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Il punto sulla riforma del mercato del lavoro

di Riccardo Achilli

Le indiscrezioni che filtrano dal tavolo della riforma del mercato del lavoro disegnano uno scenario preoccupante, in cui il Governo non recede di un passo dai propositi iniziali, grazie alla sostanziale condiscendenza dei sindacati (Bonanni che dichiara di non voler mollare il tavolo delle trattative, Camusso che, terrorizzata dall'isolamento rispetto ai suoi referenti politici nel PD, e pressata dalle burocrazie interne alla CGIL, timorose di perdere ruolo e funzione, dichiara di non voler a nessun prezzo un accordo separato, nessuno che pensa a forme sia pur simboliche di protesta).

Stante l'atteggiamento generale degli interlocutori di tale tavolo, è del tutto impossibile pensare che possa saltare, poiché un suo fallimento, a questo punto, sarebbe pagato a caro prezzo non soltanto dal Governo, ma anche dai sindacati confederali, che di fatto sulla strategia del dialogo e della mediazione "morbida" hanno puntato tutte le loro carte, rinunciando ad usare gli strumenti della mobilitazione di massa e della contestazione di piazza. A togliere alla Camusso ogni proposito battagliero ci ha anche pensato Bersani, con la sua dichiarazione di oggi, nella quale ha spinto le parti a trovare un accordo, nel nome di una definizione strumentale e mistificatoria del concetto di responsabilità (la responsabilità di un sindacato è quella di difendere i lavoratori con tutti i suoi strumenti, anche quelli conflittuali, non di aderire a principi teorici di "interesse nazionale", quand'anche questi sussistano, che sono compito della politica). D'altra parte, le burocrazie sindacali hanno ottenuto già quanto serve loro per preservare un ruolo formale di rappresentanza ed il loro ben retribuito "posto a tavola" nel sistema delle relazioni industriali prossimo venturo. Il mantenimento della CIG ordinaria e di quella straordinaria, in questo caso sia pur limitatamente alla sola ipotesi di ristrutturazione aziendale e non di crisi, consente infatti di tenere in piedi i tavoli di trattative aziendali e governativi che sembrano essere l'unico motivo di esistenza di organizzazioni sindacali del tutto screditate e che non crescono più nel mondo del lavoro (con l'incidenza totale degli iscritti ai tre sindacati confederali sulle forze di lavoro ed i pensionati che passa dal 34,1% del 2010 ad un più modesto 33,9% nel 2011).


In cambio di tali concessioni sul loro ruolo formale, i sindacati stanno per far passare, nonostante i poco convincenti mal di pancia della Camusso, manifestati più per tenere buona la base e la minoranza interna che per convinzione, una riforma che:

a) smantella parzialmente, e surrettiziamente, l'articolo 18, poiché il contratto di inserimento a "garanzie variabili" proposto dagli economisti borghesi Boeri e Garibaldi (che di fatto prevede l'abolizione dell'art.18 per un lunghissimo periodo di "prova", nel quale il lavoratore è licenziabile senza giusta causa) viene di fatto introdotto in modo clandestino, mediante la previsione di collocare il contratto di apprendistato come strumento prevalente di assunzione dei giovani sotto i 30 anni. Come è noto, infatti, il contratto di apprendistato prevede la licenziabilità senza giusta causa e giustificato motivo alla fine del periodo di formazione quindi, di fatto, la sospensione dell'art.18 per un periodo che può raggiungere addirittura i 4 anni (o i 5 anni nel settore dell'artigianato). In questo modo, per i neo assunti ed i giovani, si apre un periodo lunghissimo (e variabile a seconda del CCNL e delle regolamentazioni regionali) di assenza di tutele contro il licenziamento, e l'articolo 18 varrebbe soltanto per una quota di lavoratori pari grosso modo al 49% del totale: quelli di età superiore ai 30 anni, già muniti di di contratto a tempo indeterminato al momento dell'entrata in vigore delle nuove norme, mentre per tutti i giovani in entrata nel mercato del lavoro e per la massa dei lavoratori precari, che rappresentano ormai il 24% del totale degli occupati (senza contare i lavoratori in nero, per definizione esterni a qualsiasi tutela, che rappresentano il 12,3% delle unità di lavoro) l'art.18 verrebbe svuotato;

b) aggrava la situazione reddituale media dei lavoratori, già notevolmente peggiore  rispetto alla media europea (gli italiani guadagnano meglio soltanto rispetto a portoghesi, maltesi, slovacchi e sloveni). Infatti, il contratto di apprendistato, per il lunghissimo periodo di durata del periodo di formazione, consente al datore di lavoro di inquadrare il lavoratore di due livelli contrattuali  al di sotto di quelli spettanti in base alle sue mansioni. In questo modo, quei giovani che avranno la fortuna di arrivare alla conversione del loro contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato, arriveranno, dopo 3, 4 o anche 5 anni di lavoro, a percepire lo stipendio che i loro colleghi neoassunti guadagnano sin dal primo giorno di lavoro, nella normativa attualmente vigente, e quindi arriveranno a veder crescere il loro salario molto più tardi e lentamente rispetto alla situazione attuale, già molto critica.

Ci si domanda che modello di sviluppo abbiano in mente i nostri Ministri tecnici, che farneticano sui giovani che restano a casa con i genitori fino a tarda età, quando il mercato del lavoro che immaginano è basato su salari ancor più da fame rispetto a quelli attuali, e che quindi renderanno impossibile ogni progetto di vita indipendente per le prossime generazioni. Ci si domanda quale crescita pensano di innestare, se soffocano con salari da terzo mondo ogni possibilità di ripresa della domanda per consumi. O forse pensano di ripristinare il ciclo vizioso dell'indebitamento privato crescente a compensazione di salari declinanti, un meccanismo che è stato fra i motivi fondamentali dell'esplosione dell'attuale crisi, se, come avvenuto oggi, Mario Draghi gongolava per la ripresa dei prestiti bancari alle famiglie europee. In altri termini, i nostri governanti non sanno far niente di meglio che ripristinare una crescita drogata dal debito, che alimenterà per qualche anno un nuovo "miracolo" sui mercati finanziari, e gonfierà le tasche dei capitalisti dell'alta finanza, per poi riesplodere in una nuova bolla di crisi. Molto lungimiranti, non c'è che dire;

c) non supera l'attuale situazione di dualismo e frammentazione sul mercato del lavoro, ma anzi produce nuove divaricazioni e nuovi dualismi, ad esempio fra i lavoratori giovani, che potendo accedere ad un contratto caratterizzato da basso costo del lavoro ed assenza della tutela dell'art. 18 come quello di apprendistato, diverranno più competitivi rispetto ai lavoratori anziani, "tutelati". Con il risultato prevedibile che la minor disoccupazione giovanile sarà controbilanciata da una maggiore disoccupazione di lavoratori in età avanzata, un tipo di disoccupazione socialmente devastante, perché molto raramente il cinquantenne espulso dai cicli produttivi ha la possibilità di rientrarvi, proprio a causa della concorrenza esercitata dai giovani, meno costosi, più produttivi, meno tutelati. A quel punto, probabilmente, un nuovo demiurgo liberista che avrà sostituito Monti ci dirà che la soluzione per risolvere la disoccupazione dei lavoratori non più giovani sarà quella di abbattere le tutele dell'art.18 e dei contratti collettivi anche per tali lavoratori, allineandoli verso il basso, cioè verso i giovani alle prese con le trappole dell'apprendistato. E così il ciclo di distruzione dei diritti di tutti i lavoratori sarà stato completato. D'altra parte, gli sforzi che l'attuale riforma fà in direzione della riduzione di uno dei due principali dualismi esistenti sul mercato del lavoro italiano, ovvero quello fra lavoratori a tempo indeterminato e precari, sono del tutto risibili: un differenziale minimo nel costo contributivo a carico del datore di lavoro fra il dipendente a tempo determinato e quello a tempo indeterminato (e niente di nuovo invece per la platea dei co.co.co., co.co.pro., false partite Iva, ecc. che costituiscono il nucleo del precariato). Si parla di un extra-costo contributivo dello 0,1% per i contratti a tempo determinato, che oltretutto sarebbe restituito alle imprese in caso di conversione in tempo indeterminato. Davvero una inezia che non avrà alcun impatto di rilievo sulla riduzione della sacca di precariato, che però ha sollevato comunque le ire delle imprese, tanto che Reteimprese ha addirittura minacciato di non firmare l'accordo, se rimarrà tale insignificante differenziale di costo (a testimonianza della generosità da squali della nostra borghesia). In contropartita, Confindustria ha chiesto minori vincoli nell'utilizzo di alcuni contratti di precarietà estrema, previsti dalla legge Biagi. Verrebbe da dire: tanto rumore per nulla. Sul secondo tipo di dualismo, ovvero quello territoriale (fra i mercati del lavoro del Centro Nord e del Sud), poi, non si fa nemmeno rumore. Semplicemente il Governo non include tale tema nella sua agenda, e nessuno, nemmeno la CGIL, glielo chiede;

d) non prevede nemmeno la creazione di una rete universalistica ed efficace di protezione sociale contro il rischio di disoccupazione. Infatti, il cosiddetto Aspi (assicurazione sociale per l'impiego) già ribattezzato "assicurazione sociale poco interessante" non risponde, come invece aveva promesso Monti nel suo discorso di novembre, alla risoluzione del Parlamento Europeo sul reddito minimo garantito del 20 ottobre 2010, poiché non risponde ai due requisiti di base indicati da tale risoluzione, ovvero l'efficacia nel contrasto alla povertà e l'universalità del trattamento economico. Rispetto al primo principio, ovvero quello dell'efficacia contro la povertà, vorrei ricordare a Monti ed alla Fornero che il reddito minimo garantito, secondo il Parlamento Europeo, dovrebbe essere di entità tale da garantire una vita dignitosa al lavoratore che ha perso il suo impiego ed alla sua famiglia, ed in ogni caso non dovrebbe essere inferiore al 60% del reddito mediano dello Stato membro interessato (come da punto 15 della risoluzione). Ora, il 60% del reddito mediano mensile netto italiano è pari a 1.227 euro (dato di partenza di fonte Istat). Pertanto, un assegno di disoccupazione pari, in media, a 1.119 euro, ed oltretutto sottoposto a continui ribassi (-15% dopo i primi sei mesi, ulteriore ribasso del 15% dopo il secondo semestre) come quello previsto dall'Aspi non risponde al criterio di efficacia stabilito dal Parlamento europeo, e non garantisce quindi alcuna copertura rispetto al rischio di caduta in povertà legato alla perdita del lavoro. Persino Bonanni ha dovuto riconoscere che tale meccanismo comporta una grave decurtazione, sia nell'entità dell'assegno che nella lunghezza del periodo di copertura (non superiore all'anno, o ai 18 mesi per i disoccupati con più di 58 anni) rispetto alla copertura assicurata dalla normativa attuale (indennità di mobilità seguita da quella di disoccupazione) che verrebbe abrogata ed interamente sostituita dall'Aspi.  Inoltre, l'Aspi non risponde nemmeno al secondo requisito richiesto dal Parlamento Europeo, ovvero l'universalità del trattamento: persino la Camusso deve ammettere che intere categorie di lavoratori verrebbero escluse dal meccanismo, perché non in grado di soddisfare i requisiti minimi per l'accesso al trattamento (52 settimane lavorate nell'ultimo biennio, versamento di contributi per almeno due anni): ne verrebbero esclusi circa 600.000 collaboratori in regime di mono committenza, oltre che tutti quei precari che, non avendo la possibilità di avere una continuità lavorativa, non raggiungerebbero i criteri minimi. In pratica, molti degli attuali 12 milioni di lavoratori precari italiani resterebbero fuori dall'Aspi. Vorrei chiedere a Monti se non sia opportuno rispettare le decisioni ufficiali delle istituzioni europee, specie quelle democraticamente elette, come il Parlamento, quando lui stesso si vanta di essere un uomo dell'Europa.


Di fronte ad un simile assetto della riforma del mercato del lavoro, che comporta un peggioramento di tutti gli aspetti fondamentali sopra richiamati, e nessun vantaggio concreto, l'atteggiamento dialogante e morbido dei sindacati confederali appare incomprensibile e grottesco. E non mi vengano a dire che non vi sono possibili rimedi, anche in una logica negoziale soft, che potrebbero essere apportati ad un impianto così penalizzante per i lavoratori e la società italiana. Ad esempio, il rischio che il giovane apprendista venga licenziato senza giusta causa alla fine del suo periodo di formazione potrebbe essere ridotto prevedendo l'obbligo, in capo all'impresa, di costituire un fondo aziendale per ogni neoassunto con contratto di apprendistato, di ammontare crescente al crescere della durata della permanenza del neoassunto presso l'impresa stessa, che sarebbe versato al lavoratore nel caso in cui, alla fine del periodo di formazione, il suo contratto di apprendistato non fosse convertito in contratto a tempo indeterminato. In caso invece di conversione, tale fondo rientrerebbe nella piena disponibilità dell'azienda, e ciò ne incentiverebbe realmente la propensione a convertire a tempo indeterminato i contratti di apprendistato in scadenza.  E durante il periodo di formazione dell'apprendista, tale fondo, potendo essere iscritto fra le passività dello stato patrimoniale, ed i suoi accantonamenti potendo essere contabilizzati come costi figurativi nel conto economico (alla pari del fondo per il TFR) comporterebbe immediati vantaggi, sia di tipo fiscale (abbattendo in modo figurativo il profitto, cioè la base imponibile) che patrimoniale (e quindi di miglior capitalizzazione, più facile accesso al credito, ecc.) per la stessa impresa.


Inoltre, l'Aspi potrebbe essere reso realmente efficace, in termini di ammontare, ed universalistico, se solo vi fosse il coraggio di abrogare del tutto la CIG straordinaria, anche nella componente legata alle ristrutturazioni aziendali che invece nella bozza-Fornero sopravviverà. La completa abrogazione della CIG straordinaria, ivi compresa di quella in deroga, e l'abolizione dell'istituto della mobilità consentirebbero di recuperare 3 miliardi di euro di risorse pubbliche (dati Inps 2010), sufficienti per erogare una indennità pari a 1.432 euro a tutti i disoccupati d'Italia per un intero anno, un valore, questo, non solo superiore ai miseri 1.119 euro che si riducono del 15% dopo i primi sei mesi dell'Aspi, ma anche superiore alla soglia del 60% del reddito mediano indicata dalla risoluzione del Parlamento europeo. Un simile intervento quindi garantirebbe l'erogazione di un reddito minimo serio, con criteri di efficacia e universalità, a differenza del misero Aspi promesso dalla Fornero. Ma naturalmente comporterebbe la soppressione completa di un istituto, come la CIG straordinaria, che è utile alle imprese per farsi finanziare dallo Stato, cioè dai contribuenti, una parte del costo di operazioni di ristrutturazione aziendale, e che serve alle burocrazie sindacali per darsi ruolo e gestire il loro piccolo/grande potere sui tavoli delle trattative preliminari alla concessione di tale strumento.

Quindi le soluzioni per migliorare il progetto del Governo Monti ci sono, e gli spazi anche. Ciò che manca in tutti i soggetti politici e sindacali presenti al tavolo è la volontà politica di fare un passo indietro, in nome dei lavoratori. E l'assenza di tale volontà non può che giustificare una autodifesa dei lavoratori che assuma forme politiche radicali. Come sempre avviene, il capitalismo in crisi toglie spazio a qualsiasi soluzione negoziale.

***

Postilla

La presente postilla interviene ad aggiornare i contenuti della riforma, dopo l’importante riunione di ieri [14 marzo, n.d.r.], dalla quale, come già l’articolo principale prevedeva, è uscito finalmente l’accordo, benedetto dalla Camusso (“abbiamo fatto passi avanti”) e da Bersani (“adesso si firmi”).

Se possibile, gli ultimi punti dell’accordo, decisi ieri, peggiorano ulteriormente la situazione descritta dall’articolo principale. Si finisce per accedere ad una revisione dell’articolo 18, nonostante l’iniziale apparente ostilità assoluta dei sindacati, scioltasi come neve al sole in poche settimane. Si prevederanno specifiche fattispecie in cui la giusta causa non si applica, rendendo ad esempio possibile il licenziamento per difficoltà economica, un concetto molto vago e diverso da quello di “stato di crisi aziendale”, che sarebbe invece ben delimitabile con criteri oggettivi. In pratica, da oggi, anche le aziende che producono utili potranno licenziare lavoratori sulla base di presunte “difficoltà economiche” (magari soltanto per un calo stagionale, e del tutto transitorio, dei ricavi). Naturalmente, poiché l’entità dell’indennizzo economico al lavoratore sarà commisurata alla sua anzianità di servizio, ad andarci di mezzo saranno soprattutto i neoassunti, in totale incoerenza con il proposito dichiarato di favorire l’ingresso stabile nel mercato del lavoro da parte dei giovani, che a detta delle parti sarebbe uno degli obiettivi fondamentali della riforma. Il modello tedesco, cui il Governo dichiara di voler aderire con questa revisione dell’articolo 18, è un modello in cui i lavoratori hanno stipendi molto più alti di quelli dei lavoratori italiani, in cui gli indennizzi in caso di licenziamento per motivi economici sono molto più alti (perché commisurati allo stipendio ricevuto) ed in cui i sindacati siedono nei consigli di vigilanza delle imprese, e quindi hanno la possibilità di discutere dell’effettività di situazioni di difficoltà economica tali da giustificare i licenziamenti. Prendere da tale modello solo una componente (cioè la licenziabilità per motivi economici dietro indennizzo) e non le altre porterà a gravissime distorsioni: i sindacati non potranno negoziare le situazioni di difficoltà economica, lasciando campo libero alla proprietà aziendale per qualsiasi abuso, gli indennizzi saranno molto più bassi della media tedesca, incoraggiando i licenziamenti selvaggi.

I principali problemi dell’Aspi, rilevati nell’articolo principale, ovvero l’assenza di universalità e di efficacia nella lotta alla povertà, non vengono in nessun modo sanati nell’ultima versione dell’accordo, che prevede un allungamento oltre i 12 mesi dello strumento. Infatti, i vincoli di accesso (52 settimane di lavoro nell’ultimo biennio, almeno un biennio di versamenti contributivi) rimangono inalterati, e rendono di fatto impossibile la copertura per ampie fasce di precari, mentre l’importo dell’assegno rimane inferiore al 60% del reddito mediano, come invece richiesto dal Parlamento europeo. Nonostante ciò, la Camusso ribalta completamente, e nel giro di 48 ore, il giudizio negativo dato in precedenza, e dichiara che si stanno facendo passi in avanti verso l’universalità della copertura assicurativa. Una menzogna bella e buona, che dimostra come i sindacati si dichiarino paladini dei precari soltanto quando conviene loro strumentalmente. Un piccolo allungamento della durata dell’Aspi, che lo avvicina un po’ di più all’attuale mobilità, ed un suo posponimento al 2017 (che servono a tenere calmi gli iscritti ai sindacati che hanno la mobilità come ponte verso la pensione, che in caso di entrata in vigore immediata dell’Aspi nella versione originaria, quella cioè che durava un solo anno, avrebbero linciato i loro segretari) bastano ai sindacati per mettere la firma ad uno strumento che comporta un effettivo peggioramento rispetto alla copertura garantita dalla norme attuali.  Tra l’altro, l’accettazione dello strumento avviene senza nemmeno avere la certezza delle risorse finanziarie a disposizione, che ad oggi rimangono una incognita, sia nella loro entità che nella loro copertura. E se poi, dopo la firma ufficiale, risultasse che tali risorse non ci sono, o sono insufficienti, per cui i lavoratori che perdono l’ impiego non avranno neanche il misero assegno di 1.200 euro al mese dell’Aspi?

Di fronte a simili inquietanti scenari, descritti nell’articolo principale e peggiorati nel frattempo, l’impegno a fare un po’ di lotta contro i rapporti di subordinazione mascherati dietro a contratti precari appare ben poca cosa, e peraltro il sistema pensato appare anche largamente inefficace, e per certi versi iniquo. Il potenziamento dei servizi ispettivi del lavoro, oggi in condizioni davvero miserrime, dipende ovviamente dalla disponibilità di risorse finanziarie, che il bilancio dello Stato, alle prese con la gigantesca opera di risanamento indotta dal fiscal compact, non ha. Quindi sono parole al vento. Per limitare l’abuso dei rinnovi di contratti a termine, viene allungato il periodo minimo che deve intercorrere fra la scadenza di un contratto ed il suo rinnovo, di fatto costringendo il lavoratore a rimanere disoccupato per un periodo temporale più lungo. Per sanzionare l’utilizzo improprio di contratti a termine, si continua a privilegiare il canale dell’indennizzo giudiziario (peraltro con un minimo di 2,5 mensilità, davvero modesto) anziché quello, più logico, della conversione del contratto a tempo indeterminato. Per evitare che il contratto a chiamata o il contratto a tempo parziale possano coprire forme di utilizzo in nero della manodopera, si prevede un inefficace obbligo di comunicazione amministrativa da parte del datore di lavoro, da dare in caso di chiamata o di modifica dell’orario di lavoro. Ovviamente chi volesse utilizzare tali strumenti per coprire forme illegali di utilizzo di manodopera, non si sognerà nemmeno di adempiere all’obbligo di fare la comunicazione amministrativa. Sarebbe molto più efficace, da un lato, abrogare il vessatorio contratto di lavoro a chiamata, e dall’altro regolamentare in modo più stringente le possibilità di variazione di orario dei contratti a tempo parziale. Quindi di fatto ciò che emerge è che non vi è la volontà di contrastare realmente gli abusi fatti dai datori di lavoro, e si getta un po’ di fumo negli occhi. Il contrasto alle false partite Iva contiene poi elementi quasi comici: la presunzione di rapporto di subordinazione, che farebbe scattare i l diritto alla conversione del contratto in contratto alle dipendenze, avviene quando il lavoratore ricava almeno il 75% del suo fatturato da un solo committente, ed inoltre costui sia tanto fesso da affidargli una collaborazione di durata pari ad almeno 6 mesi continuativi, ed addirittura una scrivania ed una postazione di lavoro presso la sua sede. Peccato che nessun datore di lavoro sia così stupido, se utilizza una falsa partita Iva, da fargli un incarico continuativo di più di 6 mesi e da dargli addirittura una scrivania ed un computer. Quindi il 90% delle casistiche di false partite Iva non saranno minimamente coinvolte. In questo modo, anche i co.co.pro. che svolgono attività di lavoro subordinato verranno spinti, a causa delle più restrittive regole imposte dalla riforma rispetto a tale contratto, non in direzione della stabilizzazione, come sostengono i sindacati, ma in direzione della partita Iva, peggiorando oggettivamente la loro condizione, a tutto vantaggio delle imprese. Questo perché la crisi economica, ovviamente, non lascia spazi per massicce conversioni di contratti precari in contratti stabili. In sintesi, tutti i pretesi interventi di contrasto alla precarietà sembrano demagogici, se non addirittura favorevoli alle imprese e non ai lavoratori precari.

In sostanza, ogni giorno che passa il contenuto della riforma del mercato del lavoro peggiora per i lavoratori, mentre i sindacati ed il PD diventano sempre più entusiasti e pronti a firmare. Questo dovrebbe far meditare i lavoratori su quali interessi tali soggetti stiano rappresentando: quelli del capitale.

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