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Quale progetto persegue il capitalismo contemporaneo?

di Marco Bertorello e Danilo Corradi

La crisi economica e sociale sembra senza fine. Prima l’esplosione del sistema finanziario nel 2008, poi un breve periodo di ripresa, in seguito un ritorno tendenzialmente recessivo per l’Europa e di modestissima crescita per gli Usa. Persino il principale paese emergente, la Cina, ha registrato un rallentamento della sua pur poderosa crescita a fronte delle difficoltà incontrate nei principali mercati di sbocco. L’economia del pianeta appare sempre più concatenata, il circuito finanziario sempre più avvolgente, e nessuna prospettiva sistemica sembra emergere. È infatti incomprensibile il disegno con cui le classi dirigenti del capitalismo contemporaneo intendono procedere. Dopo l’esplosione negli Stati Uniti l’epicentro della crisi si è spostato verso l’Europa, innescandosi sulla fragilità dell’economia reale che già avvolgeva il vecchio continente. Qui la crisi finanziaria  pare «retroagire sulla dinamica mondiale», come sottolinea Riccardo Bellofiore. Benché con pesi specifici differenti da paese a paese, il lato finanziario e quello strettamente economico in questi anni hanno contribuito ad alimentare una impasse complessiva. La recente dinamica è costituita da un passaggio della crisi dall’economia privata a quella pubblica, in cui i bilanci statali, già messi a dura prova per l’intero ciclo neoliberista, diventano il problema.

Una precisazione si rende necessaria. La natura insostenibile dei debiti pubblici va compresa in una doppia traiettoria, una di ordine globale e l’altra europea. La prima fa sì che i debiti statali stiano diventando un problema per tutti in quanto vanno aggiunti a quelli privati, cresciuti anch’essi considerevolmente in questi anni per sorreggere artificialmente l’economia. La prima retrocessione significativa delle agenzie di rating è subita proprio dagli Usa all’inizio del 2011. A essa fa seguito nella seconda metà dell’anno un braccio di ferro tra democratici e repubblicani per la modifica costituzionale del tetto di spesa (conflitto che rende evidenti le difficoltà su questo versante di quella che rimane la principale potenza mondiale). Ma il problema dell’entità dei debiti pubblici assume un carattere ancor più grave su scala europea, in quanto l’Unione conferma sull’argomento il punto di vista del capitalismo centro-europeo, cioè quello a guida tedesca: sull’onda della crisi greca restringe requisiti e predispone sanzioni già previste da Maastricht, mettendo sempre più sotto osservazione oltre al deficit anche il debito. Da queste decisioni avvenute a marzo del 2011 esplode la successiva crisi del debito in Spagna e anche in Italia.

Altro che speculazione: il famoso spread con i Bond tedeschi aumenta a fronte di scelte di politica economica assunte dentro il quadro continentale. La ricetta ha dunque l’obiettivo dell’assoluto rigore nei conti pubblici da perseguire attraverso austerità, privatizzazioni e smantellamento dello Stato sociale.

Qui si afferma il rebus sulle prospettive. Qual è la strategia per uscire dalla crisi? Le misure che vengono convenzionalmente adottate risultano recessive. Il caso greco è davanti a noi non solo dal punto di vista geografico, ma come prospettiva concreta. C’è un effetto avvitamento tra provvedimenti che deprimono la domanda e mancata crescita economica. Ciò che si risparmia in spesa non compensa i mancati introiti fiscali. Il cosiddetto fiscal compact, cioè i provvedimenti volti a ridurre il rapporto debito/Pil fino al 60% nel giro di venti anni, equivale per la sola Italia a manovre economiche pari a 45-47 miliardi di Euro annui (senza contare i costi crescenti sul debito, l’aumento dei costi delle materie prime oppure l’aumento dei costi per mantenere un’amministrazione pubblica, più in generale senza considerare il necessario intervento anticiclico). Il rigore sembra imposto da un nocciolo duro continentale che, nonostante viva principalmente di esportazioni in Europa, non è disposto a rischiare sul versante della finanza pubblica a livello dell’Unione. Le resistenze poste dalla Germania nei confronti di Fondi europei, o Eurobond, rispondono a una politica volta all’esportazione delle proprie merci coniugata con politiche restrittive e di contenimento salariale sul versante interno. É qui che si innestano i provvedimenti che esulano dalla finanza pubblica in senso stretto e che richiamano un progetto di ristrutturazione degli assetti socio-economici del vecchio continente. La lettera della BCE di Trichet e Draghi al governo Berlusconi può essere considerata il manifesto di questo programma. Cosa c’entrano altrimenti le riforme del mercato del lavoro oppure le liberalizzazioni con il risanamento dei conti pubblici? Questa ideologia non persegue quella crescita che, coerentemente alle logiche di mercato, dovrebbe essere l’unica possibilità per far fronte alla crisi dei debiti sovrani. È chiaro che non saranno questi provvedimenti a condurre alla ripresa dei fondamentali economici. Esistono, infatti, paesi ben più liberalizzati del nostro che in questa fase languono intorno alla crescita zero. Allora perché questa ostinazione? L’impressione è che, data per assodata la mancata crescita a tempo indefinito, esistono delle subordinate che vengono perseguite in attesa di tempi migliori. In questo senso le classi dirigenti globali navigano a vista. Questo non significa che siano prive di alcun progetto o di una certa razionalità.

L’economista Michel Husson fornisce una duplice spiegazione. Da un lato esiste una adesione/sottomissione dei governi alla finanza, ma dall’altro si afferma una volontà politica a trasformare i rapporti nella società, a portare a termine quel progetto di dominio incontrastato del mercato, sconfiggendo le resistenze sociali che ancora permangono. Quest’ultima ambizione risponde alle corde del capitalismo contemporaneo. Husson spiega come le multinazionali mettano in conto che quello che perderanno nella recessione dei paesi europei «lo recupereranno sugli altri mercati grazie a un supplemento di competitività». Questo prendere fiato, almeno per quella parte dell’impresa orientata all’export, sembra il motivo di tanta adesione alle politiche di rigore e ristrutturazione anche in paesi come l’Italia. Recentemente «Il Sole 24 Ore» ha proposto un dossier che enfatizzava i successi di questo segmento della produzione nostrana, costituito prevalentemente da meccanica industriale di qualità, tessile, agro-alimentare, cioè settori iper-specializzati con elevate dosi di innovazione. Una produzione che non necessariamente si esaurisce nella grande impresa, ma che è fatta anche di tante medie imprese impegnate in mercati di nicchia. In Italia perciò questa strategia di sopravvivenza si fonda sul cosiddetto quarto capitalismo, cioè quel medio capitalismo che si è incuneato tra il declino della grande impresa e l’inadeguatezza della piccola e dei distretti industriali affermatisi negli anni Ottanta. Quello cioè delle multinazionali tascabili.

Il progetto però è rischioso e pieno di insidie. Quali sono, infatti, le condizioni per cui si possa affermare un intero continente orientato all’export? Come è pensabile che l’Europa si trasformi in una enorme Germania? Vale la pena, a tal proposito, considerare in che misura l’export italiano contribuisce alla ricchezza nazionale.  Questo esempio risulta significativo non solo perché ci riguarda, ma in quanto l’Italia ancora nel 2008, cioè in buona sostanza in un anno antecedente alle ricadute della crisi finanziaria, risultava avere un’economia decisamente orientata al commercio estero tale da piazzarla al sesto posto tra i paesi esportatori nel mondo, con il 7.9% dei flussi di esportazione all’interno della UE e l’11.6% delle esportazioni di paesi UE verso il resto del mondo. Nel 2007 il volume dell’export contribuiva per il 29.24% del Pil italiano. Per un paese decisamente esportatore si può valutare che tale segmento non raggiunge neppure 1/3 della ricchezza complessiva prodotta. Da questo dato emerge il quadro di un paese che, per quanto coinvolto nei flussi del commercio globale, dipende in larga parte dagli scambi interni. Difficile, se non impossibile, prevedere un ribaltamento di queste proporzioni. D’altronde i segnali che provengono dal contesto globale non lasciano presagire alcun cambiamento epocale. Esistono timidi segnali di ripresa negli Usa, mercato principale di sbocco per i paesi europei, ma che non rappresentano una solida base di rilancio per l’economia mondiale. Anzi, come sottolinea Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti ad aver in qualche misura previsto la crisi del 2007-08, ci sono quattro rischi che minacciano una ripresa globale: il rincaro dei costi energetici, dovuti anche a tensioni geopolitiche, la crisi dell’area euro, l’allentamento delle politiche di spesa americane, dovuto alla necessità di far fronte al debito, e infine, fattore molto significativo, l’evidente rallentamento delle economie asiatiche. La Cina ha ridotto la crescita, a Singapore due degli ultimi tre trimestri del 2011 hanno avuto il segno meno, Taiwan è tecnicamente in recessione, la Corea cresce di un modesto 0.4%, mentre il Giappone affonda con un -2.3%. In questa parte del continente asiatico la crescita dell’export sta rallentando come quella dell’import, che a sua volta rappresenterebbe la premessa per future nuove esportazioni. Per questa concatenazione di fattori Roubini sostiene che la crescita dell’economia statunitense sarà below potential (inferiore alle potenzialità), e verrebbe da aggiungere inferiore anche alle necessità globali.

Non solo. Se prendiamo il caso cinese possiamo registrare una duplice tendenza che non va favorendo gli scambi commerciali. Da un lato la crescita dell’Impero Celeste, praticata anche con politiche effettivamente keynesiane, rischia un eccesso di investimento infrastrutturale e una bolla immobiliare, dall’altro il tanto richiesto aumento dei consumi interni rischia di non tradursi in un volano per l’economia mondiale. Significativo quello che sta avvenendo in alcune multinazionali impegnate nel settore alimentare: Danone, Nestlé, PepsiCo, stanno dismettendo impianti in Cina poiché gli affari non stanno andando come sperato. Ciò avviene non per il rifiuto a consumare prodotti occidentali, ma perché questi vengono copiati e sostituiti da produzioni autoctone che non solo risultano più concorrenziali sui prezzi, ma stanno anche vincendo la battaglia del branding, intercettando meglio gusti e abitudini locali. Questa tendenza non va caricata di una portata eccessiva, ma va registrata come una novità significativa. Da un recente report dell’Economist Intelligence Unit su sondaggi effettuati ai principali soggetti multinazionali operanti in Cina risulta che alla domanda «Quanto è  centrale il mercato cinese per la vostra azienda?» le risposte che lo definivano «fondamentale» dal 2004 a oggi sono passate dal 52.5% al 37%. Un giro di boa nelle strategie d’impresa globale.

Indubbiamente il capitalismo ripone speranze sulle sue capacità auto-rigeneratrici e sulle dinamiche spontanee e anarchiche con cui è riuscito sovente a invertire il ciclo. Per certi versi è proprio la ciclicità delle economie di mercato a fare da postulato. Così è sempre stato e dunque sarà, ma tutte le civiltà, o come li definisce Immanuel Wallerstein i sistemi storico-sociali, hanno avuto un inizio e una fine e non è così scontato che questa invece abbia le qualità per essere infinita. Per il momento però le classi dirigenti del capitalismo attendono tempi migliori provando a non intaccare i consueti meccanismi di accumulazione e di mercato. Questa prospettiva non implica automaticamente che non sia data una qualche ripresa nel prossimo periodo, ma certamente non tale da farci uscire dalle secche in cui siamo giunti con la crisi. Nessuna crescita strutturale, impossibilità a recuperare la crisi del debito. La carta del commercio estero, dunque di una ritrovata centralità dei meccanismi competitivi, potrà dare vita soltanto a una fase di ripresa modesta e molto polarizzata. In cui a soccombere saranno il welfare, come ci ricorda perentoriamente Mario Draghi, il lavoro, vittima della disoccupazione e delle gare al ribasso su costi e diritti, e una quota delle imprese nazionali, soprattutto piccole e medie, ma persino grandi, che non potranno certo reggere il livello globale e che moriranno nel contesto locale stagnante. In buona sostanza tanta distruzione, ma poco creatrice. Le diseguaglianze saranno destinate ad aumentare e pochi saranno quelli che riusciranno a salire sul carro dei vincitori. L’economia magari non soccomberà, ma certamente imporrà un modello instabile, privo di coesione sociale e di un progetto sistemico di ampia portata. Un contesto dove crisi locali e generali saranno più frequenti, dando vita a nuovi conflitti sociali e politici i cui contorni sono già oggi tangibili.

 

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