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Il Governo della decrescita (infelice) e l'esigenza di una sinistra unita

di Riccardo Achilli

Un Governo privo di qualsiasi idea di crescita e sviluppo

Parliamoci chiaro: nessuno dei provvedimenti che l'attuale Governo Monti ha preso nei quattro mesi della sua esistenza è mirato a promuovere crescita e sviluppo. La riforma del mercato del lavoro è costruita esclusivamente attorno a due obiettivi.

Il primo è quello di favorire il calo della spesa previdenziale, quindi contribuire al raggiungimento del pareggio di bilancio reso costituzionalmente obbligatorio, un risultato, questo, che nemmeno Berlusconi e Tremonti avevano potuto conseguire, perché il Pd, che era contro tale vincolo quando al Governo c'era Berlusconi, adesso che spera di racimolare qualche spicciolo di potere con il sostegno al Governo-Monti, è diventato all'improvviso favorevole. Tornando alla spesa previdenziale, l'Aspi costerà 2 miliardi all'anno, mentre la parallela abrogazione della cassa integrazione straordinaria per crisi aziendale, dell'indennità di mobilità e di quella di disoccupazione comporterà un risparmio di 4,5 miliardi circa, con un beneficio netto per le casse dell'INPS di 2,5 miliardi all'anno (fonte: INPS). Inoltre, l'introduzione dell'imposta di 1,4 punti calcolata sulle retribuzioni dei precari potrebbe valere, secondo le prime stime, un gettito aggiuntivo pari a 700-750 milioni di euro (che peraltro, in assenza di una previsione di reddito minimo garantito, pagheranno i lavoratori, perché le imprese, per pagare l'imposta aggiuntiva, ridurranno di conseguenza le retribuzioni). In complesso, quindi, fra minori spese e maggiori entrate, il bilancio pubblico avrà un beneficio di circa 3-3,3 miliardi di euro all'anno.

Il secondo obiettivo è quello di favorire le ristrutturazioni delle imprese, cioè in parole povere, l'espulsione di personale, tramite la più facile flessibilità in uscita.

Ciò peraltro dimostra con chiarezza che le previsioni sono quelle di una lunghissima fase di recessione, ben oltre il solo 2012 ed anche il 2013 (anni in cui, secondo le stime del FMI, il PIL italiano scenderà complessivamente di 2,8 punti, un dato praticamente “greco”). D'altra parte, la firma del fiscal compact, effettuata proprio da Monti, provocherà l'esigenza di fare manovre finanziarie di 43-45 miliardi nei primi anni, che si stabilizzeranno attorno ai 35 miliardi negli anni successivi, per circa un ventennio. Una simile sottrazione di risorse all'economia non potrà che mantenerla in perenne recessione o stagnazione, negli anni in cui il ciclo macroeconomico mondiale sarà in crescita. Le imprese avranno quindi bisogno di strumenti in grado di consentire espulsioni di massa di manodopera, pagando un costo basso, per riallineare la loro capacità produttiva ad una domanda di mercato in picchiata libera.

Non venga quindi Monti a presentare la riforma del mercato del lavoro come uno strumento di attrazione di investimenti diretti esteri, con un tour, sostanzialmente turistico (ed a spese del contribuente) nelle principali piazze finanziarie asiatiche proprio immediatamente dopo l'emanazione del disegno di legge di riforma. Tale tour, spacciato per tournée d'affari per attrarre investimenti, non avrà alcun esito concreto. Ma perché mai l'impresa thailandese, o la multinazionale che opera in Thailandia, che paga i suoi operai 100 euro al mese, e gode già della più assoluta flessibilità di utilizzo dei fattori produttivi nel Paese di attuale localizzazione, dovrebbe sostenere un investimento per spostarsi in Italia? Lo potrebbe fare solo per sfruttare il mercato di consumo interno (che però le politiche finanziarie di Monti hanno definitivamente distrutto) o per sfruttare particolari bacini di competenze professionali o scientifico-tecnologiche (però il Governo-Monti non ha fatto assolutamente niente per contrastare il declino strutturale del sistema formativo ed educativo, e del sistema scientifico-tecnologico italiano, che si trascinano da decenni). Quindi perché mai gli Ide, dalle economie emergenti dell'Asia, o da qualsiasi altro posto del mondo, dovrebbero affluire in un Paese il cui mercato interno è in picchiata libera, in cui i costi amministrativi ed infrastrutturali sono ai livelli massimi mondiali, in cui la pressione fiscale sulle imprese sfiora il 50%, solo perché è stata imposta una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro, quando, spostandosi di poche centinaia di chilometri, magari in Serbia, trovano la stessa flessibilità del lavoro, ad un costo inferiore, e non subiscono le penalizzazioni fiscali, amministrative, infrastrutturali, di cui sopra? Se vi fosse la reale volontà di preservare una base produttiva, sarebbe molto più facile imporre restrizioni alle imprese italiane che delocalizzano.

Del resto, nessuno, nessuno ma proprio nessuno dei provvedimenti messi in atto da tale Governo è improntato ad una idea di sviluppo. Nemmeno il decreto-liberalizzazioni, spacciato per il cardine dello sviluppo futuro del Paese, è fatto per generare sviluppo ed occupazione. Al massimo, come già scrissi in un articolo precedente, può servire per aumentare la concentrazione oligopolistica nei settori di servizi liberalizzati, nella maggior parte dei casi (si veda ad esempio il settore commerciale) aumentando la presenza delle grandi concentrazioni imprenditoriali straniere, e quindi aumentando il tasso di sfruttamento neocoloniale dell'economia italiana (ma d'altra parte Monti è un uomo dell'Europa in mano alla Germania ed in parte alla Francia e alla Gran Bretagna, ed un uomo del capitale finanziario globale, non certo un rappresentante degli interessi nazionali, si veda la vergognosa umiliazione subita con il caso-Lamolinara. Proprio ieri, il Governo italiano ha digerito, senza colpo ferire e senza reagire, l'ultima umiliazione inflitta dal Ministro degli Esteri britannico Hague, venuto a Roma per dire che lo sconsiderato e delirante blitz militare inglese che ha causato il decesso dell'ingegnere italiano era “la cosa giusta da fare”).

Nel frattempo, la concentrazione oligopolistica in numerosi settori dei servizi indotta dal decreto-liberalizzazioni distruggerà lobbies che storicamente si sono sempre opposte, tramite i loro rappresentanti politici, ad un serio sforzo di recupero dell'evasione ed elusione fiscale, facilitando quindi un recupero di evasione che non andrà certo a beneficio del Paese, ma dei conti pubblici e quindi dei creditori del debito sovrano italiano.

A tal proposito, c'è ancora qualcuno che crede alla favoletta, puntualmente riproposta, della destinazione delle somme recuperate dall'evasione verso un abbassamento delle imposte sui redditi dei tartassati cittadini? Il recentissimo disegno di legge delega sulla riforma fiscale presentato dal Governo mantiene infatti inalterate le tre aliquote sull'Irpef introdotte da Tremonti, caratterizzate da forti effetti regressivi rispetto al sistema precedente, con un numero maggiore di aliquote e scaglioni, e peggiora gli effetti regressivi di tale imposta tagliando praticamente quasi tutte le deduzioni e detrazioni fiscali oggi esistenti, a partire da quelle concesse ai collaboratori a progetto, o alle famiglie per spese di istruzione o di trasporto. Senza contare l'aumento dell'aliquota Iva, che andrà a colpire anche i beni di prima necessità, e si scaricherà sui cittadini, o sulle piccole e micro imprese ed attività autonome, poiché le grandi imprese potranno sterilizzare l'effetto dell'incremento dell'Iva sui loro acquisti di materie prime e servizi alla produzione, mentre per le PMI, con minore potere di mercato, ciò sarà impossibile. In cambio di un nuovo salasso fiscale per i cittadini e per la piccola borghesia produttiva, gli sconti fiscali ricavati dalla lotta all'evasione andranno soltanto alla grande borghesia imprenditoriale e finanziaria, tramite la riduzione dell'Ires.

Naturalmente, la distruzione della piccola borghesia produttiva indotta dal decreto-liberalizzazioni e dalla riforma fiscale produrranno un nuovo immane impoverimento di un gran numero di famiglie, che vivono del reddito prodotto dalla loro micro-attività imprenditoriale nel commercio, nell'artigianato e nei servizi, in compagnia di un proletariato riportato ai livelli di tenore di vita dei primi anni Cinquanta. Altro che sviluppo!

In sostanza, l'accelerazione della crisi capitalistica ci sta imponendo una redistribuzione mondiale del lavoro e del benessere, in cui i tradizionali Paesi benestanti dell'Europa occidentale, in particolare quelli mediterranei (ma a ritmi meno drammatici, ciò riguarderà inevitabilmente anche l'Europa centro settentrionale) saranno costretti, giocoforza, ad una “decrescita infelice”, cioè ad une riduzione del benessere accompagnata da un modello capitalista-liberista radicale, che porterà quindi ad una crescita delle diseguaglianze distributive ed alla permanenza di impatti negativi sull'ambiente, ed anzi ad una loro accentuazione (perché i Paesi emergenti che usciranno “vincitori” da tale redistribuzione mondiale della crescita dovranno approfittarne, spingendo su processi di industrializzazione a ritmi forzati, con tutte le devastazioni ambientali che ciò provocherà).


L'unione delle forze fra marxismo, socialismo di sinistra ed ecosocialismo come unica alternativa


Di fronte ad un Governo completamente disinteressato allo sviluppo ed alla crescita, che ha come unico obiettivo risanare il bilancio pubblico per generare le risorse utili a ripagare i creditori finanziari, interni ed internazionali, il cui folle inseguimento di un profitto finanziario fittizio ha generato l'attuale recessione economica globale, e garantire il galleggiamento al sistema produttivo italiano (ma niente di più che questo; distruggendo il mercato interno per consumi, contraendo gli investimenti pubblici e privati, non si può certo pensare di indurre sviluppo imprenditoriale) la sinistra può assumere due atteggiamenti, e peraltro non è un problema della sola sinistra italiana, ma riguarda l'intera sinistra occidentale. Il primo atteggiamento è quello di aspettare che la crisi finale arrivi (perché non abbiamo ancora visto niente; il rallentamento macroeconomico cinese, largamente prevedibile già nei mesi scorsi, dovuto all'esigenza di raffreddare una crescita che sta creando bolle finanziarie, immobiliari, ma anche politiche, potenzialmente pericolosissime, e la ripresa lenta e fragile degli Usa, minacciata dai notevoli squilibri nel bilancio federale e nella bilancia dei pagamenti, nonché lo stop della crescita tedesca, che non può più esportare sui disastrati mercati mediterranei, sono fattori che nei prossimi mesi renderanno ancora più grave e strutturale la crisi; naturalmente, nei Paesi PIIGS come l'Italia, tale aggravamento, in presenza di borghesie nazionali sostanzialmente compradore ed asservite agli interessi del capitalismo finanziario globale, con Governi guidati da agenti dei mercati finanziari come Monti, Papademos, Kenny, Coelho o Rajoy, sarà molto più rapido).

Tale strategia conta sull'ulteriore, e del tutto certo, peggioramento dello scenario economico e sociale, per promuovere una situazione rivoluzionaria, in base ai noti fattori rivoluzionari oggettivi studiati da Lenin, uno dei quali consiste in un impoverimento estremo delle masse, che le rende disponibili al tutto per tutto, pur di conquistare il potere, e ribaltare tale situazione. Tuttavia, chi abbraccia tale strategia dovrebbe sempre ricordare che altra fondamentale condizione oggettiva, per Lenin, è che “la classe dominante si sia indebolita a tal punto, per effetto della lotta di classe e delle sue prolungate risse interne, da non essere più in grado di governare come prima, ma non perché non le sia possibile sostituire un governo con un altro, bensì perché la crisi dello Stato borghese è giunta a un punto tale che l'apparato repressivo della borghesia entra in decomposizione” (Piattaforma Comunista, Teoria e Prassi nr. 7). Tale situazione non soltanto non corrisponde a quella attuale, ma è anche molto difficile che si verifichi nel prossimo futuro. Quand'anche la capacità di mobilitazione e di lotta di classe in Italia raggiungesse i livelli (molto lontani) manifestati dalla Grecia in questi mesi, è chiaro che l'apparato repressivo sarebbe ancora sufficientemente forte da soffocare tale rivolta e la classe dominante sufficientemente coesa (ed infatti, la piazza, in Grecia, non ha ottenuto assolutamente niente, nonostante mesi di mobilitazioni anche violente). Infine, ci vorrebbe, sempre seguendo Lenin, l'elemento soggettivo, ovvero la presenza di un partito comunista di avanguardie sufficientemente forte, articolato e radicato nel proletariato. Il che richiederebbe, quantomeno, un'azione di lungo periodo di totale azzeramento e ricostruzione dell'attuale galassia dei partiti comunisti italiani, ognuno attaccato alla sua specificità teorica e di leadership, ognuno dei quali incapace di unità d'azione, figuriamoci di compattamento in un unico partito di avanguardie (parziale eccezione il Pcl di Ferrando, che da anni chiede, generosamente, un processo di unità nella sinistra comunista e radicale, ma il fatto stesso che tali appelli rimangano sistematicamente inascoltati dagli altri interlocutori è molto significativo della profonda crisi del comunismo nel nostro Paese).

Ora, è chiaro che la prosecuzione dell'attuale fase non potrà che indebolire l'apparato di consenso, controllo e repressione anche della borghesia, per cui nel lungo periodo è più che probabile che le condizioni rivoluzionarie oggettive finiscano per maturare, così come è possibile che l'attuale travaglio del comunismo europeo si risolva per il meglio, con la riformazione di movimenti comunisti forti, compatti, internazionalisti e autenticamente anticapitalisti (il che esclude ovviamente i partiti a matrice stalinista). Tuttavia, rimarrebbero aperti due problemi, che il comunismo non potrà non affrontare:

- come ricostruire un radicamento di massa in un proletariato che non ha più le caratteristiche di omogeneità dei tempi in cui Marx scriveva, o in cui Lenin e Trotsky organizzavano rivoluzioni. Processi di cambiamento strutturale del capitalismo verificatisi negli ultimi cinquant'anni, e che non c'è spazio qui per analizzare a fondo, come la terziarizzazione delle economie, la riorganizzazione su schemi post fordisti dei processi produttivi, l'atomizzazione crescente di questi, sia tramite l'outsourcing (che ha spezzato la tradizionale unità di fabbrica) che tramite il toyotismo ed i sistemi di qualità totale (che hanno spezzato la tradizionale unità di processo produttivo all'interno della stessa fabbrica) hanno profondamente segmentato il proletariato al suo interno, facendo emergere ciò che i sociologi borghesi chiamano “ceto medio”, la cui figura-tipo è un proletario che, non svolgendo più mansioni di tipo manuale ed operaio, ed essendo spesso remunerato con una quota di salario legata alla sua produttività/abilità individuale (ovviamente in concorrenza con i colleghi) e avendo risorse per fare investimenti (immobiliari, nella casa, o addirittura finanziari) è spontaneamente condotto ad adottare sovrastrutture culturali e comportamentali più vicine a quelle del piccolo borghese, che a quelle dell'operaio. Il linguaggio e il programma marxista (soprattutto il programma di transizione), necessari per catturare tale tipo di proletario della classe media, dovranno quindi essere modificati ed adattati, in qualche misura, per collegarsi alle tematiche di suo specifico interesse (essenzialmente, la tutela e la stabilità del suo tenore di vita, ma strizzando anche l'occhio a questioni di qualità della vita e di sicurezza cui tale tipologia di proletario è molto sensibile). Occorre cioè fare in modo che, nelle attuali condizioni di produzione, non più basate esclusivamente o principalmente dalla grande fabbrica integrata, il lavoratore del “ceto medio” diventi effettivamente quel lavoratore cooperativo collettivo associato alleato con gli operai, e non più soltanto delle potenze mentali della produzione, di cui parla Marx. D'altro canto, la crescita (che si amplierà nei prossimi anni) del precariato spezza la stabilità e permanenza, lungo tutto il ciclo di vita attiva del lavoratore, del tradizionale rapporto fra classe e posizionamento nel ciclo di produzione, che è la base del marxismo. Occorrerà quindi necessariamente ristudiare alcuni fondamentali elementi del programma di transizione: per esempio, interrogarsi su cosa significhi “riduzione dell'orario di lavoro” per un precario che non ha orario, che può essere chiamato a lavorare anche di notte o nei giorni festivi; occorrerà comprendere quali siano le parole d'ordine unificanti che mettano insieme il precario e il suo collega a tempo indeterminato (anche se le tendenze in atto nei prossimi anni semplificheranno tale questione, nel senso che tutti i lavoratori saranno precarizzati);


- come costruire un coordinamento internazionale del proletariato. Tutti i tentativi fatti sinora, con le varie Internazionali, sono falliti, e la globalizzazione dell'economia capitalista, insieme al superamento della sua fase socialdemocratica e nazionale, a favore di una fase iper-liberista e competitiva, rendono ancor più difficile e complesso il successo di una Internazionale oggi. Infatti, la globalizzazione neoliberista esasperata non può che portare ad un incremento delle tendenze alla concorrenza fra proletariati nazionali, e quindi alla segmentazione. All'operaio italiano viene insegnato che il Nemico non è il padrone, ma il suo collega operaio cinese. E per difendersi dal suo compagno cinese, l'operaio italiano viene indotto ad accettare modalità cooperative con il padronato, sotto lo slogan per cui, di fronte alla pressione competitiva dei sistemi produttivi di altri Paesi, ed in particolare delle economie emergenti, “siamo tutti sulla stessa barca”. L'estremizzazione di tale filosofia si ritrova nei sistemi di compartecipazione, sia nella versione statunitense, in cui i lavoratori partecipano agli utili dell'azienda, e quindi vengono spinti a competere, anziché fraternizzare, con i lavoratori delle altre imprese, sia nella versione tedesca, in cui le burocrazie sindacali, presenti nei consigli di sorveglianza aziendali, si fanno garanti della pace sociale e della collaborazione dei lavoratori con il padronato.


Nell'insieme, il problema che oggi deve affrontare il marxismo, sia a livello teorico che a livello di azione pratica, è quello di ricostruire una posizione di sintesi all'interno di una classe proletaria sempre più frammentata e divisa, sia al suo interno che a livello internazionale. A ben vedere, è proprio a causa di tale frammentazione (indotta dalla trasformazioni organizzative, produttive e settoriali del capitalismo) che il marxismo è entrato in difficoltà negli ultimi vent'anni. Il compito di ricomporre tale puzzle è troppo difficile da affrontare per partiti comunisti isolati e divisi anche fra loro, oltretutto soggetti ad un danno indiretto di immagine, dato dal fallimento dello stalinismo nell'Europa orientale appalesatosi con la caduta del muro di Berlino, e che è stato utilizzato molto abilmente dal sistema mediatico del capitalismo per inscenare, agli occhi del proletariato, la commedia del fallimento del comunismo tutto (quando in realtà ha fallito soltanto lo stalinismo).

Tale compito, e veniamo quindi alla seconda opzione strategica, è quello di non stare ad attendere il precipitare degli eventi nel capitalismo, che peraltro potrebbe anche essere molto lungo, e cercare di ricomporre il quadro di classe frammentato facendo leva sull'alleanza strategica con altri partiti di sinistra radicale e non riformista, di tradizione non comunista, al fine di formare blocchi unitari di sinistra antiriformista, oltre che anticapitalista, in cui ampi strati del proletariato, anche quelli in qualche misura “imborghesisti” dalle trasformazioni del capitalismo, possano riconoscersi.

Gli unici partiti comunisti che sopravvivono con un ruolo politico significativo, in Europa occidentale, e la cui influenza è in crescita, sono quelli che hanno accettato di partecipare ad esperimenti di unificazione con forze politiche di sinistra radicale, ma non di matrice marxista. I comunisti (stalinisti) della ex SED tedesco orientale sono oggi nel Parlamento federale tedesco, con una influenza crescente anche sulla difesa dei diritti sociali, mediante la loro partecipazione, nella Linke, con socialdemocratici ed ecologisti di sinistra. Il partito comunista spagnolo (che per inciso nel 2009 ha dichiarato la sua adesione ai principi del Socialismo del XXI Secolo esplicitati da Dieterich e di cui il Venezuela chavista rappresenta un banco di prova) cresce insieme alla crescita di peso politico di Izquierda Unida, cui partecipa insieme a partiti e movimenti ecosocialisti, ecologisti e carlisti. Il caso francese è il più chiaro: il PCF, in caduta libera, non solo di suffragi ma anche di adesioni ed influenza, inverte tale tendenza quando, alle europee del 2009, si presenta insieme ai socialisti di sinistra fuoriusciti dal PS e altre formazioni socialiste di sinistra nel Front de Gauche, con un risultato positivo, confermato da una ulteriore crescita alle amministrative del 2010; l'NPA (nato dal partito trotzkista LCR) che ha rinunciato ad allearsi con il FG, non riesce a sfondare, anche se rimane su percentuali di consenso relativamente decenti, ma non determinanti, ovvero attorno al 3-4%.


Conclusione


In conclusione, allo stato dei fatti, non sembra esserci strada vincente alternativa ad una, sia pur difficile e per certi versi dolorosa, unità di tradizioni di sinistra anche diverse, e storicamente in conflitto fra loro (il PCI nacque proprio da una scissione susseguente al maturare di tale conflitto; la storia successiva del PCI e del PSI è fatta di momentanee fasi di unità, segnate da profonde diffidenze reciproche e grandi divergenze programmatiche, e vere e proprie fasi di conflitto radicale). D'altro canto, va ribadito che all'interno della tattica politica trotzkista, da sempre, il dialogo con le altre forze di sinistra è considerato importante, arrivando anche a veri e propri fenomeni di entrismo. Oggi è la stessa frammentazione interna al proletariato a richiedere un'alleanza fra marxismo, ecosocialismo e socialismo di sinistra. Un simile blocco serve per ricomporre le fratture interne al proletariato stesso, condizione indispensabile per ricostruire una coscienza di classe. E' un tema sul quale anche partiti trotzkisti particolarmente intelligenti e disposti a percorsi del genere, come il Pcl, potrebbero essere sensibili. E sul quale anche il socialismo di sinistra, la sinistra democratica e il mondo ecologista potrebbero convergere senza drammi particolari. Le condizioni attuali che il governo-Monti ci impone, di “decrescita infelice”, impongono anche una prospettiva nuova, e più coraggiosa, sullo stesso concetto di crescita: oggi la borghesia, che storicamente è stata il propulsore della crescita capitalista, ha perso tale capacità propulsiva, e per sopravvivere promuove una decrescita produttiva controbilanciata dall'espansione di un profitto fittizio meramente finanziario e da un incremento delle diseguaglianze distributive. Sta alla sinistra saper ricostituire tale processo di crescita, in un paradigma diverso da quello capitalistico, in cui quindi libertà e protagonismo dal basso, uguaglianza distributiva, rispetto dell'ambiente e benessere siano adeguatamente bilanciati fra loro, dando concretezza alla visione, ancora necessariamente generalistica, di Dietrich.

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