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Logistica e porto di Trieste

Anika Perrini-Ritschl intervista Sergio Bologna

rigass-258Prof. Bologna, tra qualche giorno Lei sarà a Vienna per partecipare come relatore al Rail Summit (Schienengipfel) e parlerà di collegamenti ferroviari tra porti e hinterland.  Vorrei farLe qualche domanda a questo proposito, prima però vorrei chiederLe di dirmi qualcosa in generale sulla logistica, perché Lei è reduce dal congresso di Berlino della BVL. Secondo Lei dove sta andando la logistica, vede degli sviluppi interessanti?

Se consideriamo la logistica come un settore a se stante, direi che ha raggiunto lo stadio della maturità, sistemi organizzativi e processi hanno ormai un elevato grado di standardizzazione, per cui non vedo da anni innovazioni di grande portata. 

Quello che è cambiato è il contesto in cui la logistica e le supply chain globali si muovono e per far fronte a questi mutamenti anche la logistica deve inventarsi qualcosa di nuovo. Per esempio nel risk management, segmento originariamente ancillare ma che sta diventando pian piano strategico. Oppure nell’integrazione tra attori diversi della catena, le stesse piattaforme informatiche sono sempre più “collaborative”. 

 Oppure nella comunicazione interculturale. Anche dal punto di vista tecnologico non vedo gran che dopo l’introduzione del RFID. Si tratta in genere di innovazioni incrementali, stimolate soprattutto dal fatto che le cause della cosiddetta supply chain disruption continuano a moltiplicarsi. Con un paragone calcistico potrei dire che dopo gli anni in cui la logistica ha giocato in attacco, oggi gioca in difesa.

 

Gli organizzatori del congresso dicono che erano presenti 40 paesi. Ha notato delle differenze tra la logistica che si fa in Italia rispetto a quella che si fa in altri Paesi?

Come Le ho detto i processi hanno raggiunto un grado di standardizzazione tale che non possono esserci differenze sostanziali tra diversi mercati. Se la logistica italiana è qualcosa di particolare nel panorama europeo, lo è per le stesse ragioni per le quali l’impresa italiana è particolare, purtroppo in negativo. 

Le grandi aziende italiane quotate in Borsa distribuiscono in dividendi più del 30% delle loro risorse, cioè non investono o investono troppo poco, manager e azionisti spolpano le imprese e poi le vendono. Per fortuna che esiste la media impresa. Nella logistica sono poche purtroppo le aziende che investono in tecnologie e in risorse umane, i criteri con cui anche grandi gruppi gestiscono i loro centri di distribuzione in Italia sono fondati sul basso costo del lavoro e sul ricorso a cooperative che reclutano immigrati, le quali non rispettano le regole, non pagano i contributi ai lavoratori e non pagano le tasse.

Proprio in questi giorni la magistratura ha messo sotto accusa un consorzio di cooperative che ha evaso il fisco per 1,7 miliardi di euro. La logistica oggi in Italia – penso ai magazzini ma penso anche al trasporto su strada - è uno dei principali veicoli di diffusione della criminalità organizzata secondo gli organismi inquirenti. E tutto si basa sulle condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù (non è una mia espressione, l’hanno usata i magistrati nei confronti di un’impresa di trasporto del milanese).

Qual è il risultato di questa politica miope? Che oggi la logistica in Italia è un territorio di conflittualità sindacale altissima, con scioperi frequenti condotti con durezza. Dai sindacati? Manco per sogno, anzi, non è raro scoprire qualche sindacalista complice nel perpetuare il sistema delle cooperative irregolari. Chi organizza i facchini sono i Cobas e questo rende la negoziazione spesso non facile per le aziende.

Quindi ciò che caratterizza la logistica in Italia è l’alta conflittualità sindacale?

No, quello che caratterizza la logistica in Italia è la scarsa propensione a investire in tecnologie e risorse umane. La conflittualità sindacale, se Lei allarga lo sguardo a livello mondiale, è molto diffusa ovunque e si sta diffondendo ulteriormente in tutti i comparti del trasporto, dai porti alle ferrovie agli aeroporti. Può darsi che in alcuni casi il conflitto sia determinato dalla volontà di alcuni gruppi di lavoratori di difendere i loro privilegi (o, meglio, le loro conquiste, ed hanno ragione), ma in moltissimi casi si tratta di una reazione di risposta a condizioni di lavoro inumane (pensi solo agli scioperi dei portuali di Hong Kong).

In questo modo siamo arrivati a parlare di porti, l’argomento principale che volevo affrontare con Lei in questa intervista. Le posso chiedere, per iniziare, un giudizio di sintesi sull’attuale situazione del mercato marittimo-portuale?

Ci provo. Il fenomeno più rilevante, a me sembra, è quello della finanziarizzazione del settore marittimo, altrimenti non si spiega come sia possibile che, mentre tutti si lamentano che i noli sono bassi e non riescono a crescere per eccesso di stiva, ci siano – dati di agosto 2014 riportati da Clarckson’s Research – 5.357 navi in ordine, pari a 318,4 milioni di tsl, con un investimento pari a 62,1 miliardi di dollari. 

In testa agli investitori ci sono gli europei e primi tra gli europei sono i greci (curioso, vero? mentre la Grecia va a picco). Secondi sono i cinesi (che, a dare ascolto a certe voci, starebbero anche dietro ai greci). 

L’altro fenomeno rilevante, questo di portata storica, è il passaggio nella propulsione marittima dalla nafta ai gas, sia derivati dal petrolio che naturale. Questo ha fatto schizzare in alto le ordinazioni di gasiere. Nel  container sono in ordine navi per il 36,9% della flotta esistente come numero e per il 42,5% in termini di Teu. Nel settore crocieristico gli ordini nel 2014 sono aumentati del 90% rispetto all’anno precedente. Trovo interessante invece l’aumento di ordini di navi multipurpose.

Perché interessanti le multipurpose e le crociere no?

Perché non mi sembra un fenomeno prettamente speculativo ma qualcosa che allude a una diversificazione delle soluzioni logistiche. Osservato sotto questo profilo, il panorama della logistica marittima è invece piuttosto cambiato, ma, anche qui, come reazione a urti esterni.

Prendiamo il settore del container. La focalizzazione sui costi e non più, o non solo, sulle quote di mercato, ha portato alcuni cambiamenti. Prima di tutto una maggiore restrizione delle attività al core business, il che comporta tra l’altro un relativo abbandono dell’idea di controllare tutta la catena logistica e quindi di diventare non solo gestori di terminal portuali, ma anche di retroporti, di centri di distribuzione nell’Hinterland, di società di logistica o di trasporto, anche ferroviario (si pensi all’operazione European Rail Shuttle), cioè gesti di “discesa a terra” che mettevano i grandi carrier in competizione con i forwarder e il carrier haulage in competizione con il merchant haulage. In sostanza, in competizione coi loro stessi clienti. La crisi li ha riportati piano piano alle origini e la caduta dei noli li ha penalizzati e avvantaggiato enormemente i forwarder, diventati operatori logistici globali. 

Oggi la maggioranza delle prime 20 compagnie amatoriali mondiali del settore del container sono in rosso mentre Kühne&Nagel, Norbert Dentressangle e altri del loro calibro accumulano profitti. A questo si risponde con le alleanze tra carrier, con gli accordi di slot sharing, con la suddivisione delle rotte e degli itinerari. Poi sono mutati gli schemi di gestione della nave e gli schemi organizzativi. E’ stato praticato lo slow steaming, risparmiare carburante diventa più importante che essere puntuali. La botta finale l’ha data il gigantismo navale. Molti porti vengono emarginati dalle grandi rotte dei servizi diretti, ma soprattutto i tempi di sosta in porto si sono allungati perché il numero di container caricati e scaricati in una volta sola è aumentato con il gigantismo. Ciò comporta un aumento di costi per i terminal, in quanto la programmazione diventa più difficile, i picchi di lavoro sono più elevati, occorre inserire risorse di riserva anche se i volumi rimangono gli stessi. Le navi accumulano ritardi e la congestione nei porti diventa critica. In questa situazione diventa decisiva l’efficienza dei collegamenti retroportuali.

Ma se questo è vero, anche la concezione di port regionalisation, cioè la versione più moderna ell’economia portuale, si riempie di contenuti diversi.

Ci vuol spiegare meglio?

Mi riferisco alle idee contenute in un famoso saggio di Notteboom e Rodriguez. Essi sostenevano, siamo agli inizi del nuovo millennio, che il porto si sta trasformando in un sistema reticolare multipolare, caratterizzato da una rete di sottosistemi o di nodi disseminati nell’Hinterland, con i quali il porto dialoga nel senso che può conferire ad essi alcune sue funzioni (da quella banale di spostare su quelli i container in deposito per guadagnare spazio a quella più complessa di trasferirvi le attività doganali) oppure può considerarli come degli avamposti che gli permettono di penetrare e fidelizzare meglio certi mercati. 

Lo stress imposto dal gigantismo ai terminal portuali si ripercuote immediatamente sulla rete di infrastrutture che formano il sistema multipolare, ma soprattutto su quelle di trasporto. 

Ora, poiché il modo più veloce per smaltire il traffico di un terminal è quello di mettere la merce sul treno, soprattutto se si tratta di coprire lunghe distanze, la modalità ferroviaria cessa di essere un’opzione, diventa una necessità e poiché la ferrovia non potrà superare mai certe rigidità, mettere mano al sistema ferroviario ed adeguarlo ai vincoli del gigantismo navale non è una cosa da poco, che si fa in poco tempo.

Questo però è solo un aspetto della questione. L’altro aspetto critico che io vedo nella logistica marittima è quello della sicurezza. Ormai si susseguono gli allarmi contro il cattivo stivaggio della merce nei container, il cattivo imballaggio, la falsa o errata documentazione di accompagnamento – segnali questi che indicano un lavoro manuale fatto male nella fase di riempimento, da gente inesperta o poco motivata – perché pagata poco, credo – oppure da ritmi di lavoro troppo pesanti. Tutte queste cose continuano a produrre incidenti che, nel caso di materie pericolose, possono essere drammatici (si pensi al caso della MSC Flaminia). Che il numero di claims presso le compagnie assicurative aumenti in maniera vertiginosa non è un segreto, quindi torniamo al problema della supply chain disruption, ultimamente aggravata dai cambiamenti climatici. Mettiamo insieme tutte queste cose, vedremo che mentre la finanza brinda a champagne, l’operatività ha la lingua fuori, dunque qualcosa deve cambiare e questo qualcosa, insisto, ha molto a che fare con il problema del lavoro.

Questa sua opinione è condivisa da qualcuno? Ci sono stati degli interventi al congresso di Berlino su questo? Nella stampa specializzata non se ne sente molto parlare. Il problema principale per quanto riguarda i porti, sembra essere la governance.

No, non se ne parla, l’immagine del lavoro è scomparsa dagli schermi da troppo tempo, addirittura nel libro di Piketty, l’economista che ha scritto uno dei maggiori best seller degli ultimi anni, dove si dice che l’attuale capitalismo produce solo diseguaglianze sociali – cioè si sostiene una tesi classica del socialismo – l’argomento lavoro non è affrontato.

Allora parliamo di governance.

Parliamo di governance, d’accordo. Ci sono tre livelli distinti da considerare.

Il primo è il livello europeo. Lei ricorderà la fine che fece la riforma proposta da Loyola de Palacio, ebbene, il regolamento proposto da Kallas rischia di fare la stessa fine. In Italia ci promettono una riforma e un piano dei porti in 90 giorni. L’unico piano serio che è stato fatto negli ultimi vent’anni è quello che abbiamo fatto noi nel triennio 1998-2000, era un piano generale dei trasporti e della logistica all’interno del quale si collocava la portualità. Fu approvato dal Parlamento in modo bipartisan, approvato dal Cipe e subito dopo gettato nel cestino. Ci hanno riprovato il Ministro Matteoli e il sottosegretario Giachino con l’ultimo governo Berlusconi. Facevo parte del gruppo di esperti ma ho dovuto minacciare di dimettermi se continuavano a mettere la mia firma sotto cose che non avevo scritto io ma non so chi, certo non i miei colleghi, probabilmente qualche venditore di quelle bufale che ad un certo punto sono apparse sul mercato della portualità, quelle cose tipo superporti o superterminal, vere truffe ai danni dei contribuenti. Oggi sembra che vogliano risolvere i problemi di governance tagliando un po’ di Autorità Portuali.

Mi sembra una buona cosa, no?

Sarà, ma io non vedo come questi tagli o questi accorpamenti possano cambiare il modo di governare un porto. Occorre una riforma. In che direzione? 

Chiediamoci innanzitutto: cosa vogliamo dai porti? Nessuno lo sa, né osa dirlo. Perché? Perché dovremmo avere prima una politica industriale e non ce l’abbiamo. Il fatto che la grande impresa in Italia stia scomparendo sta a dimostrarlo. 

Se non c’è una politica industriale non può esserci una politica delle infrastrutture al servizio dell’industria. Le infrastrutture purtroppo si fanno “a prescindere”, così, per incrementare il settore delle costruzioni. Chiediamoci allora in seconda battuta: che ne facciamo dei porti? Li consideriamo enti inutili e cerchiamo poco per volta di sfoltirli oppure, visto che ci sono, cerchiamo di farli lavorare al meglio? 

La seconda ipotesi mi sembra più logica.Come? Cominciamo dalla figura del Presidente.

Come venga nominato ora non m’interessa, vediamo cosa dovrebbe fare e cosa dovrebbe saper fare. Su questo penso di avere delle idee precise. 

Un Presidente deve innanzitutto avere un alto senso dello Stato, deve essere consapevole di gestire un bene pubblico, di amministrare un patrimonio pubblico per valorizzarlo, deve rispettare e far rispettare la legge, deve ricordare ai terminalisti i loro obblighi e gli impegni in base ai quali hanno ottenuto la concessione. Un porto è ben governato quando i terminalisti e le imprese ivi operanti investono, un porto che vive di rendite di posizione è un ente inutile e dannoso. 

Non è compito del Presidente trattare con le compagnie marittime, quello spetta ai terminalisti, non è compito del Presidente regolare la navigazione, per questo c’è l’Autorità Marittima, alla quale darei maggiori competenze e maggiori poteri, anche in materia di dragaggi. Compito del Presidente, è qui che si vede la sua managerialità, è piuttosto quello di organizzare il reticolo del sistema multipolare. Mi richiamo ancora alla teoria della port regionalisation. Se questa teoria è valida - e sono convinto che lo sia - e che sia tanto più valida quanto più rapido è l’avvento del gigantismo navale, significa che il Presidente deve organizzare la rete logistica territoriale che sta alle spalle del porto. 

E’ un uomo che deve conoscere i dry ports, è uno che deve saperne di real estate, di immobiliare logistico, che deve conoscere a fondo il mondo ferroviario, dell’intermodalità, che deve conoscere le esigenze delle supply chain degli utenti del porto, che sa cosa significa un progetto di cooperazione internazionale. 

Se c’è una riforma da fare è quella di dare ai Presidenti gli strumenti per affrontare questa missione. Il Presidente di Genova, Luigi Merlo, è quello che a mia conoscenza ha colto meglio questo risvolto.

 

Lei sta tracciando il profilo di un Presidente ideale, che deve avere requisiti professionali molto specifici.

Requisiti deontologici prima di tutto, poi anche di professionalità, è un amministratore e un manager al tempo stesso, deve avere alto senso dello Stato e del bene pubblico e deve al tempo stesso avere la vision di un imprenditore. Deve saperne di finanza, quando un privato gli presenta un project financing deve capire se è una bufala oppure no. Deve sempre valere la seguente regola, come dice il mio amico Di Marco, Presidente dell’Autorità Portuale di Ravenna, che di finanza se ne intende: il privato prima metta i soldi sul tavolo, se dice di voler investire, e poi il pubblico farà il suo dovere, non viceversa (come spesso accade). Mi sono stufato di vedere concessionari ai quali è stato dato il privilegio di godere di un bene pubblico che si atteggiano a benefattori, come fossero loro a “concedersi” per dare lavoro ai disoccupati (con gli incentivi dello Stato).

L’ultima volta che è venuto a Vienna, questa primavera, alla Wirtschaftsuniversität, ha parlato del porto di Trieste e dei suoi servizi ferroviari retroportuali. Mi sembra che a Trieste stia per cambiare la Presidenza dell’Autorità Portuale. Lei come vede attualmente la situazione del porto, che per noi austriaci ha rappresentato una risorsa fondamentale nel passato ma anche oggi ha la sua importanza per il nostro mercato e per i nostri operatori?

Sì, la Presidente attuale del porto, Marina Monassi, è in scadenza e se il Ministero non fa la sciocchezza di nominare un Commissario, si sceglierà il nuovo Presidente tra i tre candidati, Zeno d’Agostino, Nereo Marcucci e Antonio Gurrieri.

Lei chi dei tre preferisce?

Senta, non mi metta in imbarazzo, sono tutti e tre persone che conosco bene, sono tre amici e tutti e tre hanno i numeri per governare bene un porto. 

Tutti sanno però che ho lavorato con D’Agostino su diversi progetti, anche nei Balcani, cioè in aree d’interesse del porto di Trieste. Quindi il mio cuore batte per lui. Ma non voglio esprimere un voto anche per rispetto delle istituzioni a cui compete la scelta. 

Sulla situazione del porto in generale la vedo in maniera diversa da molti miei amici. La Monassi lascia un porto in buona salute, giudicare la sua gestione fallimentare significa essere vittime della propria partigianeria. 

Ma ancora una volta il merito è di imprese che investono, di certi terminalisti. E a dire il vero, negli ultimi tempi anche soggetti che da questo punto di vista non sono mai stati così brillanti si sono dichiarati disposti a investire. Questa è una buona notizia. 

Io credo che il porto di Trieste abbia molte potenzialità di sviluppo, in fin dei conti è l’unico porto italiano ad avere un raggio di azione europeo. 

Quello che nella gestione Monassi mi lascia più perplesso è l’aver messo il successore di fronte a fatti compiuti, assegnando o prolungando tante concessioni a fine mandato, come se volesse di proposito un successore dimezzato. 

Ma qui rischia di vedersi capitare sulla testa qualche mattone dall’Unione Europea. 

Trieste è un caso esemplare di studio per chi s’interessa, come dite voi, ai Seehinterlandverkehre, ai collegamenti retroportuali. 

Oggi arrivano e partono da Trieste Campo Marzio e da Fernetti 76 coppie di treni intermodali alla settimana ed il 67% è fatto di treni non di container, ma di semirimorchi.

Cosa significa? Che l’intermodalità a Trieste non parte solo dalle navi portacontainer ma anche, anzi soprattutto, dalle navi Ro Ro, quindi ci troviamo di fronte a un esempio di servizi trimodali, quelli che piacciono tanto all’Unione Europea. 

Ed anche questa è un’eccezione nel panorama italiano. Il problema di Trieste a mio avviso è Capodistria. Io penso che ormai sia diventato insopportabile che i paesi nuovi membri dell’Unione Europea possano da un lato godere di tutti vantaggi dell’adesione e dall’altro esercitare un sistematico dumping sociale nei confronti dei Paesi fondatori dell’Unione. Questo meccanismo fa sì che l’allargamento dell’Unione Europea, tanto esaltato come fattore di civiltà e di progresso, di unione tra i popoli e bla bla bla, si risolva in un peggioramento delle condizioni dei lavoratori dell’Europa occidentale. 

Questa situazione fa il gioco dell’estrema destra, aumenta la xenofobia e l’intolleranza man mano che si prolunga la crisi. E’ una politica che non unisce, al contrario, crea lacerazioni. Per reggere la concorrenza con Capodistria nel porto di Trieste le regole del lavoro portuale sono saltate tutte. Naturalmente molti ci sguazzano in questa situazione, molti a cui non piace investire, ma piace pagare la gente con salari da fame. Occorre spezzare questo circolo vizioso. Speriamo che il nostro nuovo Ministro degli Esteri, che negli Anni 70 era come me un assiduo collaboratore de “Il Manifesto”, prenda delle iniziative in proposito.

Un’ultima domanda, Professore. Anzi, un’osservazione. Qualunque argomento Lei affronti, finisce sempre per parlare di lavoro. Non Le sembra, non si offenda, un po’ monotono?

Gentile Signora, io penso che il problema della disoccupazione e ancor più della cattiva occupazione, della precarietà e dell’insufficienza di reddito, il problema della crisi della forza lavoro scolarizzata e più in generale della crisi della middle class o, se vuole, della disuguaglianza, come dice Piketty, sono i fattori che minano la convivenza civile a tutti i livelli, da quello europeo a quello della singola famiglia. 

Le politiche del lavoro dell’Unione Europea non fanno che aggravare questo stato di crisi. Dopo che un’intera generazione di economisti ha dimostrato che questa è una crisi di domanda, i burocrati (per usare un eufemismo) di Bruxelles continuano a voler agire sull’offerta. 

Pensare a un loro ravvedimento è utopistico, la cultura delle forze politiche presenti nel Parlamento europeo o non è in grado di capire le ragioni della crisi o non gliene importa un fico secco o pensa di approfittare del disagio sociale a fini elettoralistici.

Qualcosa deve cambiare, altrimenti andiamo tutti a fondo, forse ci vogliono dei profondi sommovimenti sociali, delle rivolte di piazza, non so. Io avverto indistintamente un qualcosa che bolle sotto terra. E allora non so se cerco di esorcizzarlo o di invocarlo quando ripropongo il tema del lavoro. Corro il rischio di apparire monotono o ossessivo? Mi dispiace ma non so che farci.

(trad. dal tedesco di Patrizio Helman)
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