Il Keynesismo in un solo paese è impossibile
di Sergio Cesaratto
Di seguito il denso e istruttivo intervento di Sergio Cesaratto al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale", svoltosi a Roma 16 luglio 2015
Cari compagni,
mi sembra che la principale vittima della capitolazione greca sia l’Europa, che definitivamente mostra la sua faccia di istituzione anti-democratica dominata da un solo paese, e con essa l’europeismo utopico di certa sinistra.[1]
La Grecia crollerà in pochi mesi
E’ chiaro che la questione greca non è finita qui. Martedì il FMI ha ribadito, e di rimbalzo la Commissione ha ammesso, quello che tutti sanno, cioè l’insostenibilità del debito greco che o va tagliato o congelato con una moratoria di tre o più decenni. “Extend and pretend”, dicono gli anglosassoni. Questo non vuol dire una vittoria della Grecia (non dico di Syriza perché ormai non possiamo più parlare di un governo Syriza). La Grecia non può pagare e quindi si fa finta che pagherà. Ma l’austerità rimane lì.
E’ facile prevedere (Eichengreen) che l’economia greca, già di nuovo in profonda recessione, crollerà in pochi mesi. Un’Europa minimamente intelligente – perché diciamocelo, l’intelligenza scarseggia – avrebbe offerto alla Grecia già a gennaio (o prima, non c’era bisogno di Tsipras) una moratoria decennale sul debito, incluso il pagamento degli interessi, assumendosi anche quello (più costoso) del FMI e della BCE. In tal modo sarebbe stata offerta a quel paese l’opportunità di sostenere un pochino la sua fragile ripresa attraverso l’utilizzo dei risparmi in conto interessi per sostenere la domanda interna.
Andando indietro, qualcosa del genere andava fatto già nel 2010 quando la Grecia godette del primo “salvataggio” - che cominciò a mettere in salvo le banche francesi e tedesche. Nel 2010 fu la paura di una Lehman Brother europea che fece privilegiare il salvataggio delle banche francesi e tedesche. Più recentemente la paura che anche altri paesi europei chiederebbero la ristrutturazione del debito ha forse frenato i tedeschi (ma la cosa avrebbe riguardato al massimo Portogallo e Irlanda).
Varoufakis può forse aver sbagliato a chiedere una ristrutturazione del debito greco condendola con l‘evocazione di episodi storici che hanno poi contribuito a incattivire i rapporti politici. Non penso proprio che, tuttavia, il presentare il proprio caso in termini tecnici più asettici, magari appoggiandosi al FMI, avrebbe funzionato. Certo il Fmi non avrebbe appoggiato un governo di sinistra. Vi è inoltre la testimonianza di Varoufakis e di Tsakalotos circa il clima intellettuale che si respirava nell’eurogruppo: come parlare in una assemblea di condominio, come discutere di queste cose con la Serracchiani.[2]
Un muro di gomma di politici completamente incapaci di capire un discorso di buon senso, e anche laddove lo fossero stati, annichiliti dal terrore degli sguardi di Schauble (l’unico con le spalle un po’ dritte è forse stato Draghi che proprio non capisco perché è continuamente attaccato). In una intervista, un notevole esponente di Syriza, professore di scienze politiche a Londra, Stathis Kouvelakis, sostiene che la credulità in una solidarietà finale dell’Europa ha condotto il gruppo dirigente di Syriza a ritenere che proposte ragionevoli fossero sufficienti ad attirare la simpatia dei partner.[3]
Modello Von Hayek
Ora l’intelligenza dei partner conta – Keynes a Bretton Wood aveva un avversario, l’americano Dexter White che era però alla sua altezza e niente affatto reazionario (faceva naturalmente gli interessi americani). Il problema è però politico: la solidarietà non è di casa in Europa.
Dobbiamo allora domandarci perché non sia di casa. In un articolo che il manifesto ha badato bene di non pubblicare (e che un caro compagno economista ha definito un pezzo magistrale di teoria economica) cerco di dimostrare con grande semplicità perché.
Negli scorsi giorni c’è stato un coro per cui dalla crisi europea si esce solo con “più Europa”. Nei più avveduti, la necessità che un’unione politica completi l’unione monetaria muove dalla constatazione che quest’ultima non costituisce un’”area valutaria ottimale”. Si argomenta così che un’unione monetaria sostenibile implica un’unione politica, la sola che può garantire che i paesi forti si facciano carico, attraverso un cospicuo bilancio federale, dei paesi deboli. Mentre il mercantilismo tedesco è di ostacolo a tale unione, un argomento più di fondo per dimostrare che un’Europa politica è pur possibile, ma solo con uno Stato minimale, viene da un vecchio saggio di Von Hayek del 1939. La sua argomentazione è che una federazione fra nazioni economicamente e culturalmente disomogenee (si potrà poi ragionare sull’importanza relativa dei due aggettivi) e che controlli un cospicuo ammontare di risorse, non potrà durare a lungo. Essa si fratturerà presto sui criteri di distribuzione delle risorse e/o del potere di allocarle. La fine dell’ex-Yugoslavia è l’esempio più evidente. E basti guardare a quello che è accaduto in questi giorni. Che legittimazione avrebbe avuto un’ipotetica autorità federale europea di andare contro la volontà di molti paesi di non aiutare la Grecia a sollevarsi? Non sarebbe neppure stato troppo democratico, a ben vedere. Questo pone la parola fine al sogno dei più tenaci europeisti per cui il problema dell’euro si risolverebbe completando l’unione monetaria con l’unione politica.
L’astuto Hayek precisa che politicamente sostenibile sarebbe invece uno Stato federale “leggero”, con poco o nessun potere redistributivo e che si occupi solo di regolamentare i mercati e poco altro. Esso sarebbe non solo possibile, ma desiderabile. Per un liberista, naturalmente, non certo per un socialista. E non è un caso che il Rapporto dei 5 Presidenti (Draghi, Junker ecc.) sulla riforma politica dell’UE si rifaccia fondamentalmente al modello Hayek: nessuna funzione fiscale perequativa a Bruxelles, banca centrale monetarista e limitazione all’autonomia fiscale degli Stati nazionali. E’ il modello di Europa ordo-liberista che, a quanto sembra, la Germania si prepara a rilanciare nel dopo-Grecia.
In tal modo si completerebbe il disegno hayekiano che svuota del tutto gli Stati nazionali dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici nazionali del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili (il resto la fa il mercato). Si completa così anche la globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando, ma anche lo Stato si fa evanescente - di esso rimane solo il sorriso beffardo del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente l’indefesso internazionalista ci dirà che a fronte della globalizzazione di Stato e capitale, anche il lavoro si deve internazionalizzare e creare fronti sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca di esempi in questa direzione. L’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e per il socialismo è invece un classico della storia del movimento operaio.
Una nuova Westfalia
L’inaudita violenza tedesca e la conseguente drammatica chiusura dalla vicenda greca con il rafforzamento di austerità e perdita di sovranità per quel popolo, impone che la sinistra prenda coscienza delle ragioni profonde della crisi europea, e smetta di attribuirla a una generica tecnocrazia neoliberista. Vi sono ragioni materiali per cui questa è l’unica Europa possibile ed è quella che le élite desiderano, avvantaggiandosi anche dell’ingenuo europeismo della sinistra. Più che di una nuova Ventotene, l’Europa sembra aver bisogno di una nuova Vestfalia che ripristini la sovranità democratica degli stati europei rilanciando una cooperazione su basi più eque. Questo è il nuovo fronte di lotta per la sinistra.
Io non credo che questi temi possano essere lasciati a una destra cialtrona. Purtroppo gran parte della sinistra – naturalmente non considero il PD qualcosa di sinistra – vive ancora l’illusione europeista. “Devo vendere una speranza”, dunque non la realtà, mi diceva nel 2011 Vendola in un aneddoto reso popolare da Alberto Bagnai nel suo primo libro. Mi domando dove mai potremo andare se, con coraggio, non mettiamo politicamente in un angolo questa gente, anche semplicemente dicendolo loro “ma che cazzo dici” quando emettono fumo. Mi domando se non abbiamo più bisogno di un Bagnai che di alcuni dinosauri presenti alla manifestazione di Fassina, di cui davvero non sappiamo che farcene.
Chiudo con tre punti.
Dalle testimonianze di questi giorni sappiamo che, come ci si poteva attendere, Syriza ha pensato al piano B, ma senza la necessaria convinzione e comunque spaventata dalle conseguenze anche in seguito (i) al timore di non avere le competenze tecniche per gestirla, e (ii) dal non aver ricevuto rassicurazioni adeguate da Russia e Cina (che anzi avrebbero sollecitato la Grecia a rimanere nell’euro).[4] Ci si può domandare, tuttavia, perché la Grecia non abbia mai voluto vedere le carte con Schauble circa un’uscita concordata.
Io credo che le difficoltà tecniche dell’uscita non ci devono irretire.
Non dobbiamo farci ingabbiare dal dilemma euro sì/euro no, ma porre il problema politico dell’insostenibilità democratica e sociale dell’Europa. Se l’euro cade sarà per una sua crisi politica, e questo aiuta perché a fronte di una crisi politica è più probabile che il consesso internazionale cerchi soluzioni politiche consensuali.
Podemos?
Si è detto che la lezione alla Grecia è un avvertimento a Podemos e ad altri che osassero sfidare l’Europa. Podemos ha in un certo senso preso le distanze dalla vicenda Greca affermando che la situazione spagnola è diversa da quella greca. Pur con un debito estero enorme (che è quello che conta), la Spagna si finanzierebbe infatti nei mercati a tassi accettabili, e l’unico debito con l’Europa è il prestito di 50 miliardi ottenuto nel 2012 per ricapitalizzare le banche (Podemos chiede che lo ripaghino le banche medesime). Podemos basa la propria proposta di politica economica sull’assunto che prelievo fiscale e spesa pubblica sono bassi relativamente al Pil rispetto alla media europea. Ciò permetterebbe di applicare un famoso teorema keynesiano detto del “bilancio in pareggio” per cui se si aumenta l’imposizione fiscale e la spesa pubblica di X - diciamo 50 miliardi-, il Pil anche aumenta di 50 miliardi, ottenendo così una espansione con bilancio in pareggio. Tutto bene? No. Podemos sembra trascurare che un’espansione in un paese solo è impossibile in quanto peggiorerebbe i conti esteri (e la Spagna ha già un enorme debito estero).
Mai a sinistra si deve dimenticare l’esperienza di Mitterand del 1981 quando andò al governo con obiettivi keynesiani e si trovò in pochi mesi con un grande disavanzo corrente a favore, beh indovinate di quale paese. La Francia rapidamente abbandonò quelle politiche e si allineò al rigore tedesco divenendo da allora ancella della Germania.
Quali alternative si hanno? Una è l’uscita dall’euro e potersi affidare alla flessibilità del cambio - ma attenzione, l’enorme debito estero spagnolo è in euro, e nelle nuova peseta svalutata aumenterebbe di valore.[5] L’alternativa è il controllo delle importazioni. Si dovrebbe esplorare se nei meandri dei trattati europei v’è spazio per misure emergenziali di questo tipo (ma uno scontro con l’Europa è probabile).
Infine voglio accennare a ciò che colpisce confrontando Grecia, Spagna e Italia: il protagonismo dei giovani. Nei giorni che ho avuto la fortuna di trascorrere ad Atene, o entrando nella sede di Podemos a Madrid, mi ha colpito che il 90% di chi è impegnato è giovane.[6] Per costoro, come mi ha suggerito un colto spagnolo (Manuel Monereo), la questione esistenziale e politica hanno finito per coincidere.
Io credo che uno dei danni della “sinistra” nostrale, sognatrice e poetica, sia stato di non aver guidato ragazzi e ragazze verso la consapevolezza del loro problema esistenziale principale, quello del lavoro, distraendoli su altri temi (per l’amor del cielo importanti) ma fuorvianti, dalla TAV, al MOUS, TTIP e quant’altro, o quello dell’immigrazione (dimenticando che chi non aiuta prima sé stesso aiuta poco e male gli altri). D’altronde il problema dell’occupazione è difficile, e se non si mette in discussione il contesto europeo non si ha nulla da dire.
L’europeismo di certa “sinistra” appare in definitiva una superficiale e deleteria fuga dalle proprie responsabilità storiche e politiche.
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