea potrebbe essere un modo di iniziare a smuovere le acque. Sparigliare le carte, anche della sinistra europea, è il minimo che ci si possa attendere davanti al disastro economico, che è il nostro presente, e al disastro politico, che potrebbe riservarci il futuro.

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