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lavoro vs liberta

Lettera aperta a Nichi Vendola

di Giuseppe Laino

Caro Nichi

                  affermare, come hai fatto in una recente apparizione televisiva, che il lavoro per tutto il ‘900 si è accompagnato alla libertà e, ancora, che il lavoro ha, finora, garantito le libertà individuali, è semplicemente allucinatorio. Porta, cioè, fuori dalla realtà in cui dovrebbe stare una sinistra antiliberista come è quella che tu rappresenti.

         Di che lavoro stai parlando?

         Il lavoro ha assunto nelle varie epoche connotazioni diverse. È storicamente determinato, essendo non univoca la modalità con cui l’uomo ha interagito con la natura per ottenere beni fruibili. Ma il lavoro a cui tu ti riferisci, il lavoro che ci avrebbe donato la libertà, non può che essere quello salariato. Quello, cioè che si è generalizzato negli ultimi secoli su scala globale. Esattamente lo stesso lavoro che, secondo Marx, sottrae tempo alla vita e che perciò diviene l’arcano attraverso cui passa ogni sfruttamento.

         Il lavoro salariato non dà affatto la libertà. In nessun caso.

         Nel grigiore uniforme del pensiero unico dominante appare come una necessità a cui nessuno può sottrarsi.

È una forma di ricatto che impedisce ogni libera scelta, ogni opzione altra. Costringe in una realtà che finisce con l’apparire l’unica possibile. E, quel che è peggio, la ricrea così com’è, incessantemente, giorno dopo giorno.

         Il lavoro salariato crea l’illusione della libertà perché può, quando i cicli economici lo consentono, garantire il salario con cui soddisfare i propri bisogni. Genera perciò la falsa consapevolezza dell’autonomia individuale; genera l’individualismo becero, secondo cui ognuno può ottenere, volendolo e dandosi da fare in immani sacrifici, quel che serve a vivere bene, non importa se nello spreco e nel lusso. Fa prevalere come valore la sola buona volontà dei singoli individui disposti a rimboccarsi le maniche per lottare nella giungla che è la comunità degli uomini. E quando i mercati cessano i loro cicli di crescita e anzi li invertono, lascia che le colpe si scarichino su coloro che, per natura e per indole propria, neri o meridionali che siano, non sono disposti ad accettare la sua assoluta e  santa signoria.

         Ci siamo immiseriti, con credenze simili.

         A quale libertà potrebbe condurci il salario e quindi il denaro che ne è il suo equivalente? Si può considerare libertà quella che si ottiene essendo solvibili all’interno di un mercato?

         Caro Vendola, se fossimo disposti a porci queste domande e se poi ricercassimo con passione delle risposte, forse riusciremmo anche a capire meglio cosa avremmo dovuto intendere quando sostenevamo che occorreva uscire dal ‘900.

Certo i bisogni valoriali, quelli legati ad un’etica nuova incapace di sottrarsi all’urlo di dolore proveniente da ogni parte del globo, rimangono essenziali. Come lo è il bisogno di un’umanità antropologicamente diversa che basa le sue relazioni sulla non violenza e sull’orizzontalità della rete.

Ma quei valori, quei bisogni, quella nuova narrazione di cui tu, giustamente tanto parli, avrebbero dovuto porsi con i piedi per terra della critica radicale alla concezione secondo cui il lavoro salariato è l’unica forma possibile di lavoro. Il pensiero unico non è, purtroppo, solo quello del capitale ma anche quello del suo riflesso, esattamente come accade nel rapporto servo/signore di hegeliana memoria.

         Le risposte alle domande che innanzi ponevo non possono essere – tanto più oggi – quelle date dalla sinistra politica e dal sindacato durante tutto il ‘900, quelle cioè tendenti alla piena occupazione e ai salari alti che ci hanno trasformato in acquirenti-clienti.

         Le lotte che generarono il progresso e il benessere che abbiamo per anni e con somma incoscienza definito civiltà, mentre gonfiavano i nostri ventri affamavano il resto dell’umanità. Sapevamo bene che il nostro sviluppo era generato dallo sfruttamento dissennato di risorse di cui ci siamo sempre appropriati accampando innaturali titoli di proprietà a discapito di altri uomini e dell’intera natura. Conoscevamo bene le sofferenze prodotte dal nostro maniacale sviluppismo su ogni forma di vita esistente, umana o animale che sia. E nonostante ciò abbiamo continuato e continuiamo ancor oggi ad invocare lo sviluppo come se questo fosse la panacea, come se la natura non avesse limiti. Come se la concreta esigenza del capitale a fagocitare tutto potesse essere consonante all’esigenza di vita di cui abbisogna l’umanità.

         Invochiamo il lavoro confondendo il lavoro per noi con il lavoro che genera merci. Abbiamo dimenticato che il lavoro salariato produce oltre che merci anche rapporti mercificati fra uomini. Contemporaneamente non riusciamo neppure ad immaginare possibile un lavoro parco e rispettoso della natura, capace di creare rapporti di solidarietà fra gli uomini, in un’economia di sussistenza e conviviale che non è, né potrà mai essere quella capitalistica.

         Caro Nichi, se noi avessimo proseguito su quella via che avrebbe dovuto rifondarci e portarci al di fuori del ‘900, avremmo trovato ciò che sta dietro il dolore, la sofferenza e la miseria su cui troppo facilmente ci si può adagiare senza costrutto. Avremmo intravvisto cosa potrebbe sorreggere e guidare l’indignazione che di tanto in tanto ci prende. Avremmo capito, come in parte è accaduto, che per camminare bene su questa terra occorre iniziare fin da oggi la pratica di nuovi stili di vita capaci di diminuire drasticamente la nostra impronta ecologica, capaci di generare nuove e rispettose relazioni fra gli uomini – anche con coloro che verranno – in una visione non più antropocentrica del mondo in cui animali e natura tutta abbiano diritti universalmente riconosciuti. Ma, ed è la cosa più importante e più difficile da immaginare, avremmo capito che questa elencazione non riguarda astratte baggianate di inguaribili sognatori relegati in piccole nicchie ininfluenti: sono tutte cose che abbisognano di meno lavoro, di una minor produzione, di un crollo del Pil, di un cambiamento profondo e strutturale del nostro mondo. Prefigurano un mondo nuovo e possibile perché già condiviso e vissuto da molti. Sono l’alternativa al liberismo contro cui, molte volte si urla senza proporre.

         Se vogliamo veramente iniziare ad intaccare l’ordine – meglio, il disordine – esistente, dobbiamo, avendo in mente le possibili alternative, essere disposti a non farci più ricattare con l’arma del lavoro. Né a Taranto, né in Val di Susa, né in Malpensa, né nei mille altri luoghi lasciati soli in cui davvero si combattono le scelte liberiste, quelle che promettono lavoro a discapito della natura e della vita.

                                                       

 

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