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Mario Draghi, lezioni di marxismo dalla BCE

di Riccardo Bellofiore*

Introduzione

È tempo di “compiti a casa”. Nel mio caso, mi è stato assegnato un “compito per l’estate”: commentare la relazione di Mario Draghi alla giornata in ricordo di Federico Caffè, il 24 maggio (il testo integrale si può trovare nella Sezione Documenti di questo numero di alternative per il socialismo). È un discorso di notevole interesse. Mi è parso, visti i tempi che corrono, che fosse bene inquadrare il ragionamento svolto in quell’occasione dal presidente della Banca Centrale Europea nel quadro più generale dei suoi successivi interventi. Mi riferisco, in particolare, all’intervista a Le Monde (22-23 luglio) e all’articolo su Die Zeit (29 agosto), ma anche ad un paio di pronunciamenti ufficiali, in particolare lo Speech al Global Investment Conference di Londra (26 luglio), e l’Introductory Statement a Francoforte (6 settembre). Considererò pure una intervista al Wall Street Journal (24 febbraio) che ha fatto un certo scandalo perché - si sostiene - Draghi avrebbe lì buttato definitivamente nel cestino il modello sociale europeo.

A me pare che uno sguardo più complessivo faccia emergere una ricostruzione non banale, e in alcuni snodi persino condivisibile, della crisi europea; di qui si può comprendere meglio la risposta di politica economica della Bce all’instabilità di questi ultimi mesi. Si tratta di un punto di vista incompleto e contraddittorio, ma che va letto “dinamicamente”, e tenendo conto delle sue ragioni: non delle nostre.

Invita, soprattutto, a un sano bagno di realismo per una sinistra che non voglia completamente dimenticare il marxismo come parte del suo Dna, a meno che non voglia limitarsi (al di là del gergo spesso bellicoso e anticapitalista) a un immaginario keynesismo, per di più alquanto impoverito.

In quel che segue metterò in ordine i diversi “capitoli” del ragionamento di Draghi, senza badare troppo al luogo in cui le diverse affermazioni che riporterò sono incluse, perché i vari interventi mi sembrano seguire un filo unitario. Proporrò, strada facendo, qualche commento a margine. In chiusura, dopo aver presentato una critica più complessiva, accennerò alle poche, ma significative, parole con cui il presidente della Bce ha voluto ricordare Federico Caffè, di cui è stato allievo.


Metamorfosi del capitalismo e della politica economica

Secondo Draghi ci troviamo in una realtà economica e sociale del tutto diversa da quella del trentennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Allora vigevano alti tassi di crescita, tanto del reddito quanto dell’occupazione. Le tecnologie erano standardizzate, e i rapporti di lavoro si mantenevano stabili lungo l’intero arco vitale. In queste condizioni poteva prosperare il modello sociale europeo, pur in forme differenti nei vari Paesi. La frattura è dovuta a fattori strutturali che Draghi tratta sempre come “esogeni”, e su cui spende pochissime parole: in sostanza la nuova realtà è riconducibile a quella che è d’uso chiamare, superficialmente, “globalizzazione”. Ha giocato, innanzi tutto, una innovazione accelerata, con la conseguente ristrutturazione dei processi produttivi e la connessa frammentazione/precarietà del lavoro; ad essa si è accompagnata una accresciuta competizione sul mercato mondiale. Nel contesto europeo pesano inoltre con particolare forza fattori demografici, come l’invecchiamento della popolazione e la riduzione futura delle forze di lavoro. È illusorio, sostiene Draghi, pensare che il welfare possa procedere come se nulla fosse: di qui le frasi “scandalose” sul Wsj. Il modello di garanzie ereditato dal “fordismo” è finito, e basta guardare alle condizioni della disoccupazione giovanile per rendersene conto. A me pare una constatazione di fatto, sobria, e per di più tutto meno che giubilante. Occorre a questo punto ridefinire un diverso sistema di protezione che “regga” nelle nuove condizioni. Nella nuova configurazione del capitalismo anche la vecchia politica economica “keynesiana” è obsoleta. Non funziona più il modello strumenti-obiettivi che delegava alla politica fiscale espansiva (e in particolare a una spesa pubblica di contenuto generico) l’espansione della domanda aggregata e quindi del reddito senza che venisse “spiazzato” il settore privato, mentre alla politica monetaria (incentrata su una Banca Centrale subordinata al Tesoro, con la prima che forniva passivamente nuova moneta al secondo) spettava il finanziamento dell’indebitamento pubblico e il calmieramento dei tassi di interesse. Non vale più neppure il meccanismo delle aspettative adattive, rivolte al passato, perché gli agenti ormai guardano al futuro, anticipano gli effetti delle politiche economiche.

Per quel che c’è di vero in questa ricostruzione, gioca il mutato ruolo del conflitto di classe tra anni Sessanta e anni Settanta del secolo scorso, e la contestazione del comando capitalistico non solo nella distribuzione ma anche nella produzione. Non ci si può aspettare che Draghi entri su questo piano del discorso. Nel nuovo contesto, politiche di aumento del debito pubblico possono far sorgere timori sul finanziamento futuro del debito. Ciò aumenterebbe il costo del denaro e premerebbe per una riduzione della spesa privata. Di nuovo, ciò dipende da qualcosa che tutto è meno che neutrale dal punto di vista di classe: ovvero dall’obiettivo assunto dalle Banche Centrali di combattere “in anticipo” l’aumento dei prezzi, e in particolare di contrastare quell’inflazione dei prezzi di beni e servizi che possa venire dal conflitto sociale. Si sono convinte che è meglio prevenire che reprimere. Per quel che riguarda l’inflazione dei capital asset, hanno preferito invece attendere il loro decorso, per vedere che ne sarebbe stato. L’inflazione delle materie prime o delle imposte gli pone sì qualche problema, ma alla bisogna depennano l’una e l’altra dal computo. Ci si è per tutte queste ragioni rivolti ad una politica monetaria che influisca “attivamente” sulle attese degli agenti, convinti che sia possibile stabilizzare il corso dei prezzi delle merci e, a un tempo, stimolare l’economia reale. L’anello che congiunge la dimensione monetaria a quella reale è costituto dagli effetti intertemporali sui redditi finanziari della “nuova” politica monetaria, che - si dice - rassicura i risparmiatori e consente un aumento del consumo. Su questo, forse, Draghi è un po’ reticente, il suo discorso pare sempre molto, forse troppo, chiuso nel contesto europeo, progressivamente sempre più dipendente da dinamiche esterne. In quello anglosassone la potenza della politica monetaria è stata legata al prodursi di bolle finanziarie, agli effetti non fittizi del capitale fittizio: un’era comunque alle nostre spalle. Come che sia, la stabilità dei prezzi di beni e servizi è considerata condizione ineludibile di una crescita “sostenibile”. Lo strumento privilegiato per sostenere reddito e occupazione è per questo la politica monetaria, non la politica fiscale: la crisi non pare avere portato consiglio.


Una riforma “strutturale” del capitale europeo

Ciò che si richiede nella nuova fase è una grande riforma “strutturale”, prosegue il presidente della Bce. Su un triplice asse. Il primo pilastro della strategia investe le condizioni del lavoro (la cosiddetta “flessibilità”, da giocare sia sul mercato del lavoro che nel processo di lavoro), e la previdenza: marxianamente, una (ancor più) gigantesca estrazione di plusvalore assoluto e relativo. C’è chi è andato avanti su questi due terreni classici: la Germania ha usato l’ultimo ventennio, ma in particolare i primi anni Duemila, per guadagnare così quel vantaggio che ha sfruttato negli ultimi anni (giocando in modo parimenti essenziale sulla sua superiorità tecnologica e sulla compattezza e completezza della sua matrice produttiva). Il caso tedesco dimostrerebbe, nell’opinione di Draghi, che si possono conciliare efficienza e welfare.

Le due riforme di cui si è detto, usualmente classificate come “neoliberiste”, non sono però sufficienti. Draghi allude alla posizione che altrove ho definito “social-liberista”, insistendo che deve essere contemporaneamente portata avanti una incisiva riforma del mercato dei prodotti e dei servizi, pena il rischio che gli spazi aperti ad una crescita senza derive inflazionistiche diano luogo invece allo sfruttamento di posizioni di monopolio e di rendita. Il modello europeo sarebbe allora davvero perso senza rimedio: la flessibilità non si accompagnerebbe a equità e inclusione sociale. Così recita l’intervista a Le Monde, «ci si concentra troppo sulla riforma del mercato del lavoro, [ma quest’ultima] non si traduce affatto sempre in un miglioramento della competitività, perché le imprese profittano talora di monopoli o di rendite di posizione. Bisogna rivolgersi anche ai mercati dei prodotti e dei servizi, e liberalizzare quando è necessario». Se capisco bene, Draghi apre potenzialmente a uno scenario di processuale definizione comunitaria delle “regole” sulla politica fiscale e sulla politica del lavoro, non solo sul piano della produttività e della concorrenzialità, ma anche sul terreno sociale e redistributivo - il discorso rimane comunque un po’ troppo tra le righe.

Tutto ciò è insufficiente nell’ottica dello stesso presidente della Bce, che si mostra perfettamente cosciente dei gravi limiti della moneta unica - già al suo concepimento. È vero che la crisi del 2007-2008, prima finanziaria poi reale, non è imputabile alle debolezze della struttura istituzionale dell’euro, e neppure alla crisi dei debiti sovrani (che si è materializzata successivamente). Ma il disegno originario dell’euro, fa capire senza troppe diplomazie Draghi, fa acqua da tutte le parti. L’euro è “come un calabrone”. Non dovrebbe volare, eppure ha volato. Occorrerebbe semmai spiegare le ragioni del suo apparente successo. Su questo Draghi, ancora una volta, non dice molto: il quesito è comunque interessante, perché - come ho anticipato - viene il sospetto che, come la crisi degli ultimi anni, i primi anni “gloriosi” dell’euro rimandino a dinamiche esterne all’area, in particolare alla vitalità del capitalismo anglosassone e asiatico. Dimostrando come meglio non si potrebbe l’eterodirezione dell’eurozona, altra faccia del modello neo-mercantilista.

Il secondo pilastro della strategia è il “consolidamento fiscale”: in poche parole, l’austerità. Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Viene evocato, in effetti, un rilancio degli investimenti pubblici (infrastrutturali e in capitale umano), ma senza entrare granché nel merito. Ci si limita a rilevare che il fiscal compact da solo non basta se non apre a un growth compact. Il presidente della Bce pare del tutto cosciente che il riequilibrio delle finanze pubbliche non è condizione sufficiente a far ripartire le economie europee. Non sa, o più probabilmente non può, forzare i confini di questa constatazione troppo vaga, salvo voler credere davvero che le liberalizzazioni facciano il miracolo.

Il terzo pilastro è direttamente politico, e qui invece le novità abbondano -almeno da quello scranno. L’idea di una unione monetaria senza sovrano era errata all’origine, dichiara ora apertamente Draghi: bisogna intervenire per sanare le falle, rimediare i difetti della costruzione iniziale. L’euro non sopravvive senza quello che viene definito un «coraggioso salto di immaginazione politica». Il presidente della Bce è di nuovo conscio della difficoltà della sfida che indica come ineludibile: di più, sa della impossibilità di muovere immediatamente verso una stretta unità politica. Immagina, piuttosto, una
progressiva cessione di sovranità dal livello nazionale al livello comunitario. Un percorso in cui si costituiscono in parallelo le condizioni di una unione monetaria praticabile e di una costruzione politica sempre più coesa.


Le grandi rivoluzioni della politica monetaria della Bce

È in questo quadro che si incardina la strategia di politica monetaria della Bce negli ultimi anni. La novità della politica monetaria post-crisi sta, sostiene Draghi, nel fatto che mentre in precedenza gli squilibri monetari erano percepiti esclusivamente in termini di possibile pressione inflazionistica, e i modelli tendevano a trascurare gli attivi e passivi delle banche. Ora è invece diffusa la coscienza delle distorsioni legate al credito fornito da queste ultime. La percezione di una “eccessiva” creazione di credito darebbe conto della scelta di restrizione monetaria avviata dalla Bce a fine 2005 e proseguita sino a oltre la metà del 2008, quando la crisi finanziaria (e ora sappiamo, reale) dell’Europa era ben avviata: sia consentita una nota di scetticismo rispetto a una ricostruzione che sa molto di excusatio non petita. Quello che è certo è che Draghi insiste, e con ragione, sull’attivismo e sull’inventiva della Bce negli anni successivi, sino alla costruzione di quella che chiama, appropriatamente, una politica monetaria “non convenzionale” - mentre i critici restano fermi alla visione di un istituto di Francoforte sostanzialmente immobile.

In verità, a ogni grave crisi la Bce rilegge il mandato di perseguire una inflazione bassa e stabile, quantificata attorno al 2%, traducendolo di fatto in una tolleranza ad aumenti del livello dei prezzi qualora la loro linea di tendenza lo collochi al di sotto di quella soglia, almeno nel medio periodo. Questo era già chiaro nella risposta alla crisi delle dotcom. Ma tutta la gestione della crisi aperta dal crollo dei subprime conferma che, come ha detto Draghi a Le Monde, «siamo molto aperti e senza tabù»: almeno sino a che la crisi morde, si potrebbe aggiungere un po’ maliziosamente. Non si tratta solo del fatto che «il nostro mandato è di mantenere la stabilità dei prezzi per evitare una inflazione troppo elevata, ma anche una riduzione generalizzata e globale dei prezzi». Lo confermano anche le altre scelte. Non solo e non tanto le riduzioni dei tassi di interesse, forse ancora insufficienti, ma da cui non ci si può attendere miracoli in una fase quale quella attuale. Vanno nello stesso senso, già con Trichet, la progressiva estensione delle attività accettate come collaterale, sino ad arrivare all’inclusione dei titoli di Stato, o l’allungamento delle scadenze dei finanziamenti. Poi il sostegno indiretto ma rilevante al debito di paesi membri. Qui mi concentrerò sugli ultimi due passaggi di questa incessante trasformazione della politica monetaria della Bce, quelli più direttamente riconducibili a Draghi: le operazioni di rifinanziamento a tre anni (Long Term Refinancing Operations), di cui parla nell’intervento in onore di Caffè; e la politica di acquisto di titoli di stato emessi da Paesi membri dell’eurozona nel
mercato secondario (Outright Monetary Transactions), annunciata tra luglio e agosto e definita ai primi di settembre.

Nel primo caso, con la Ltro, si riconosce la sostanziale indistinguibilità, in condizioni di profonda instabilità finanziaria, tra illiquidità e insolvenza. Prendendo atto della estinzione - “temporanea” (ma per quanto?) e drammatica - del meccanismo di trasmissione, e tenuto presente il conseguente rischio di restrizione creditizia (che colpisce soprattutto le piccole e medie imprese), la Bce ha accettato di sostituire il proprio credito monetario al credito bancario: tollerando (ma si tratta di un benign neglect, a mio avviso) il sostegno delle banche ai debiti sovrani dei propri Paesi.

Si è così rigettata la tesi che vede nell’aumento del finanziamento all’economia un qualche pericolo inflazionistico, impensabile in un mondo caratterizzato da una pervasiva balance-sheet recession, cioè dalla continua contrazione dei bilanci degli agenti. La generosa immissione di moneta della Bce non giunge all’economia, ma rimane “intrappolata” nelle scorte delle banche, degli intermediari, degli operatori, come dimostrano i prestiti a imprese non finanziarie e famiglie. Nel frattempo, il banchiere centrale può mostrarsi tutto meno che dispiaciuto che le banche ricostituiscano i propri stati patrimoniali, condizione di una loro migliore resistenza a ulteriori shock. Sa che questo continua a lasciare le economie sul bilico del precipizio: dunque, sa che deve agire, in una terra incognita.

Nel secondo caso, la Omt, lo sfondo è quello di una sostanziale e duratura recessione (quale che sia il pudore delle parole); di una inflazione che pur tirata dalle materie prime e dalla imposizione fiscale indiretta è frenata dalle prospettive dell’economia reale; di aspettative depresse; di un sempre più preoccupante dilagare dell’incertezza per le paure (definite “infondate”, ma per la prima volta riconosciute) sulla reversibilità dell’euro. Siamo di fronte al tardivo ma netto riconoscimento che la moneta unica è a rischio a causa della speculazione supposta “irrazionale” sui mercati del titolo del debito pubblico spagnolo e italiano, che ha fatto impennare gli spread rispetto ai Bund tedeschi. Non c’è solo un rischio da liquidità/insolvenza, dice Draghi, quello a cui ha cercato di porre rimedio la Ltro. È ormai palese un rischio di convertibilità, che impone di spingere per una interpretazione ancora più estensiva del mandato della Bce, per un ulteriore strappo.

Per questo il finanziamento indiretto sul mercato secondario dei titoli pubblici, a partire da Spagna e Italia, finalmente si annuncia come “illimitato” ex ante. Si può certo replicare che in questo modo si sanziona una pratica che era in vigore da tempo: il fatto che esso sia sanzionato come intervento legittimo segna comunque un’epoca. La giustificazione addotta è che ciò è essenziale per l’eurozona nella sua integralità, e che non è possibile rimettere altrimenti in moto il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Si richiede una forte determinazione, non solo “tecnica”, per ricondurre alla ragione i mercati, se si vuole che la stessa moneta unica sopravviva.

Non è l’unica novità della Omt: ad essa si accompagna il segnale costituito dalla rinuncia allo statuto di creditore privilegiato. Oppure, ancora, la decisione di procedere comunque pur in presenza di un voto contrario del rappresentante della Bundesbank. La speranza è di dare una bella sforbiciata alla taglia che i mercati esigono sugli Stati reputati a rischio di “uscita”: un fenomeno speculativo del tutto ingiustificato, contro cui il presidente della Bce invoca appunto il suo mandato di difendere la stabilità finanziaria e la moneta unica. Nella speranza che basti l’annuncio, perché (se?) credibile. Come viene detto nell’intervento a Londra: «The Ecb will be ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough». E credetemi, sarà abbastanza: dice Draghi.

La Bce non agisce più solo da “prestatore di ultima istanza” per il sistema privato, come dimostra la Ltro. L’Omt sancisce apertamente che essa intende (può) agire come finanziatore dei governi. Un passo ulteriore del percorso che la fa assomigliare sempre di più a una autentica Banca Centrale. È però richiesta, come condizione necessaria all’attivazione della politica, una stretta “condizionalità”. I Paesi che intendono avvalersi della Omt sono costretti a passare sotto una vera e propria gogna - d’accordo, forse più mediatica che reale: perché la garanzia che si richiede è probabilmente la continuità dell’austerità già ferocemente intrapresa: ma chissà…

Non pare che i candidati all’aiuto siano così entusiasti da andare a “vedere”, almeno per ora. Perché l’Omt sia messo in atto si deve infatti attivare un “programma di aggiustamento” o un programma “precauzionale”, l’uno o l’altro vagliati da Efsf/Esm (European Financial Stability Facility/European Stability Mechanism). Con, in aggiunta, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale. In questo modo si ritira con una mano quello che si è concesso con l’altra. La potenza di fuoco di un intervento senza tetti quantitativi ne viene di molto smorzata, aprendo ad un quadro futuro in cui si sarà di nuovo ostaggio del riprodursi dei conflitti e delle instabilità, avendo guadagnato tempo ma perso credibilità.


La moneta richiede un sovrano: la scelta politica di Draghi

Il presidente della Bce si sta facendo promotore di una scelta politica, realistica ma audace, verso un’accelerata, anche se non immediata, maggiore integrazione dell’area - e sarà da vedere se lo strumento “tecnico” scelto, con così numerose qualificazioni, ne sia all’altezza. È chiaro però che quello strumento prende senso da quella scelta. L’intervento sulla Die Zeit è sicuramente molto netto da questo punto di vista. Per un verso, viene rivelato il bluff tedesco (chiedere che tutto cambi con una spinta verso una unità politica perché nulla cambi, in modo da mantenere una sorta di potere veto permanente). Draghi propone piuttosto uno sforzo di completamento dell’unione monetaria, che definisce “graduato” ma “strutturato”.

Difficile non concordare con lui quando scrive quello che alcuni di noi sostengono dai primi anni Novanta (e che la sinistra che accettò l’euro mise inspiegabilmente tra parentesi): che l’euro è un “mistero della natura”. È vero anche che l’eurozona, nei suoi indicatori macroeconomici, è in condizioni del tutto comparabili, e spesso migliori, a quelle di Stati Uniti e Giappone (e pure, nella sostanza, Regno Unito) per finanza pubblica, inflazione, occupazione, produttività: tutti Paesi, però, dove la Banca Centrale non pretende così tante condizionalità se decide di agire.

Ci si chiede a questo punto quale sia la razionalità ultima di una azione che, nel momento in cui si costituisce, pare indebolirsi al punto di negarsi. Nell’eu-rozona la cura che viene imposta per superare la crisi prolunga la malattia: Draghi, come peraltro lo stesso Monti, lo sa bene. Viene qualcosa di più del sospetto che la malattia sia vista come la cura, o almeno un suo momento essenziale. Che, insomma, la contraddizione sia solo apparente: che la nuova politica economica sia parte di una continua ristrutturazione capitalistica, a tutto campo: dal mercato e dal processo del lavoro, al welfare e alla previdenza, sino all’attacco al settore pubblico e alla riproduzione sociale. Si spera che una scelta del genere, come nel caso della Germania negli anni Novanta e primi Duemila, “paghi” nel medio termine.

La difficoltà, di cui si riconosce la gravità, è da questo punto di vista quella di gestire la transizione: non tanto di lenire le doglie del parto, quanto di assicurarne il buon esito. È, a ben vedere, la crisi stessa che ha portato a quei “miglioramenti” che con un qualche eccesso di ottimismo Draghi mette avanti come “prova” di una supposta più elevata convergenza tra i vari Paesi dell’eurozona. Le cui economie, in verità, paiono precipitare in caduta libera: si spera che la rete di sicurezza tenga. Intanto, non solo il credito all’economia è bloccato, e il mercato interbancario ha cessato di funzionare. C’è di più: la frammentazione della finanza (la ritirata degli investitori nei confini nazionali) riduce nel tempo i benefici del restare nella moneta unica, e riduce pure i costi di uscita. Una scelta politica, quella di Draghi, di cui è chiaro - non mascherato, epperò non banale - il segno di classe. La “comunanza di destino” dell’eurozona di cui discorre il presidente della Bce appare, per ora, poco più che un mito fondativo. E la “più profonda fondazione democratica” di cui scrive non si presenta come un risultato, né come un obiettivo - certo, neppure come una condizione - della rifondazione della moneta unica. Piuttosto, come un impedimento alla trasformazione politica che viene dichiarata necessaria, a conferma della linea di opposizione tra capitale e democrazia. È sicuramente vero quello che osserva Draghi. La Bce nulla può sulla mancanza di capitale, sulla percezione al rischio degli intermediari, sugli ostacoli di carattere strutturale. D’altronde, già Schumpeter insisteva che non può esistere banca sana in una economia che non lo è. Sono tutte difficoltà che rimandano alle dinamiche dell’economia reale, ma queste ultime richiedono un contesto politico che in Europa è tutto da costruire.

La convinzione di Draghi è che ci si debba muovere: verso una unione non solo monetaria ma anche finanziaria (con un solo supervisore e una sola regolamentazione bancaria, a cui la Germania invero resiste perché rivelerebbe le debolezze delle sue banche); verso una gestione unitaria dei bilanci pubblici (con regole fiscali uniche); verso una più piena integrazione politica. Vi sarebbe qui un mutuo rinforzarsi con le riforme strutturali di cui si è detto in precedenza. Riforme e politica, per andare avanti insieme, impongono di guadagnare tempo, tempo che solo un sostegno più determinato (e “non convenzionale”) della Banca Centrale può garantire. La natura di classe di questa transizione - di queste riforme e di questa politica, e dunque anche di questa “supplenza” dell’istituto di Francoforte - rendono obbligatoria la “condiziona-lità” dell’aiuto della Bce. Tutto si tiene.

È chiaro che Draghi ha finito con l’assumere, con tutti i limiti e le cautele del caso (e che mette avanti), un ruolo politico diretto. Su Die Zeit scrive: «Rispettare il nostro mandato richiede a volte di andare oltre gli strumenti consueti della politica monetaria», richiede di intervenire con misure eccezionali. Se definisce “attuali” gli obiettivi della moneta unica (stabilità dei prezzi e crescita sostenibile, sfruttare la dimensione del mercato unico, rendere irreversibile l’unificazione europea), con tutta evidenza li reputa non compiutamente realizzati. E la ragione che individua sta in un fallimento “politico”. Dietro la moneta dovrebbe esservi un sovrano, e il sovrano nell’area dell’euro non lo si è voluto.

Per questo la moneta unica è quello strano animale che è una “moneta senza Stato”, una contraddizione che fa pagare ora il suo prezzo. Non mi pare che su ciò il presidente della Bce sia reticente: «Le monete in ultima istanza dipendono dalle istituzioni che gli stanno alle spalle». Di qui discende anche quanto ha affermato nell’intervista a Le Monde: «Nelle condizioni straordinarie attuali, è necessario assistere a una Bce che prende posizione su disavanzi pubblici elevati, sulla mancanza di competitività o su squilibri insostenibili, dal momento che la stabilità finanziaria può [di conseguenza] correre dei rischi. La difesa dell’euro fa parte del nostro mandato».

L’integrazione economica non è più indipendente dall’integrazione politica. Tra le due Draghi auspica uno sviluppo in parallelo, ma assume per intero il vincolo dell’attuale stato dei rapporti di forza. L’unione fiscale nulla ha a che fare con un (necessario!) autentico bilancio europeo. Impossibile prevedere al momento politiche redistributive tra le regioni. Surplus e deficit permanenti tra le aree sono dunque da escludersi. Il che, se da un verso rimanda al lavoro come principale se non unica valvola di sfogo della competitività, ripropone il nodo della insostenibilità dell’approccio neo-mercantilista della Germania e dei suoi “satelliti”. (Sia detto tra parentesi: ci si può chiedere se il presidente della Bce potesse non comprendere il significato di ciò che scriveva sulla Die Zeit, quando osservava che «non è né sostenibile né legittimo che i Paesi perseguano politiche nazionali che danneggiano economicamente gli altri»).

Per mio conto, sono convinto che vada presa sul serio la ripetuta dichiarazione di Draghi che l’euro va inteso come «irreversibile» (Le Monde); che il capitale politico investito nell’Unione sia economica che monetaria è tale da imporre di procedere alla sua strenua difesa pur in un contesto di tensioni crescenti (ancora Le Monde, ma anche il discorso a Londra); che la Bce assume i risultati (ambigui, ma effettivi) del summit di fine luglio come via libera per fare «tutto ciò che è necessario» (Speech at the Global Investment Conference a Londra).


Le contraddizioni e gli insegnamenti di Francoforte

Che tutto ciò sia “abbastanza” per rendere l’euro “irreversibile”, non lo saprei dire. Ma certo può farlo sopravvivere per un bel po’. Molto più di quanto non scommettano molti osservatori, da ogni lato dello spettro politico, e delle dottrine economiche.

Niente di meno sicuro che la nuova politica monetaria della Bce funzioni davvero. Non è invero difficile scorgere le aporie dell’intero disegno, e ad alcune abbiamo già accennato. Come ha osservato Marcello De Cecco, è indubbio che l’intervento illimitato ex ante della Bce sul mercato secondario, pur con il voto negativo della Bundesbank, sia non soltanto un successo personale di Draghi, ma addirittura una svolta nella storia della Bce. Gli spread però si restringeranno durevolmente soltanto «se i debitori cercheranno di consegnare ai creditori la libbra della propria carne che hanno promesso o prometteranno, nel caso si concordino con la Bce operazioni di intervento sul loro mercato dei titoli» («Una pietra miliare nella storia della Bce», la Repubblica, 10 settembre). Ciò non porta affatto ad uscire dalla, semmai a sprofondare nella, deflazione. Del tutto possibile, se non addirittura altamente probabile, che la frammentazione dell’area si aggravi. L’effetto di queste ultime misure della Bce, di portata a loro modo storica, può dunque essere rovesciato dalla speculazione ancora una volta. Siamo a un punto di passaggio, che se non sarà seguito da altre rivoluzioni tecniche e politiche lascerà, come dice ancora De Cecco, ai Paesi del Sud Europa la scelta non troppo allettante, ma inevitabile, tra morire d’inedia o strangolati per un debito pubblico divenuto insostenibile.

D’altra parte, credere che l’architettura istituzionale dell’euro possa trasformarsi se non attraverso un percorso di questa drammaticità è ovviamente puro idealismo. Nel frattempo si rischia di affogare. La scommessa della Bce è di riuscire a tenere l’eurozona sopra il pelo dell’acqua: perché nient’altro
che questo è prestare a governi che garantiscano di proseguire in politiche di austerità, dunque depressive dentro una crisi globale. Non è escluso che ce la faccia: ma la prospettiva sarà allora quella di una lunga stagnazione dopo una ulteriore caduta, a meno di contare in una miracolosa crescita della domanda di esportazioni dall’esterno dell’area. Qualcosa più facile a dirsi o a scriversi, che a giustificarsi con argomenti razionali come probabile: tanto più quando la crisi europea contribuisce a far scivolare la Grande Recessione in un Depressione Minore (come la definisce ormai Paul Krugman). Come in questo quadro e con queste misure si possa risuscitare il meccanismo di trasmissione attraverso il canale bancario è però un mistero, visto che mentre si pretende che i disavanzi pubblici si comprimano sempre più, le imprese e le famiglie sono in un processo senza fine di disindebitamento, contribuendo ad un avvitamento della spirale della crisi.

Paradossalmente, a metterci una pezza saranno le contraddizioni della “politica monetaria non convenzionale” a produrre ulteriori disavanzi “passivi” dell’operatore pubblico. Cattivi deficit, cattivi debiti. Se i disavanzi automatici che anche la politica monetaria non convenzionale genererà in qualche modo contribuiranno a non farci sprofondare completamente nel baratro, è difficile definire un esito del genere un successo, almeno rispetto agli obiettivi dichiarati. Se è vero che il rischio di illiquidità scivola nel rischio di insolvenza, è pure vero che il rischio di convertibilità non è che la medesima cosa applicata all’Europa meridionale più l’Irlanda. Se ne può uscire soltanto con una strategia di contrasto senza condizioni alla speculazione e alla crescita reale, ma questo è ciò che la Bce non può o non vuole fare.

Detto questo, rimane la lezione di un approccio che lega trasformazioni del capitalismo, politica economica, e politica tout court. E sullo scenario direttamente europeo. Un discorso che sa, a suo modo, che viviamo una crisi di sistema. Che uscirne richiede una metamorfosi strutturale dell’economia e della società. E che ciò non è possibile se non si mette mano alla costruzione di una soggettività politica. Non c’è un equilibrio che si ristabilisca automaticamente, c’è un equilibrio da costruire. Una lezione di marxismo, sia pure in salsa ordoliberale: che però qui vede più lontano del richiamo rituale al “keynesismo”. È un discorso “alto”, minato sicuramente da contraddizioni interne, il cui rivelarsi imporrà di procedere più oltre, e con più decisione, o di registrare un fallimento.

I nostri “critici”, dal canto loro, paiono intrappolati in un discorso economico che si accontenta della denuncia, o della riproposizione di un vecchio formulario radicale fuori tempo massimo, dentro un discorso sociale e politico che non ha mai voluto davvero uscire dal confine ideale degli Stati-nazione. Se il capitale può prosperare su quel terreno, e se nulla si capisce del conflitto tra capitali se non si tiene conto di quella dimensione, il lavoro e i soggetti di una possibile alternativa ci stanno invece sempre stretti. Mi sia anche consenti
to di aggiungere che chi pensa che una uscita dall’euro segni la riconquista di una qualche “autonomia” che garantisca di per sé l’uscita dall’austerità sa molto di modellistica accademica e poco di realtà del rapporto di classe oggi.

Una sinistra degna di questo nome dovrebbe, qui ed ora, opporre una lotta senza quartiere all’austerità. Ma nello stesso tempo, con pari forza, proporre una sua agenda strutturale di uscita dalla crisi. Incardinata su una espansione della domanda (non generica, ma mirata) che sia la stessa cosa di una diversa composizione della produzione e di un piano del lavoro: che sia perciò anche un intervento dal lato dell’offerta). E incardinata parimenti su un radicale intervento sulla composizione del bilancio pubblico, a partire da disavanzi “buoni” e lotta alla improduttività e allo spreco. Condizione essenziale di tutto ciò è un percorso urgente verso la costituzione di una soggettività sociale e politica europea che sia in grado di parlare e agire con una voce sola: su questo si è fatta solo propaganda negli anni passati. Che il programma di Syriza sia stato giudicato da commentatori intelligenti una contraddizione invece che una interrogazione alla sinistra del resto d’Europa la dice lunga. Senza mettersi su questa lunghezza d’onda, si rimane soggetti passivi di quel “carattere di feticcio” che è il capitale: facile, a quel punto, scivolare nell’accettarne l’oggettività. Le aporie del disegno di Draghi obbligano a una critica che non rimanga prima, e sotto, il livello a cui quelle contraddizioni hanno il coraggio e la lucidità di situarsi.


In conclusione

La relazione di Draghi a Roma contiene parole molto belle su Federico Caffè. In particolare, queste: «Il Professor Federico Caffè, pur con una visione coerente e radicate convinzioni, fu un maestro. Ai suoi allievi ha insegnato a pensare con la propria testa, non ha trasmesso un credo vincolante. Ha aiutato i suoi studenti - scienziati dell’economia, pensatori, servitori dello Stato e delle istituzioni, cittadini consapevoli - a scoprire se stessi».

Credo che a questo contatto con un Maestro che comunicava la “pluralità” delle visioni e delle analisi, la natura conflittuale delle teorie e delle politiche economiche, Draghi debba - almeno in parte, e in una prospettiva ben diversa - la acuta percezione della difficoltà e delle sfide del momento attuale, la cognizione della dignità del suo ruolo.

Pure, colpisce che nel suo discorso sull’economia reale e sulla dottrina di politica economica, la coscienza di quella “pluralità” sia del tutto scomparsa, e l’oggettività delle dinamiche capitalistiche sia divenuta la loro naturalità. Qualcosa che sta divenendo la norma nella formazione, nell’insegnamento, nella selezione degli odierni “scienziati dell’economia”. La luce che in qualche modo, indirettamente, brilla ancora nei discorsi di Draghi, va spegnendosi.

* Economista, Università di Bergamo

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