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Sulla crisi

di Paul Mattick Jr.

Come descrivere gli eventi che hanno sconvolto l'economia globale negli ultimi tre anni?

La maggior parte dei commentatori economici concordano sul fatto sia stata una crisi finanziaria, a dare origine a una recessione, ma che una azione rapida del governo per salvare le società finanziarie e "stimolare" l'economia abbia scongiurato la minaccia di una vera e propria depressione. Alcuni economisti non si aspettano una ripresa economica prima di un anno o due, mentre quasi tutti sono d'accordo che anche se vi fosse un miglioramento dell'economia sarà una ripresa senza posti di lavoro, secondo l'opinione comune, almeno per il momento, è che il peggio è alle nostre spalle. Ma, con tutte le varianti, l'idea di base è che la causa principale dei problemi del mondo sia stato il crollo del settore finanziario americano, causato da una assunzione di rischi finanziari senza precedenti, stimolati dai fantastici profitti raggiunti da questo settore negli anni 90 e aiutati da una regolamentazione governativa lassista.

Mentre gli economisti “ufficiali”, dopo che per decenni avevano esultato per il sistema di autoregolazione del mercato, hanno avuto ben poco da dire sugli eventi attuali, con l’ eccezione importante di Paul  Krugman nel denunciare la sua professione come un fallimento di analisi, previsione, e spiegazione, i pensatori eterodossi hanno avuto tempi migliori. Ma anche la maggior parte di loro si è concentrata sulla crisi finanziaria come cuore della questione. Così diversi opinionisti come George Cooper, autore in campo finanziario, e l’economista marxista Fred Moseley – che da allora ha cambiato opinione - si sono avvicinati al Nation, di Robert Pollin che ha analizzato, aggiornandola, la caduta di Nixon attraverso Keynes, "Noi siamo tutti Minskyani adesso".


Minsky, secondo lo stile di Keynes, ha sottolineato l’ origine psicologica della crisi finanziaria, dovuta secondo lui ad un eccesso di disponibilità al rischio speculativo generato da una serie di buoni profitti. Ma sostanzialmente  tutte le spiegazioni della recessione come conseguenza di una crisi finanziaria si basano sulla distinzione, ormai comune negli scritti economici di tutte le tendenze ideologiche, tra la finanza e la cosiddetta economia reale. Secondo la versione di Cooper "della teoria di Minsky" mentre i "mercati dei beni e servizi" sono, come l'economia ortodossa ha sempre sostenuto, caratterizzati dalla "stabilità", questo non "è valido per il mercato azionario, per i mercati del credito e per il sistema del mercato in generale" che una volta disequilibrati non hanno alcuna tendenza a tornare ad un equilibrio stabile.(1) Secondo questo punto di vista, il problema  non risiede nell'economia capitalista in quanto tale, ossia la produzione e la distribuzione per trarre profitti da beni e servizi, ma nella sovrastruttura finanziaria eretta sulla sua base, che, sfuggita al controllo, può districarsi con conseguenze per la struttura sottostante.

Il capitalismo è infatti, come Marx ha sottolineato tempo fa, un sistema duale, in cui i processi fisici di produzione sono contemporaneamente processi di valore della produzione e della circolazione. Dal momento che questi processi seguono diversi imperativi, sorgono facilmente dei conflitti tra di loro. Vi è, tuttavia, solo una economia. Non solo, la finanza e la produzione sono intimamente correlate, poichè il capitalismo opera sulla base del credito. Il capitale fittizio, come lo chiamava Marx, che si sviluppa sulla base del sistema creditizio è dal punto di vista capitalistico reale come il capitale investito in mezzi di produzione e forza lavoro. In questo sistema sociale, ricordiamo, l'aspetto del valore, come forma sociale dominante dell'attività produttiva che disciplina l’aspetto del valore d’uso; la produzione di beni serve alla produzione di profitto. Se le merci non possono essere vendute a prezzi adeguati per il profitto, non verranno prodotte. Se si riscontrano più alti tassi di rendimento nella speculazione, il denaro si sposta dalla produzione ai mercati azionari. E’ per questo motivo che, come Henryk Grossmann ha osservato, i periodi di ridotta redditività tendono ad essere periodi di maggiore attività speculativa. La speculazione, come Grossmann ha sostenuto con il supporto di numerosi esempi empirici, " presenta funzioni necessarie. ... Rende possibile una proficuo "investimento" di un eccesso di capitali accumulati", anche se questi profitti non sono prodotti da capitale, ma sono trasferimenti di capitali da una mano all'altra. Così "la speculazione è un mezzo per sostituire la mancanza di valorizzazione raggiunta dall’attività produttiva con i guadagni derivati dai mercati azionari persi dalle masse dei capitalisti minori ... ed è quindi un potente mezzo per la concentrazione di capitale monetario." (2)

Se alla fine del 2007 si è verificata fondamentalmente una crisi finanziaria, perché la curva che traccia il declino della produzione industriale globale è molto simile a quella relativa al crollo del 1929 mentre è abbastanza diversa dai flessi poco profondi che hanno caratterizzato le recessioni del 1957, 1973, 1981, 1990 e 2000? Perché la ripresa, che si presume già in corso, sarà senza posti di lavoro? Le agenzie d’investimento sopravvissute stanno facendo ottimi profitti dalle operazioni finanziarie, ma le banche rimangono in gran parte restie ad offrire credito alle imprese che ne hanno bisogno per sopravvivere, o  per espandersi. La General Motors, che lo scorso anno era vicina al fallimento, è stata salvata, a quanto pare, dall'intervento del governo a costo di un gran numero di posti di lavoro, mentre i lavoratori hanno dovuto accettare salari più bassi, minore tutela della salute, e peggiori condizioni pensionistiche. Ma le società dello stato del Michigan e quelle della California, lo stato più grande dell'Unione - stanno scivolando verso il crollo fiscale, chiudendo università, scuole e biblioteche, riducendo i servizi fondamentali come l'assistenza sanitaria. Nel frattempo, l'economia europea continua a rallentare, con un aumento della disoccupazione, mentre il Giappone rimane impantanato nella stagnazione

La Cina è in crescita, ma questo sembra dovuto in parte alle ingenti somme pompate nell'economia da parte dello Stato, insieme alla capacità dell'industria cinese di sottrarre quote di mercato ai produttori di altri paesi, grazie ad una miscela di sussidi governativi, mantenimento del renminbi (o yuan ndt) a buon mercato, e uno stato di polizia in grado di imporre bassi salari e dure condizioni di lavoro. Inoltre, se guardiamo indietro, nel corso dei decenni che hanno preceduto la debacle, non vediamo la prosperità lineare propagandata a quel tempo dai sostenitori della EFFICIENT MARKET HYPOTHESIS, ma quello che era, in termini storici, l'economia mondiale relativamente stagnante, la vediamo muoversi attraverso recessioni di gradi di varia severità punteggiate da crolli di borsa e delle banche, debiti e crisi valutarie, sostenute solo dalla continua crescita del debito pubblico, aziendale e personale. Per dirla in poche parole, la crisi appare come una crisi finanziaria, non perché il resto dell'economia sia sano, ma perché la finanza era il settore più dinamico dell'economia, e quindi quello in cui la debolezza di fondo potrebbe fare la sua più drammatica apparizione.

Qual era questa debolezza di fondo? Robert Brenner dà una buona descrizione del corso degli eventi che portano alla depressione in corso in "The origins of the present crisis", scritto come introduzione alla traduzione in spagnolo (2009) del suo “Economics of global turbulence”(Verso, 2006). Nel suo nuovo testo, come nel volume aggiornato, Brenner spiega la fine del boom economico che seguì la Seconda Guerra Mondiale come dovuto a un calo del tasso di profitto per le economie dei G-7, Stati Uniti, Germania, Giappone, Regno Unito, Francia, Italia e Canada, che a sua volta ha causato un calo del tasso di crescita degli investimenti. L'aumento dei livelli del debito agevolati da parte delle autorità monetarie e l'ondata di speculazione incoraggiata dalla deregolamentazione serviva per mantenere qualcosa di simile a periodi di boom in un processo che  Brenner chiama  " bolla speculativa keynesiana". Alla fine, tuttavia, l’insufficiente redditività del capitale ha minato questa prosperità artificiale.

Questa diagnosi è certamente corretta, fino a quando funziona. Si accorda con l'analisi del ciclo economico elaborato tempo fa da Wesley C. Mitchell, sulla base di decenni di studio empirico al NBER. Come "la realizzazione di profitti è sia l'obiettivo della necessità di controllo della gestione aziendale" ha concluso Mitchell, che la redditività fluttuante è "la chiave di fluttuazioni economiche.".

Come dimostra Pepe Tapia in un paper di prossima uscita, resta vero che i profitti sono "il fattore che porta l'economia ad un boom quando crescono e spingono l'economia ad crollo quando stagnano o cadono, come si può vedere, per gli esempi più recenti, nei dati statistici relativi alle recessioni del 1990, 2001 e 2007, in tutte queste i profitti stagnavano o addirittura hanno cominciato a declinare diversi trimestri prima dell’inizio della recessione".

A differenza di Mitchell, Brenner viene considerato un economista marxista, anche se il suo marxismo, nelle parole dei redattori della New Left Review, dove il suo libro fu pubblicato la prima volta, "ha poco in comune con deduzioni spesso considerate ortodosse de Il Capitale. Assiomi di crisi sulla base di una crescente composizione organica, e la caduta di redditività degli investimenti capitalisti, non possono essere trovati qui."(3), invece, Brenner utilizza statistiche tratte da una vasta gamma di studi ufficiali e non ufficiali come base per un'analisi costruita utilizzando concetti mutuati dal giornalismo economico e affaristico senza alcuna critica concettuale, come la "redditività", la "produttività del lavoro", la "produttività del capitale", ecc…

La sua tesi è radicalmente diversa da Marx poiché non fa alcun riferimento alla teoria del valore e del plusvalore. Brenner non fa alcuna distinzione tra i profitti prodotti dal capitale manifatturiero e non manifatturiero, in cui il lavoro non produce beni né di conseguenza plusvalore; inoltre tratta tassi e interessi come costi di business, senza indagare le relazioni tra ciò che da un punto di vista marxista sono le forme di plusvalore.(4). Dal punto di vista di Brenner il profitto è un sovrappiù di prezzo sui costi della manifattura (criterio del mark-up o cost plus: consiste nel fissare il prezzo di un prodotto secondo una percentuale incrementativa dei costi sostenuti per la sua realizzazione. Ndt) , limitata dalla pressione della concorrenza. Così spiega il crollo della redditività dopo il 1965 nel manifatturiero dei paesi del G-7 come determinato dal "l'incapacità dei produttori di incrementare i prezzi a sufficienza per ripianare i costi dovuti all’ eccesso di capacità di sovrapproduzione della produzione internazionale" (5) . Questo è il profitto come appare, nella parole di Marx: "nella coscienza di tutti i giorni degli agenti della produzione stessa,"(6) come un aggiunta al costo di produzione di una merce, che si realizza quando la merce viene venduta. La questione relativa alla possibilità di questa aggiunta, come un aumento della ricchezza sociale, -il tema più importante di Marx presente nel capitolo 5 del primo volume del Il Capitale - è quello che Brenner non solleva più di quanto non faccia il capitalista ordinario. Egli discute solo del limite fissato ad ogni capitale individuale al di là della concorrenza.

Cosi come se lo chiese Marx , tuttavia, se la concorrenza impone un tasso medio di profitto in tutta l'economia, perché quel tasso è "ora il 10 per cento o 20 per cento o del 100 per cento?" (7) Contestando le spiegazioni del declino della redditività per effetto dell’aumento dei salari, Brenner afferma che essa è dovuta a "un problema di eccesso di capacita di  tutto il sistema e di sovrapproduzione, frutto dell’ intensificarsi della concorrenza internazionale," (8) che ha costretto i produttori rivali ad aumentare la produttività, limitando la portata del possibile mark-up. Ma l’eccesso di capacità ha senso solo in relazione a un determinato livello di domanda effettiva, come Marx ha osservato nel corso di una critica alle spiegazioni post-Ricardo della crisi, i riferimenti ad una “pletora di capitale” sono solo un modo nascosto di parlare di sovrapproduzione, che a sua volta può significare solo una carenza di domanda effettiva, poiché chiaramente non vi è sovrapproduzione di beni relativi ai bisogni umani (9). Brenner fornisce la soluzione a questo enigma, anche se non è a conoscenza di esso, quando osserva che " Quando i profitti hanno cessato di crescere e con essi gli investimenti ed i salari, la domanda aggregata è cresciuta più lentamente" dopo il 1973 (10). Vale a dire, non è che l’eccesso di capacità limita la redittività, ma il calo dei tassi di profitto, porta (come dice Brenner) a un tasso decrescente dell’ accumulazione, ponendo dei limiti alla domanda che appaiono ai produttori sotto forma di eccesso di capacità. Per spiegare il calo di redditività si richiede una teoria del profitto, piuttosto che una descrizione dell’incremento dei costi, e quindi una teoria del valore.

Naturalmente, la teoria che ho in mente è quella di Marx, con la sua deduzione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la sua spiegazione del ciclo di crisi come un meccanismo per contrastare questa tendenza con la riduzione dei costi del capitale costante (insieme al costo della forza lavoro). Così mi trovo d'accordo con le affermazioni di Andrew Kliman nel suo paper uscito di recente “La caduta persistente della redditività sta alla base della crisi attuale", che "è tempo di recuperare questa legge [della caduta di redditività] e la teoria del valore su cui si fonda.". Il paper di Kliman riguarda direttamente non ciò che Marx chiama il saggio del profitto, ma vari fenomeni che possono rientrare in questo termine dai dati tratti dalle recenti statistiche del economia statunitense, come i dati citati da Mitchell e Tapia.Tanto per cominciare anche perché, come Kliman dice, "il compito della teoria è quello di spiegare fenomeni osservati. Pertanto, lo scopo di uno studio sulla redditività dovrebbe spiegare i movimenti di ciò che il business e gli investitori intendono quando parlano del saggio di profitto o tasso di rendimento, piuttosto che tenere conto dei movimenti in un costrutto teorico.". In ogni caso, come Kliman giustamente sottolinea, i dati necessari per stimare il saggio di profitto di Marx che oggi richiederebbero una misurazione del "capitale dell'economia mondiale nel suo complesso" - "non sono disponibili". La sua soluzione per le astrazioni di Marx è quella di sostituire le categorie fenomenologiche concentrandosi su una economia nazionale e affermando che l'analisi “condotta in termini di processi reali” che causano variazioni dei tassi di profitto, può essere una di quelle in cui i processi causali sono quelli della teoria di Marx.

Questo non è, tuttavia, facilmente realizzabile. Per fare solo un esempio, Kliman tenta di collegare i dati della contabilità nazionale sul reddito alla teoria marxiana attraverso ciò che egli chiama l'espressione monetaria del tempo di lavoro, calcolato dividendo il PIL nominale per l'occupazione, moltiplicato per 1000 per produrre migliaia di dollari per anno di lavoro. A parte il fatto che, per Kliman stesso, il tempo di lavoro è una questione globale, piuttosto che una questione nazionale, per Marx solo i lavoratori impiegati in occupazioni produttive sono il tempo di lavoro astratto rappresentato dal prezzo in denaro. Per fare un altro esempio, Kliman sostiene che un costrutto teorico come "un aumento della composizione tecnica del capitale", utilizzato da Marx per spiegare il calo di redditività, svolge "un ruolo nell’analisi, ma non un ruolo causale nel mondo reale." E quindi dovrebbe essere sostituito da una (presunta) categoria non teorica come “il processo di innovazione tecnica”. Kliman non spiega la relazione tra l’“analisi” teorica e le "determinazioni causali del mondo reale"; è difficile vedere come "i processi causali richiamati nell’analisi di Kliman sono quelli della teoria di Marx" quando in realtà i costrutti teorici marxisti, dal’"aumento della composizione organica del capitale " al (marxiano) saggio di profitto" sono stati abbandonati. Ma qualunque sia il mio disaccordo con le teorizzazioni di Kliman, la questione che ha sollevato, del rapporto tra i costrutti teorici, descrizione causale e fenomeni osservabili, è di importanza cruciale. Qualunque siano le statistiche necessarie per l'economia mondiale, non possono risolvere la questione della correttezza della legge di Marx della caduta tendenziale del saggio di profitto. Prima di tutto, il “profitto” di Marx è plusvalore prodotto dal capitale industriale, misurato rispetto al capitale costante e variabile investito. Nel mondo reale, tuttavia, questo plusvalore esiste in forme diverse, come profitto su tutti i tipi di investimento, interessi, affitti, redditi da capitale e tasse.

In aggiunta, i rapporti di valore sono oscurati dalla fioritura degli strumenti di credito, e dalla tendenza degli investimenti ad espandersi al di là della domanda in tempi di prosperità e di ridursi al di sotto delle esigenze sociali nei periodi di depressione. Di conseguenza, sarebbe impossibile dire, se esistono statistiche su quanto abbiano contato, in un dato momento e in termini di prezzi reali, come valore del capitale totale, capitale variabile e plusvalore ed abbiano una reale corrispondenza alla teoria di Marx (11). Un esempio lampante è stata la recente scomparsa, nel corso di tre mesi, all'inizio della recessione attuale, degli utili conseguiti negli ultimi tre anni delle prime cinque banche americane. E 'per questo motivo che Marx tesse la sua analisi non in termini di prezzo, ma in termini di valore, ed è per questo che egli afferma che la legge del valore " trionfa con la forza la legge della gravità, quando la casa ci capitombola sulla testa "(12). In un momento di crisi, quando i prezzi vengono spinti ad essere più vicini alla sottostante -e cambiata momentaneamente- struttura di valore, il fatto che il prezzo sia una rappresentazione dell’attuale processo di lavoro sociale che diventa visibile. Anche allora, però, i termini della rappresentazione restano incalcolabili.

Se andiamo più a fondo, i valori non sono osservabili in linea di principio.  Ciò che è osservabile sono i prezzi delle materie prime e il lavoro concreto svolto nella produzione di merci. La teoria media tra questi, definendo il valore come tempo di lavoro in quanto astrazione nel processo di scambio sul mercato attraverso la sua rappresentazione sotto forma di prezzi. Dato che il processo di rappresentazione è determinato da una molteplicità di fattori, che vanno dalla competizione fra capitali per la suddivisione di plusvalore alla manipolazione degli scambi di valuta da parte dei governi, la cosiddetta legge del valore non è una legge quantitativa di tipo scientifico naturale, ma una spiegazione del modo con cui gli scambi sul mercato siano collegati alle attività produttive realizzati per salari all’interno di un sistema unificato di produzione e distribuzione che produce un surplus (in forma di denaro) di cui si appropria una classe dirigente. E' in questo che risiede il suo significato causale, poiché ciò che viene organizzato dal movimento di denaro è il processo di lavoro reale. Qualsiasi siano le possibilità di breve periodo per un travisamento del sistema produttivo secondo un modello monetario, sul lungo periodo, in pratica ci possono volere decenni, l'estrazione di plusvalore, in tutte le sue forme empiriche, è limitata dalla quantità effettiva di lavoro svolto in aggiunta a quello necessario per riprodurre la forza lavoro e rinnovare o ampliare i mezzi di produzione. Il lavoro necessario per merci che non sono prodotte, o che non possono essere vendute a prezzi che rendano un profitto, non verrà rappresentato da una quantità di denaro necessaria per soddisfare le richieste generate dal sistema creditizio. Per fare un esempio particolarmente pertinente, a partire dal crollo finanziario generale del 2007. la stagnazione dei salari reali, frutto di una flessione della redditività, ha reso impossibile per molti possessori di mutui subprime di soddisfare i loro obblighi una volta che la bolla dei prezzi delle abitazioni è scoppiata a causa dei limiti di espansione del credito, Cosi le categorie di valore, mentre sono inutili per una  analisi statica di un certo standard dell’economia, possono essere utilizzate per predire e spiegare le tendenze storiche del sistema capitalista.

La teoria marxista non può contemplare particolari gestioni in un determinato periodo o spiegare singoli eventi, fornendo un modello generale in cui si sono verificati. (Naturalmente, altri approcci teorici non possono comunque farlo). Così la teoria di Marx fornisce una spiegazione generale del legame tra il calo di redditività e la recessione notata da Mitchell e da altri osservatori, anche se ogni recessione ha caratteristiche particolari spiegabili solo riferendoci a specifiche condizioni storiche. Sono stati  fenomeni particolari come la deregolamentazione della finanza nel post-1980 e lo sviluppo delle obbligazioni sul debito che hanno reso possibili le forme di speculazione che hanno portato alla debacle finanziaria attuale: ciò che ci spiega la teoria di Marx è l'imperativo ad incrementare la speculazione durante questo periodo.

Allo stesso modo è stata l'analisi dell’"economia mista" nel dopoguerra sul presupposto della correttezza della critica di Marx all'economia politica che ha reso possibile la dimostrazione di Paul Mattick che la spesa pubblica, in quanto uso non produttivo di plusvalore, non poteva fornire una nuova controspinta alla tendenza del tasso di profitto a cadere, le future manifestazioni di tale tendenza avrebbero trasformato la spesa pubblica stessa in una nuova fonte di difficoltà per l'economia globale, che ha ora a che fare con l'espansione del debito mentre la redditività è rimasta lontana dal superare le dinamiche fondamentali del capitalismo diagnosticate da Marx. Mattick ha dimostrato che: "La produzione indotta dal governo è ... limitata dalle stesse limitazioni della produzione privata di profitto."(13) Questa limitazione si è presentata nella crescita continua del debito pubblico, in fenomeni come la combinazione di inflazione con stagnazione economica e in ultima analisi in un ritorno a condizioni di crisi a causa dei limiti stabiliti sull'accumulazione di capitale da una insufficiente massa di profitti. Anche se è raramente citato in questo momento, l’evidente correttezza di Mattick, e quindi della teoria marxista su cui si basa, rappresenta un insolito successo predittivo nel campo delle scienze sociali. Non sarebbe nemmeno, a mio avviso, sbagliato dire che era una spiegazione della crisi attuale.

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Note
1 G. Cooper, L'origine delle crisi finanziarie (New York: Vintage, 2008), p. 93.
2 H. Grossmann, Das Akkumulations-und des Zusammenbruchsgesetz kapitalistischen Systems (Leipzig: Hirschfeld, 1929), pp 543, 546.
3 Ibid., P. ii.
4 Cfr. ibid., P. 252.
5 Ibid., P. 136.
6 Marx, Il Capitale, vol. III, p. 117.
7 L'unica risposta a questa domanda, Marx prosegue, è "di dichiarare che il tasso di profitto e quindi il profitto stesso è un sovrapprezzo, determinato in modo incomprensibile, sul prezzo parziale di una merce determinato dai salari. L'unica cosa che la concorrenza ci dice è che questo saggio di profitto deve essere ad un determinato livello. Ma questo lo sapevamo già ... "Il Capitale, vol. III, p. 1005.
8 Brenner, p. 128.
9 Cfr. Karl Marx, [Teorie sul plusvalore,] Manoscritti economici del 1861-63 in Karl Marx e Frederick Engels, Opere, vol. 32 (New York: International Publishers, 1989), pp 129 ss.
10 del Brenner, p. 148.
11 Così ho sbagliato a dire in un precedente lavoro che i valori di plusvalore complessivo, capitale variabile e capitale costante sono "in linea di principio misurabili" (vedi "Alcuni aspetti del Valore-Price Problem", p. 63n58.
12 Capitale, vol. I, p. 168.
13 Paul Mattick, Marx e Keynes (Boston: Porter Sargent, 1969), p. 163.
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