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Jobs Act: la fine del diritto del lavoro in Italia

di Clash City Workers

imageax1Cosa sia e a cosa serva il Jobs Act lo abbiamo detto e ridetto: è la misura che più caratterizza e più è stata voluta dal Governo Renzi, attraverso cui vengono ridefiniti i rapporti tra padroni e lavoratori italiani, sancendo la totale subordinazione dei primi ai secondi.

Gli ultimi decreti attuativi della legge delega di Dicembre, di cui tanto si sta parlando in questi giorni, lo dimostrano definitivamente: dopo essere intervenuto nella fase di accensione del rapporto di lavoro attraverso il decreto del 2014, aumentando la “flessibilità in entrata”, cioè la possibilità per i padroni di assumere come meglio credono; dopo aver aumentato quella “in uscita”, intervento nella fase di chiusura del rapporto di lavoro eliminando l'articolo 18 e rendendo possibile il licenziamento senza giusta causa a Marzo di quest'anno; ora questi ultimi decreti attuativi intervengono nel rapporto di lavoro stesso nell'ambito della cosiddetta “flessibilità funzionale”, rendendo possibile il demansionamento e il controllo a distanza del lavoratore. In questo quadro essere flessibili significa quindi essere alla totale mercé del padrone e a poco servono le rassicurazioni del Governo e della stampa allineata sul rispetto della privacy del lavoratore o sul fatto che in vari casi dovrà essere chiesto previamente il consenso al lavoratore stesso: come ha spiegato bene l'avvocato del lavoro Giovanni De Francesco ai microfoni di Corrispondenze Operaie, a fronte di sempre meno tutele e sempre più grandi ricatti queste formalità sono solo chiacchiere.

 

 

Abbiamo provato a riassumere questo pericoloso quadro in un video, proprio perché possa crescere la consapevolezza e l'opposizione a questa misura tanto voluta da Renzi, motivo per cui siamo anche andati in giro per l'Italia a spiegarla e raccontarla. Ci sembra che comunque sempre più lavoratori si rendano conto di quali interessi difenda realmente il Governo, come dimostra il recente crollo della sua popolarità!

Sappiamo però che questa ed altre leggi analoghe vengono da lontano, dalla crisi globale del capitalismo, da istituti internazionali come l'OCSE e la BCE e soprattutto dal modo in cui i lavoratori sono stati messi in concorrenza tra loro a livello mondiale negli ultimi trent'anni. Per questo abbiamo pensato fosse importante spiegare quanto sta succedendo in Italia anche al pubblico straniero, scrivendo un'analisi in inglese che prova ad allargare la sguardo ed inserire l'operato del Governo in una prospettiva più ampia. 

Proprio per questo, ripubblichiamo sotto la versione italiana del testo, nella speranza che possa essere utile a maturare gli strumenti necessari a rispondere a quest'ennesimo attacco.


Jobs Act: la fine del diritto del lavoro in Italia

Con il Jobs Act, approvato in due parti a Maggio e a Dicembre 2014, il governo Renzi ha realizzato la più importante riforma del mercato del lavoro degli ultimi anni in Italia. Con questo provvedimento il Governo sostiene di voler superare l’ “Apartheid” tra lavoratori precari e garantiti, come ha detto il Premier nel suo discorso alla Camera a Dicembre. In realtà la riforma porta avanti e accelera il processo di flessibilizzazione del lavoro cominciato quasi un ventennio fa, estendendo e generalizzando la condizione di precarietà che sostiene di voler superare. Si cancellano di diritti dei lavoratori conquistati con decenni di lotte, attraverso un duro attacco a tutto il proletariato che vive in Italia.

In questo modo si recepiscono le politiche sociali ed economiche richieste dalla BCE che con la crisi dell’Eurozona è stata costretta ad interventi di politica monetaria molto espansivi per stabilizzare i mercati e assicurare i debiti sovrani dal rischio default, chiedendo in cambio ai governi misure estremamente restrittive per quanto riguarda Welfare e diritti sociali. In Italia, è stata proprio la lettera inviata dalla Bce al governo Berlusconi il 5 agosto 2011 ad aver accelerato una crisi istituzionale che poi portò all’instaurarsi del governo ‘tecnico’ di Monti, a cui sono state appaltate misure durissime, quali l’anticipo del raggiungimento del pareggio di bilancio al 2013, il taglio della spesa pubblica, la riforma delle pensioni e, soprattutto, del mercato del lavoro.

Ma sia il governo Monti, che quello Letta ad esso successivo, sono solo in parte le richieste del grande capitale europeo. Con il recente Governo Renzi i padroni, sia italiani che europei, si sono finalmente giocati una carta importante per tutelare e rinforzare i loro interessi. Renzi è stato il nome, giovane e accattivante, su cui le diverse classi dominanti del paese si sono accordate per sbloccare l’impasse, fare un salto di qualità complessivo e dare una nuova accelerazione ai processi di ristrutturazione del mercato del lavoro già abbozzati negli anni passati.

 

Piccola storia delle riforme del lavoro

Si è cominciati con l’introduzione del Pacchetto Treu (24 Giugno 1997), con cui si sono regolamentati i contratti di apprendistato, introdotto l’istituto del tirocinio e del lavoro interinale (unica forma d’interposizione di manodopera ammessa, dopo che la legge del 1960 le rese illegali). Si è proseguito con le leggi dei governi di centrodestra, a partire dalla liberalizzazione del contratto a tempo determinato (2001) e quindi con la legge Biagi (14 Febbraio 2003) che che interveniva anche sull’apprendistato ed applicava cambiamenti peggiorativi a varie forme contrattuali (part-time, interinale, a progetto). Per poi arrivare alla Legge Fornero (2012) che modifica drasticamente il contratto d’apprendistato (durata massima 6 anni, livelli retributivi più bassi, aumento numero massimo per azienda), elimina del tutto la causale per la stipula del primo contratto a tempo determinato e limita il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo.

 

La retorica del Jobs Act

Adesso il governo Renzi, perfettamente in linea con i governi del passato, continua e accelera nell’imprimere con forza gli interessi del capitale internazionale a discapito della condizione dei lavoratori. La retorica con cui il governo ammanta la nuova riforma è molto chiara: in un’epoca di mercati globalizzati e competitivi, le aziende devono essere libere di allocare istantaneamente e come meglio credono le risorse produttive, come la forza lavoro. Il sistema ha quindi bisogno di flessibilità. Un mercato del lavoro troppo rigido disincentiva le imprese ad assumere, aumenta la disoccupazione ed ha un effetto negativo sulla competitività dell’intero sistema-paese; inoltre le aziende finiscono per ricorrere alla flessibilità di cui hanno bisogno attingendo ad un bacino di “esclusi”, perennemente penalizzati rispetto ai “garantiti” ed alle loro tutele, tanto da portare l’intero peso della flessibilità di cui il sistema avrebbe bisogno.

Se questa è la premessa, in linea con la retorica di Governo e padroni, questa la soluzione: eliminando le rigidità e lasciando così il mercato libero di agire si contribuirebbe a risolvere non solo il problema della competitività del sistema-paese, ma anche quello della disoccupazione e dell’iniqua divisione tra lavoratori garantiti e precari, o anche l’“apartheid” tra “core e periphery workers” (usando il lessico del Senatore Ichino, tra i principali promotori del Jobs Act).

 

La legge Renzi

Ma cosa prevede la nuova riforma del lavoro? Andiamo ad analizzarne i punti salienti:

Contratto a tempo indeterminato a “tutele crescenti”:
Se prima, con un contratto a tempo indeterminato il lavoratore aveva diritto al reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (il famoso art.18 dello statuto dei lavoratori), adesso, salvo nei casi di licenziamento discriminatorio (che però non si sono mai verificati), questo diritto sparisce! Il nuovo contratto prevede soltanto un indennizzo che cresce proporzionalmente agli anni di lavoro e che comunque non può superare l’equivalente di 24 mensilità. E questo solo nel caso, reso sempre più difficile da provare, che il licenziamento risulti illegittimo in sede giudiziaria!

In sostanza il contratto a tempo indeterminato adesso gode dalla stessa instabilità tipica dei contratti precari: potendo essere licenziato da un momento all’altro ed avendo in cambio al massimo una piccola indennità, nell’eventuale e sempre più improbabile vittoria nella costosa sede processuale, ogni lavoratore si troverà in uno stato di ricatto permanente.

Riforma degli ammortizzatori sociali:
Si procede con poi con la sostituzione delle indennità di disoccupazione con la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego che se allarga la platea dei potenziali beneficiari, ne diminuisce l’importo, la durata e il valore contributivo a fini pensionistici e che lega l’erogazione al giudizio dello Stato, che deve verificare se veramente il lavoratore è disoccupato involontario o no. Questo significa la possibilità di interrompere il versamento della NASPI se il disoccupato rifiuta le proposte di lavoro o di formazione professionale che gli gira il suo centro per l'impiego, finendo a fare lavori lontani da casa o pagati male (se non meno della stessa indennità di disoccupazione) per non restare a casa senza né lavoro né NASPI.

Sfoltimento dei contratti atipici:
Lo sfoltimento della giungla di contratti atipici, è una grande bufala: delle 47 figure contrattuali viene eliminato solo quella di collaborazione ‘autonoma’ a progetto, che tra l’altro era una di quelle con maggiori garanzie. Viene invece incentivato l’uso del voucher (ulteriore aumento del limite dei compensi annui), una degli strumenti che prevede meno tutele in assoluto e favorisce abusi.

Contratto a tempo determinato e apprendistato:
Nella prima parte del Jobs Act, approvata a Maggio 2014, il contratto a tempo determinato, viene incentivato, essendo eliminato definitivamente l’obbligo di giustificarne l’utilizzo, aumentato il numero di proroghe possibili, ed estesa la durata. Stesso discorso per l’apprendistato, per il quale viene drasticamente aumentato il limite massimo di apprendisti che una azienda può assumere.

Attività ispettiva:
Infine, con il pretesto di ‘razionalizzarla’, viene anche indebolita l’attività ispettiva, fondando un’unica Agenzia di Ispezione del Lavoro (frutto della fusione di quella del Ministero, dell’Inps e dell’Inail) con lo scopo dichiarato di risparmiare!
Inoltre, come se non bastasse non sono stati ancora resi noti possibili futuri decreti attuativi, che, per completare il quadro di perenne minaccia nei confronti dei lavoratori, potrebbero prevedere il dimensionamento e addirittura meccanismi di telecontrollo!

 

L'ultima carta della borghesia italiana

Al di là della retorica spicciola della “rottamazione” e del “nuovo”, il Governo Renzi non ha quindi niente a che vedere con le esigenze di noi lavoratori. Ha invece un compito ben preciso: portare a termine l’agenda di coloro che l’hanno preceduto. Questi non erano riusciti, sia per contrasti interni alla borghesia e ai vari partiti politici che la rappresentano, sia per paura di generare una risposta sociale di massa, a fare tutte quelle “riforme” che servono al capitalismo italiano per ricominciare a fare profitti e uscire dalla crisi.

Renzi ci sta finalmente riuscendo. Ad esprimere soddisfazione per la riforma è infatti proprio chi per anni ha provato a modificare lo Statuto dei Lavoratori con risultati soltanto parrziali: come l’ex-ministro Sacconi, tra i principali artefici di quella selva di contratti “atipici” in cui è intrappolato l’esercito di precari che poi diventano la scusa per eliminare le tutele di tutti i lavoratori! Così la classe dirigente italiana riesce a fare leva su di una situazione drammatica che ha contribuito a creare per aggravarla e generalizzarla.

Nonostante tutta l’arroganza che la borghesia è in grado di mettere in scena, dietro le quinte si può leggere la preoccupazione di chi però sa di star giocando una carta molto importante e potenzialmente incendiaria. Perché non passerà molto tempo prima che milioni di lavoratori capiscano sulla propria pelle in cosa si traducano realmente le promesse fatte con il Jobs Act. A quasi vent’anni dall’introduzione dei primi “contratti precari” vediamo che questi sono serviti solamente a tagliare i salari e a peggiorare le condizioni di lavoro, senza creare neppure un posto in più! Hanno prodotto invece una massa di persone non tutelate, a totale disposizione dei padroni, che entrano con molta più fatica nel mondo del lavoro e ne escono più facilmente… Come dimostra un recente studio sulla disoccupazione in Italia, poi, non c’è alcuna evidenza per cui la disoccupazione giovanile, quella cioè che più rifletterebbe le eccessive tutele dei lavoratori “garantiti”, sia dovuta alla rigidità del mercato del lavoro, mentre quello che è certo è che questa cresce quando cresce la disoccupazione generale. Questo significa che non sono i diritti di chi già lavora a rendere difficile ad un giovane trovare lavoro, ma che è l’andamento complessivo della disoccupazione a rendere più o meno facile un nuovo inserimento.

E che la disoccupazione cali è soltanto una speranza – retorica – del Governo e degli interessi che esso rappresenta. Come ammette O. Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, dopo uno studio comparato sul mercato del lavoro in Europa: “le differenze nei regimi di protezione del lavoro appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi”. D’altronde proprio lo stesso OCSE, che pure ne è tra i principali promotori, ha recentemente messo in dubbio le doti della flessibilità nel generare occupazione e crescita. In effetti, una manodopera docile e ricattata può di certo essere ben più “produttiva”, ma questo può rappresentare un motivo per i padroni di investire ancor meno in macchinari e tecnologia, così che, nel complesso, la produttività del lavoro potrebbe addirittura calare.

Così la classe dirigente italiana è costretta a scommettere ancora una volta che una ripresa economica ci sarà. Nonostante però le ‘autorevoli’ previsioni di chi, come l’OCSE, le ha sempre sbagliate negli ultimi anni, difficilmente verrà rilanciata da misure come questa. Anzi! Se è vero che la borghesia sta approfittando alla grande delle condizioni materialmente sempre più disastrose in cui versa il proletariato italiano e della confusione e lo sconforto che regnano tra molti lavoratori, dall’altra parte è anche vero che è costretta a misure come questa proprio per scaricare su di essi i costi di una crisi che non riesce a controllare e che, con queste stesse misure, potrebbe finire addirittura per acuire.

L’unica crisi da cui provano uscire i padroni italiani è quindi la loro crisi. Per noi, per il proletariato di tutta l’Italia, la crisi non potrà che esacerbarsi. La “crescita” di cui parlano è solo quella dello sfruttamento! 

 

Lavoratori di tutto il mondo...  massacratevi!

Quella del Jobs Act non è solo una storia italiana, ma si inserisce in un quadro internazionale di ridefinizione dei rapporti di classe che mira a far fronte alla crisi strutturale del capitale, oggi più manifesta che mai, e che ha nell’attacco al lavoro uno dei suoi strumenti principali. Pur da diverse situazioni di partenza, i lavoratori europei, chi prima e chi dopo, si trovano costretti a subire le manovre padronali di aumento della flessibilità/precarietà, aumento della produttività (e cioè dello sfruttamento), azzeramento delle rappresentanze sindacali, ecc. attraverso un attacco al lavoro che non è azzardato dire coordinato a livello europeo.

Per capirlo torniamo a parlare delle politiche della BCE, ed in particolare di un vecchio intervento che Mario Draghi fece due anni fa presso il Consiglio dell’Unione Europea. In quell’occasione il presidente della BCE mostrava come il segreto dei paesi “virtuosi”, cioè quelli che come la Germania registravano un avanzo nel bilancio, fosse che la crescita dei salari nominali fino al 2008 è stata pari al pari, o addirittura al di sotto, della produttività del lavoro. Negli altri paesi, come l’Italia, i salari sarebbero invece cresciuti “un po’ troppo”. La soluzione per essere “tutti virtuosi” e scongiurare definitivamente la crisi del debito dei paesi dell’Eurozona, sarebbe quindi quella di allineare i salari nominali all’andamento della produttività. Insomma il prezzo della crescita sarebbe una gigantesca decrescita dei salari, soprattutto considerato che a conformarsi all’andamento della produttività sono i salari nominali, cioè quelli che non tengono conto dell’inflazione, perché quelli reali sono già da tempo dappertutto più bassi della produttività! La soluzione proposta sarebbe quindi quella di continuare e accentuare quel lungo processo che negli ultimi trent’anni ha portato ad un gigantesco trasferimento di ricchezza dai salari ai profitti.

Gli effetti delle le politiche deflattive della Germania (e non solo) diventano lo strumento attraverso cui aggredire le condizioni di lavoro degli altri paesi. Dietro il famoso ‘modello tedesco’ infatti, si nasconde, in realtà, proprio una politica dei bassi salari. Questi sono alla base di un modello di capitalismo di tipo “mercantilista” trainato dalla domanda estera: con l’entrata in vigore nel 2003 della riforma Hartz, si è avviato un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro che ha agito a diversi livelli, accelerando gradualmente, tra il 2003 e il 2007, le tendenze di allungamento degli orari lavorativi e di riduzione del salario diretto (con il conseguente allargameno del segmento dei bassi salari), e indiretto, attraverso sostanziali e pesanti tagli al welfare e la riduzione della durata e dell’entità dei sussidi di disoccupazione. Stando alle statistiche si può vedere che i salari medi sono cresciuti più dell'inflazione e della produttività solo nel 2012, dopo oltre dieci anni di ristagno! Un lavoratore su cinque in Germania lavora tuttora per meno di 9 euro l'ora: è la quota maggiore di salari bassi, rispetto al reddito medio nazionale, in tutta l'Europa occidentale. Insomma, il miracolo tedesco, il boom delle esportazioni, il gap di competitività aperto con gli altri paesi, dalla Francia in giù, di cui tanto spesso sentiamo parlare è stato in realtà pagato dai lavoratori!

Il più avanzato sistema produttivo ha permesso alla Germania di mantenere delle condizioni di lavoro migliori di quelle di altri paesi senza dover intaccare la competitività delle proprie merci. Intanto procedeva verso una diminuzione relativa dei salari e peggioramento nelle condizioni di lavoro. Così un paese più avanzato è stato in grado di fare dumping salariale verso paesi, come l’Italia e la Grecia, in cui si lavora di più e con salari più bassi per poi rinfacciargli di “vivere al di sopra delle proprie possibilità”! 

Se tutto ciò sta permettendo al momento alla Germania ed altri paesi forti di resistere alla crisi e anzi approfittarne, concedendo anche qualche miglioramento ai propri lavoratori (vedi l’aumento del salario minimo), l’avanzare della crisi ed il peggioriamento drammatico delle condizioni di lavoro negli altri paesi, presto colpirà anche i paesi del centro ed i loro lavoratori. Le imprese potranno spostarsi nei paesi periferici per approfittare della manodopera a prezzo sempre più basso o i lavoratori di questi paesi potranno spostarsi in quelli del centro disposti a lavorare a salari più bassi di quelli dei lavoratori autoctoni.

Dopo anni di manovre di austerity fallimentari è difficile infatti credere che queste politiche siano veramente destinate a far terminare la crisi. La borghesia non ne sa uscire e prova semplicemente ad approfittarne. L’unica fiducia che gli interessa ristabilire è quella di poter sfruttare a proprio piacimento i lavoratori. Di fronte a questa necessità tutto il resto è secondario. Come scriveva l’economista polacco Kalecki a proposito degli “effetti politici della piena occupazione”: “la "disciplina nelle fabbriche" e la "stabilità politica" sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è "sana" dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.”

Se quindi si impegna in manovre che sembrano irrazionali o assurde, è solo perché sono il frutto irrazionale e assurdo, ma inevitabile, della logica di un “modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale per i bisogni di sviluppo dell’operaio” ed in cui di conseguenza l’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, come diceva Marx.

Se, infatti, in un periodo di così grave crisi i capitalisti non hanno di certo il problema di combattere la minaccia della piena occupazione, hanno comunque l’opportunità di approfittare al massimo della dilagante disoccupazione. Quella disoccupazione il cui principale effetto politico è quello di mettere in concorrenza disperata i proletari, condannati a farsi la guerra gli uni contro gli altri per ottenere le poche briciole a disposizione. Mettendo i “precari” contro i “garantiti”, i giovani contro i vecchi, le donne contro gli uomini, la riforma del lavoro in Italia fa leva sugli interessi (e la disperazione) dei singoli individui contro gli interessi della classe a cui appartengono. Lo scenario che si apre è quello di una competizione al ribasso tra lavoratori sempre più ricattabili, controllati, minacciati… uno scenario in cui ogni proletario finirà per fare la guerra all’altro pur di guadagnare le poche briciole concesse dal padrone di turno. Il Jobs Act ratifica giuridicamente questa situazione di fatto, contribuendo allo stesso tempo a rafforzarla. 

Recepisce inoltre e rafforza, anche quelle politiche europee che a livello continentale mettono gli interessi dei lavoratori di alcuni paesi contro quelli degli altri.

Si tratta della solita vecchia strategia della borghesia, che pare urlare: proletari di tutto il mondo, scannatevi!

 

Che fare?

L’Italia, come altri paesi d’Europa, è stata interessata da numerose mobilitazioni sin dallo scoppiare della crisi: a partire dal 2008 con il movimento studentesco che coinvolse centinaia di migliaia di studenti in tutta Italia contro i tagli all’Università pubblica previsti dal Governo. Seguito e accompagnato poi dalle lotte dei metalmeccanici della FIAT nel 2010 contro il piano del CEO Marchionne (che in qualche modo anticipava le misure dell’attuale Governo), in grado di raccogliere la solidarietà e coinvolgere centinaia di migliaia di lavoratori e cittadini. A dimostrazione del livello di mobilitazione, basti dire che il 15 Ottobre 2011, nella giornata mondiale di protesta convocata dal movimento spagnolo, Roma era la seconda piazza del mondo per numero di partecipanti.

Anche in virtù delle proprie contraddizioni interne, quel movimento non ha saputo però fare fronte all’inasprirsi della crisi ed alle improvvise e profonde trasformazioni istituzionali che questa ha portato con sé: la fine del ventennio Berlusconiano, l’insediarsi di un Governo tecnico ed infine l’ascesa di Renzi.

Un segnale importante è sembrato arrivare poi il 19 Ottobre 2013, quando il crescente movimento di lotta per la casa, protagonista di numerose occupazioni in tutta Italia, unito ai sindacati di base, portò nuovamente decine di migliaia di persone in piazza unite da una prospettiva anticapitalista. Anche in questo caso però il movimento non è stato in grado di trovare un’adeguata traduzione politica alle proprie istanze. La scena sembra quindi dominata unicamente dal procedere inesorabile della crisi verso una progressiva svalorizzazione della forza-lavoro e dai piani neoliberisti di un Governo che ne è diretta espressione giuridica.

Sotto la superficie calma e inamovibile di questa situazione, rimane il potenziale incendiario rappresentato da chi quotidianamente sul posto di lavoro paga gli effetti di questa crisi. Come abbiamo detto, la recente riforma del lavoro è destinata soltanto a gettare benzina sul fuoco. Ed infatti, appena se ne è cominciato a parlare, si è assistito ad un’imponente reazione: il 25 Ottobre 2014 quasi un milione di lavoratori scendono in piazza con la CGIL, il principale sindacato italiano, proprio contro il Jobs Act; il 14 Novembre scioperano anche i metalmeccanici della FIOM ed i lavoratori della logistica del SICOBAS, proprio nello stesso giorno in cui alcuni movimenti sociali e sindacati di base avevano chiamato una mobilitazione nazionale contro il Governo e le sue politiche; il 12 Dicembre, poco dopo l’approvazione in parlamento della riforma, arriva finalmente il giorno dello sciopero generale.

Certo, molte di queste mobilitazioni sono state organizzate da un sindacato, la CGIL, che negli ultimi anni non ha mai posto un reale ostacolo ai piani dei capitalisti ed anzi ne è stato spesso alleato se non promotore, e che è sembrato preoccupato fondamentalmente di uscire dall’isolamento a cui lo sta condannando il Governo Renzi e riguadagnare spazio nei tavoli negoziali, piuttosto che salvaguardare realmente gli interessi dei lavoratori. Forse il motivo per cui la mobilitazione è stata debole proprio nel momento in cui doveva essere più forte, cioè subito dopo lo sciopero generale e prima dell’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act a Marzo, è che il sindacato ancora sperava di avere una qualche sponda politica all’interno dell’ala “critica” del partito di maggioranza (PD).

Nonostante questo però, rimane importante la dimensione e la forza di queste mobilitazioni, che sono state in grado di raccogliere anche molto consenso tra l’opinione pubblica, ormai sempre più disaffezionata al Governo. E soprattutto è da segnalare la presenza in queste giornate non solo dei movimenti, ma anche di alcuni segmenti di forza lavoro particolarmente combattiva e per niente allineata alle posizioni della CGIL, in primis i facchini della logistica. Un segnale importante verso l’identificazione di parole d’ordine politiche comuni ed il superamento di quelle divisioni tra lavoratori precari e garantiti che tanto hanno pesato nelle sconfitte degli ultimi anni. Un portato inevitabile, ed involontario, dell’omogeneizzazione al ribasso delle recenti misure governative.

Certo, il capitale ha ancora tante armi in mano, attraverso le frontiere dei suoi stati limita il movimento dei lavoratori e mette quelli autoctoni contro quelli stranieri; attraverso la minaccia della delocalizzazione, riesce a far accettare condizioni di lavoro sempre peggiori. Questo significa soltanto che sviluppare un piano internazionale di lotta rappresenta un compito sempre più urgente e necessario.

Non è facile, ma è possibile. Dipende solo da noi.

 

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