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Sfiga e rivoluzione

Crisi dell’euro e crisi di sovrapproduzione: la forma e la sostanza

di Mauro Vanetti (guest blogger)


Sarà mica che porto sfiga?

Nell’estate del 2007 mi trovavo in California; quello fu l’anno della crisi dei mutui subprime. Il nome è improprio, come tutti i nomi che vengono dati ai vari crack del capitalismo; i giornalisti amano etichettare le catastrofi economiche a seconda del casus belli, camuffandone in questo modo le cause profonde. Con questa nomenclatura, la Prima Guerra Mondiale dovrebbe chiamarsi la Guerra dell’Attentato di Sarajevo, mentre la Seconda potrebbe essere registrata nei libri di storia come la Guerra della Radiostazione di Gleiwitz. Ad ogni modo, l’esplosione della bolla immobiliare mise in luce la fragilità della crescita statunitense; si erano accumulate montagne di dollari vendendo case a prezzi sempre crescenti a famiglie senza soldi e ad imprese senza liquidità, e costruendo castelli di carta speculativi su previsioni irrealistiche di crescita eterna di questi prezzi. L’era Bush entrava in declino in un clima crepuscolare ben descritto da quelle scene di Capitalism, a Love Story di Michael Moore in cui si mostra come le banche abbiano imposto allo stesso Congresso il Grande Salvataggio (bail out) nell’autunno 2008, inducendo dozzine di parlamentari smidollati ad approvarlo dopo che il 29 settembre la Borsa era crollata perché i deputati avevano “votato sbagliato” in uno strano sussulto di democrazia. Il Bail Out era di 700 miliardi di dollari tondi; a chi chiese perché la cifra fosse proprio quella, si rispose con compiacimento che non c’erano motivi tecnici, doveva solo sembrare «bella grossa».

Sarà mica che porto sfiga?

Nel 2008 mi ero trasferito a Londra; quello fu l’anno della crisi bancaria britannica. Dopo che per qualche mese si erano combattuti su riviste e giornali gli “ottimisti” e i “pessimisti” rispetto alla possibilità che la crisi “immobiliare” statunitense potesse esondare oltre il settore immobiliare e al di là dell’Atlantico, i fatti hanno dato ragione a chi riteneva che la bolla immobiliare USA aveva coperto per anni, come le ghette da ricco di Zio Paperone, non solo i piedi d’argilla dell’economia degli Stati Uniti, ma quelli dell’intero capitalismo mondiale e in particolare europeo.

La locomotiva nordamericana stava frenando e il primo vagone a sbatterle contro era quello con la Union Jack. Sui giornaletti gratuiti della metropolitana si leggeva una parola che sembrava bandita da decenni: nazionalizzazione di una banca che stava crollando, Northern Rock; era dagli anni Settanta che non si nazionalizzava più niente nel Regno Unito. Northern Rock diventa statale, viene spezzata in due parti, una good bank e una bad bank. La parte buona viene rivenduta a Virgin Money nel 2012 per 747 milioni di sterline, metà di quello che lo Stato ci aveva buttato dentro l’anno precedente. La parte cattiva resta nazionalizzata, lasciando ai bilanci pubblici la minaccia di perdite potenziali fino a 21 miliardi di sterline. Di rado si è visto un esempio più clamoroso di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.

Sarà mica che porto sfiga?

Nel 2009 torno in patria; la crisi mi segue e sbarca in continente.

Si inizia a parlare di crisi dei debiti sovrani. Non c’è da stupirsi, i liberisti dell’altroieri da un paio d’anni erano tutti diventati mezzi keynesiani pronti a “stimolare l’economia” con disperati salvataggi finanziati coi fondi pubblici. I discorsi concentrati sul settore finanziario tendono a nascondere però il legame con l’economia reale: la crisi non era solo delle banche, ma di tutti i settori dell’economia, non foss’altro perché non è oggi possibile tracciare confini netti tra economia reale e finanza, quando qualsiasi impresa o famiglia ha bisogno di un flusso di credito continuo, e viceversa quasi ogni impresa e moltissime famiglie hanno investimenti in questo o quel prodotto finanziario. Non esiste una grande holding che non abbia una controllata che si occupa di finanza e talvolta anche di speculazione immobiliare; ci sono milioni di lavoratori con pensione e liquidazione in parte o del tutto sotto forma di fondi d’investimento. Se questa è la situazione, le spese folli degli Stati per salvare le banche non potevano certo essere finanziate dalla semplice tassazione dell’economia reale, a sua volta boccheggiante. Questi regali colossali al capitale finanziario sono avvenuti a spese di un incremento dell’indebitamento pubblico; basti pensare che nell’anno del Grande Salvataggio il deficit USA è cresciuto di mille miliardi di dollari, realizzando il più grande buco di bilancio dalla fine della Guerra della Radiostazione di Gleiwitz. Nell’agosto 2011 gli Stati Uniti d’America sono arrivati addirittura a un passo dal default quando in parlamento non si riusciva a trovare un accordo per innalzare il tetto del debito pubblico; per la prima volta nella storia, i titoli di Stato USA hanno subito un downgrading da parte di Standard & Poor’s.

Se il debito pubblico di un Paese come gli Stati Uniti, che per difendere la propria credibilità hanno pur sempre a disposizioni abbastanza armi da radere al suolo l’intero globo, poteva dare dei grattacapi, figuriamoci quello di Paesi come la Grecia o l’Italia. Una complicazione aggiuntiva è data dal fatto che mentre gli USA sono padroni della propria moneta e quindi la Federal Reserve può intervenire in situazioni di emergenza scaricando sul dollaro i problemi dei conti pubblici (e viceversa), la Grecia o l’Italia devono mettersi d’accordo con gli altri Paesi della zona euro se vogliono tenere a galla i loro Stati a spese della moneta comune. Se l’economia affonda come il Titanic, conti pubblici e stabilità della moneta sono Rose e Jack finiti nell’acqua gelida dell’Atlantico: complici i fianchi troppo rotondetti di Kate Winslet, se Di Caprio vuole salvarla deve starsene a mollo perché sulla zattera improvvisata non c’è posto per entrambi. Ma quei due perlomeno si amavano anche nel corso di un naufragio, mentre tra le borghesie europee non si può dire che si applichi il motto «A friend in need is a friend indeed».

L’euro, armatura comune forgiata sognando tempi di vacche grasse, in tempi di vacche magre diventa una camicia di forza proprio per le economie più deboli. Politiche monetarie anticicliche che sulla carta sarebbero opportune per la Grecia non sono accettabili per la Germania, che anzi pretende dai governi greci comportamenti “virtuosi” ovvero di austerity dura, in nome dell’euro e in cambio di “aiuti” ricattatorî. Nelle volute delle bizantine procedure decisionali dell’Unione Europa e dell’Eurogruppo si creano i vuoti democratici adatti a contenere una moderna tecnocrazia, che negli anelli deboli del mercato comune assume il volto di una sorta di colonialismo finanziario prussiano.

Forse porto sfiga davvero. O forse facciamo un errore di prospettiva quando confondiamo la crisi con le sue manifestazioni, illudendoci che riguardi una certa moneta, un certo Paese, un certo aspetto dell’economia e della politica, una certa porzione di umanità.

Siamo gli australiani della città di Darwin che il 1° settembre 1939 leggono sul giornale della sera dell’incidente avvenuto il giorno prima alla radiostazione di Gleiwitz, in Polonia; a chi ci dice che il problema è la voracità dell’imperialismo, non solo tedesco, dovuta alla crisi mondiale del capitalismo iniziata nel 1929, rispondiamo che non ci interessano discorsi astratti, ma fatti concreti e soluzioni concrete, praticabili localmente. Da vicino, le spiegazioni generali sembrano generiche, le soluzioni complessive sembrano complicate. Due anni e mezzo dopo, noi australiani della città di Darwin siamo morti: l’aviazione dell’Asse ci ha bombardato con 242 aerei giapponesi. Che sfiga.

Tocca fare un passo indietro e col rischio di sembrare scolastici ripetere verità un tempo acquisite e oggi sepolte dall’arretramento ideologico degli anni Ottanta e Novanta. Le crisi periodiche dell’economia capitalistica sono di regola crisi di sovrapproduzione. Qualcuno in questi casi osserva che questa volta è diverso e non c’è sovrapproduzione. Sia lecito soltanto ricordare che da molti decenni è chiaro anche in ambito marxista, oltre che in qualsiasi libro di Economia Industriale, che la sovrapproduzione si manifesta nei settori maturi del capitalismo come sovracapacità cioè sovrapproduzione potenziale. Gli economisti spiegano che nei settori con una struttura di mercato più concorrenziale, dove l’offerta di molte aziende cerca la sua domanda, la crisi ha la forma della sovrapproduzione (l’esempio tipico è quello della distruzione di prodotti agricoli invenduti); nei settori, tipicamente oligopolistici, dove la domanda crea la sua offerta, la crisi ha la forma del mancato utilizzo degli impianti che scatena autodistruttive guerre di prezzo (qui l’esempio tipico è il settore automobilistico, dove le poche marche presenti sul mercato mondiale cercano di capire chi dovrà chiudere qualche stabilimento perché sia assorbita la capacità produttiva in eccesso che oggi in Europa pare sia addirittura intorno al 30%).

Del resto, che la sovrapproduzione sia un fatto reale e non uno schema libresco di un marxismo datato, è un fatto che chiunque può verificare facilmente se ha purtroppo a che fare con una crisi aziendale. Quest’ultimo inverno ho avuto modo di incontrare due presidî operai nella provincia dove abito. In entrambi i casi, tutti i dipendenti erano minacciati di licenziamento, addirittura in una delle due fabbriche il padrone sembra fosse scappato in un Paese dell’est. Fuori dai cancelli, c’erano i lavoratori con gli striscioni e le bandiere, con il fuoco acceso in un bidone e con la rabbia e la solidarietà che sono il respiro e il battito del cuore di questi momenti di lotta. Dentro i cancelli, in una fabbrica c’erano dozzine di roulotte e camper invenduti allineati nel parcheggio che faceva da magazzino; nell’altra c’erano migliaia e migliaia di marmitte. La crisi nel capitalismo non è come le carestie di un tempo; le vacche non sono magre, sono obese.

Quando l’economia reale entra o sta per entrare in questa situazione è perché si rompe la capacità degli investimenti di generare profitto con lo stesso ritmo di prima. Siccome nel capitalismo fare profitto aprendo una fabbrica, piuttosto che comprando dei derivati sul mercato finanziario, piuttosto che affittando un terreno, è semplicemente un modo come un altro di investire i propri soldi, c’è un sistema di vasi comunicanti tra il profitto, l’interesse e la rendita. Nella misura in cui si prosciugano le occasioni di profitto nell’economia reale, i capitali affluiscono in quella fittizia, finché le bolle che lì si creano non scoppiano a loro volta. D’altronde, per via di quella che Lenin chiamava «la fusione delle banche con lo Stato», le difficoltà della finanza privata non possono lasciare indenne la finanza pubblica. La crisi di sovrapproduzione/sovracapacità diventa crisi bancaria diventa crisi del debito sovrano diventa crisi valutaria. Non è sfiga!

Nel 2001 un’americana che conosco mi scrisse che l’attentato alle Torri Gemelle dimostrava… la necessità di limitare la vendita dei biglietti aerei a persone di provata fiducia. Questo semplicismo può sembrare ingenuo, ma che dire allora di quei sapientoni che nel 2008 sostenevano su autorevoli giornali che la cosiddetta crisi dei mutui subprime dimostrasse la necessità di controllare meglio certi derivati finanziari? (E i più spudorati avranno anche detto che «non van più fatti i mutui ai negri».) Come se il problema iniziasse e finisse in quegli uffici dove con un timbro e una firma frettolosa si accendevano mutui-spazzatura che poi venivano inoculati in prodotti finanziari diversificati che ne nascondevano la tossicità…

Quando la crisi ha cominciato a mandare in tilt il mercato dei debiti sovrani, ad ogni punto di spread si ripeteva sugli stessi giornali la formula magica di tagliare i costi morti dello Stato; ancora una volta, come se il problema iniziasse e finisse quando i parlamentari schiacciano il pulsante verde per votarsi l’ennesimo aumento di stipendio…

Nel 2012 il frame dominante del discorso pubblico sulla crisi in Italia sta diventando un altro: l’uscita dall’euro. L’Italia è uno dei pochi Paesi d’Europa dove gli euroscettici hanno sempre contato poco o niente; la stessa Lega Nord che qualche volta borbottava contro l’euro non ha mai alzato la voce su questo tema. Anche a sinistra l’europeismo, con qualche o nessun distinguo, l’ha sempre fatta da padrone. Il primo governo Prodi ci ha portato nell’euro attuando un massacro sociale, con l’assenso nei fatti dei sindacati e di tutta la sinistra parlamentare. Ciò ha creato – e giustamente – forti lacerazioni. Ricordo un muro (o era uno striscione?) con la scritta «Per l’Europa sociale», ambiguo slogan utilizzato per dire sì all’Unione Europea idealmente ma no all’Unione Europea immanente; qualcuno aveva sbarrato l’ultima lettera e aveva corretto «sociale» in «socialista», trasformandolo nella parola d’ordine contrapposta dai più “duri”, che dicevano che l’Unione Europea era dei padroni e quindi irriformabile. La cosa buffa è che chi aveva corretto lo slogan non aveva corretto la firma: faceva evidentemente parte di un’ala diversa della stessa organizzazione.

Un dibattito tardivo è un dibattito cattivo. Lasciamo pure perdere riformisti, socialdemocratici impenitenti, burocrati sindacali e politicanti del centrosinistra: per costoro, sventolare la bandiera blu con le dodici stelle è una conseguenza logica del loro collocamento tutto interno alla logica del capitalismo europeo. Quelli che ci interessano sono invece i nodi irrisolti nel dibattito sull’Europa e sull’euro all’interno della sinistra di classe e di movimento. Siamo arrivati al 2012 senza esserci mai chiariti le idee su questo tema, fatte salve alcune analisi più acute e profetiche che non sono purtroppo diventate patrimonio comune di un’area abbastanza ampia. Oggi ci svegliamo con Beppe Grillo che capitalizza facili consensi sulla proposta raffazzonata di ritorno alla lira e improvvisamente siamo reclutati frettolosamente in una delle due tifoserie contrapposte: quelli che tengono per l’euro contro quelli che tifano lira. Riproduciamo in una forma più provinciale e banalizzata una discussione che spacca la sinistra greca.

Cosa c’è che non va in questo frame? C’è che la causa della crisi e dell’austerity non è l’euro. Abbiamo visto che la crisi è iniziata negli Stati Uniti, dove tutti gli indizi fanno ritenere che la moneta a corso legale sia il dollaro. Abbiamo visto che la crisi ha colpito la Gran Bretagna, un arcipelago europeo in cui si usano banconote con la faccia della regina Elisabetta II. Tutti i Paesi dell’Unione Europea sono stati in recessione almeno un anno dall’inizio della crisi, con una sola eccezione (la Polonia), a prescindere dal fatto di avere o non avere l’euro. Anche i Paesi europei fuori dall’Unione sono stati colpiti, la Serbia è tuttora in caduta libera e addirittura la solidissima Svizzera, dopo aver avuto seri problemi nel 2009 (PIL -1,9%) ed essersi ripresa, è a rischio di una seconda recessione nel 2012.

Gli economisti “eterodossi” che propugnano come soluzione l’uscita dall’euro, la svalutazione competitiva della dracma o della lira e un sano intervento statale per rilanciare i consumi, magari finanziando il deficit pubblico con il gentile aiuto della banca centrale nazionale, in primo luogo non sono poi così eterodossi (sono idee vecchissime su come salvare il capitalismo da sé stesso), in secondo luogo la fanno troppo semplice. Sembrano credere che la crisi sia il frutto di una follia collettiva chiamata monetarismo o liberismo, e in particolare della cocciutaggine della BCE e di Angela Merkel.

Assecondare queste idee può sembrare molto rivoluzionario ma in realtà significa ritenere che il capitalismo sia un sistema ancora funzionale, che si è semplicemente un attimo inceppato in una manciata di Paesi del nostro continente per colpa della moneta comune. Se diciamo questo stiamo credendo che Hitler si sia davvero preso tanto a cuore la radiostazione di Gleiwitz.

Sia chiaro, il discorso vale a maggior ragione per gli innamorati dell’euro. Un aspetto positivo di questa ventata di euroscetticismo è che si spera metta il mordacchio alle tante scemenze da bar che ci siamo sorbiti negli ultimi anni: «Senza euro saremmo in Africa»… come la Svezia? «Senza euro la crisi ci avrebbe distrutto»… e invece cosa è successo?

Al tempo stesso è utopistico credere che gli effetti catastrofici della rottura dell’euro siano fandonie profetizzate soltanto per fare terrorismo psicologico contro i greci. Chi sostiene la dracma o la lira spiega che in fondo una svalutazione anche notevole può non riflettersi in un’inflazione galoppante, perché non tutto viene importato e quindi anche se importare diventasse più costoso del 50% non tutto questo aumento dei costi si ripercuoterebbe sui prezzi, ma magari solo un 5-10%. Per esempio, se un greco comprasse un pesce pescato nel mar Egeo da una nave greca e processato da una ditta greca, il prezzo del pesce in dracme non schizzerebbe in alto, salvo un pochino in più per l’aumentato costo del carburante usato dalla nave e dalla fabbrica.

Questo discorso dimentica completamente il contesto internazionale. Se l’euro si spacca, con la Grecia che se ne va sbattendo la porta (ovvero ripudiando una parte del suo debito verso le banche francesi, tedesche, italiane ecc.), qualcuno crede che i capitalisti tedeschi e francesi osserveranno compiaciuti l’export della Grecia crescere grazie ad una dracma svalutata? L’Economist non la manda a dire:

«I pochi rimasti nell’euro […] avrebbero uno svantaggio competitivo […] Oltre a imporre controlli sui capitali, i Paesi attuerebbero una ritirata verso l’autarchia, innalzando barriere doganali per rappresaglia. La sopravvivenza del mercato unico europeo e della stessa UE sarebbe minacciata».

Non si può discutere di economia monetaria come se fossimo di fronte a un esperimento da laboratorio sulla manipolazione dei tassi di cambio invece che nel bel mezzo di una crisi epocale – anche perché le cavie potrebbero avere qualcosa da ridire.

Inoltre, siamo sicuri che la questione del tasso di cambio tra monete, e quindi della moneta unica o della moneta nazionale, riguardi soprattutto l’export e l’import di beni e servizi, ovvero la bilancia commerciale? Gli stessi che tuonano ogni istante contro la finanziarizzazione dell’economia, quando si parla di politica monetaria sembrano improvvisamente dimenticarsene. Il motivo principale per cui al mondo si convertono euro in dollari o yuan in franchi svizzeri non è per comprare beni di consumo: è per speculare (cioè per rivenderli quando il prezzo sarà risalito) o per acquistare capitale. I flussi di capitale e in particolare di capitale azionario sono più importanti della bilancia commerciale nel determinare quali monete sono forti e quali deboli.

Gli aspetti veramente drammatici di un’uscita dall’euro in un contesto capitalistico sarebbero dovuti ai flussi di capitale, speculativi e non. Nel 2010 16 miliardi di dollari di capitale azionario di imprese greche era in mano straniera, uno stock equivalente al 5% del PIL annuo; d’altronde gli stessi capitalisti greci non si faranno certo scrupoli patriottici nell’investire all’estero se l’andamento dei cambi lo renderà più vantaggioso. La fuga dei capitali, specialmente se accelerata da meccanismi di panico degli investitori o addirittura di sabotaggio cosciente da parte dei grandi gruppi finanziari, è la vera questione che dovrebbe affrontare un governo che decidesse il ritorno alla dracma. Questo dovrebbe preoccupare a maggior ragione i nostalgici della lira qui da noi, dove lo stock di investimenti esteri si aggira attorno al 12% del PIL.

Con questo sto dicendo che per evitare di mettere in fuga i capitalisti bisogna stare a tutti i costi nell’euro? Assolutamente no. Sto dicendo che non esiste una via d’uscita che non si ponga il problema di chi controlla i flussi di capitale, cioè di chi possiede i mezzi di produzione. Per questo motivo non esistono né in Italia né in Grecia dei settori importanti della classe imprenditoriale che tifino per la lira o per la dracma: perché sanno che per loro non esiste una via sensata di sviluppo capitalistico alternativo all’austerity e all’adeguamento alle politiche della BCE. Del resto, se anche una tale via fosse praticabile a modo loro, lo sarebbe solo a costo di attacchi ai lavoratori, ai pensionati, ai disoccupati altrettanto duri di quelli che implica il rispetto dei vincoli dell’euro: dal punto di vista dei lavoratori, la lotta all’austerity dell’euro si trasformerebbe in lotta per la difesa dei salari reali dall’inflazione e lotta per la difesa dei posti di lavoro dalla fuga di capitali. È un nuovo ring per lo stesso match.

Paradossalmente, gli unici a credere ad un capitalismo dal volto umano in Europa sono quegli spezzoni della sinistra radicale ex/post/neo-comunista che non hanno il coraggio di parlare apertamente di rivoluzione sociale; attorno alle loro ambiguità vegeta un sottobosco di economisti neokeynesiani, di strateghi del default amichevole, di complottisti o semicomplottisti che possiamo etichettare come signoraggisti, fautori delle “monete di popolo”, rossobruni o guru “iperkeynesiani” della Modern Money Theory.

L’Europa è oggi al bivio tra declino e rivoluzione. Mutatis mutandis, i processi su scala continentale in corso dalla fine del XX secolo in America Latina ci suggeriscono il tipo di quadro con cui dovremo confrontarci. Si noti, a questo proposito, che l’uscita (realizzata o rivendicata) di alcuni Paesi latinoamericani dalla dollarizzazione è stata talvolta parte di processi rivoluzionari, talvolta semplicemente una misura d’emergenza che si è imposta in un quadro di conservazione del sistema esistente, facendone pagare i costi sociali alle masse. Viceversa, il governo bolivariano del Venezuela, che non può certo essere accusato di essere amico degli yanqui, tenta di mantenere un tasso di cambio fisso col dollaro; l’aggancio al dollaro è stato deciso da Chávez proprio in risposta ai tentativi controrivoluzionari del 2003 ed è stato duramente criticato e sabotato dalla Confindustria venezuelana. Anche nel periodo della Guerra Fredda, il rublo sovietico e altre monete del blocco orientale erano spesso poste in parità con valute dei Paesi imperialisti occidentali, di solito la sterlina. Cito apposta Paesi di questo genere perché sovente sono mitizzati da certi ambienti del movimento e della sinistra: speriamo che questo faccia sorgere in loro il dubbio che il nesso tra anticapitalismo e libera fluttuazione dei cambi sul mercato non si ponga nei termini in cui lo rappresentano. Sarebbe peraltro curioso che, sventolando bandiere rosse nelle piazze, ci appellassimo alla mano invisibile del mercato arrivati alla soglia delle agenzie di cambio.

Sto dicendo, insomma, di ribaltare i termini della questione. Non si tratta di cercare scampo all’austerity nel ritorno a monete nazionali svalutate; si tratta di rifiutare l’austerity, lo strangolamento per debiti, la distruzione della società causata dalla crisi economica, portando questo rifiuto fino alle sue estreme conseguenze. Tra queste conseguenze, certo, c’è con ogni probabilità la rottura non solo dell’euro ma anche di tutti gli altri trattati europei, atlantici e del Fondo Monetario Internazionale. Infatti rompere la garrota del debito che costringe all’austerity significa attuare un default non negoziato, rifiutando ai grandi creditori nazionali e stranieri il pagamento di interessi usurai e parassitari. Lo stress che questo imporrebbe alle banche nazionali ne imporrebbe l’immediata nazionalizzazione; d’altronde questo tabù l’hanno rotto i padroni per primi e non si capisce perché la nazionalizzazione truffaldina di Northern Rock vada bene mentre nazionalizzare il sistema bancario nell’interesse della massa della popolazione debba essere considerato sacrilego. Nazionalizzare il sistema creditizio apre immediatamente la strada al controllo delle leve fondamentali dell’economia di un Paese, perché al giorno d’oggi i grandi gruppi industriali e commerciali, come la grande proprietà fondiaria e immobiliare, sono tutti in una posizione subordinata rispetto alle banche. Del resto, la fuga di capitali e le delocalizzazioni andrebbero contrastate con misure drastiche di controllo, che entrerebbero in sinergia con lotte dal basso, per esempio le occupazioni di fabbriche e di uffici che si stanno moltiplicando anche in Europa via via che la crisi minaccia con la chiusura dei luoghi di lavoro la vita di milioni di famiglie operaie e impiegatizie.

Avanzare un programma di questo genere significa rompere con l’euro, nei Paesi dove c’è l’euro, ma anche rompere con qualsiasi altro assetto di potere nei Paesi dove non c’è. La questione valutaria diventa una mera variante tattica di un’uscita rivoluzionaria dalla crisi che si pone in termini simili in tutti i Paesi; anzi, rifiutarsi di porre un programma simile come se il suo perno fosse l’uscita dall’euro significa porlo già in chiave internazionale, ovvero evitare di sostenere che la soluzione della questione greca o italiana vada trovata entro i confini della Grecia o dell’Italia. Non stiamo dicendo alle masse dell’Europa in crisi che ce ne andiamo e lasciamo a loro la patata bollente, stiamo proponendo una soluzione che può e deve essere emulata. Non credo alla rivoluzione sovranazionale simultanea, ma credo all’effetto domino. Non sarebbe la prima volta. Non avrebbe infatti molto fiato una Grecia rivoluzionaria nel bel mezzo di un’Europa ostile e incarognita se non fosse l’innesco di un processo di trasformazione sociale su scala perlomeno continentale.

Sono allucinazioni? La crisi ha solo sbocchi di destra? Chi pensa così legga il programma di Syriza, la coalizione di sinistra che forse vincerà le elezioni greche tra qualche giorno. I fatti contano più delle parole e le azioni di governo contano più della carta straccia dei programmi elettorali, ma è chiaro che il fatto che in Europa si possano vincere elezioni con un programma del genere è come minimo indicativo di una consapevolezza di massa in Grecia sulla necessità di misure radicali e anticapitaliste come unica alternativa all’austerity e al declino per debito. Guardiamo all’aspetto dinamico del processo, non all’istantanea del punto a cui siamo arrivati finora. Una rivoluzione non è l’assalto di un gruppo compatto di rivoluzionari ai palazzi dei padroni, una rivoluzione stravolge e trasforma anche gli stessi gruppi che intendono guidarla o che si trovano loro malgrado a farlo: i punti più acerbi e utopici (mi riferisco in particolare al 2, che propone in sostanza una riforma della BCE) saranno i bastioni delle tendenze più moderate all’interno di Syriza, i punti più audaci (quelli che parlano di nazionalizzazioni, di diritti dei lavoratori, di uscita dalla NATO e dalle missioni di guerra) saranno agitati dalla base radicalizzata e dagli hardliner.

Il Partito Comunista Greco (KKE) nel trattare Syriza alla stregua di un François Hollande qualsiasi sta probabilmente sbagliando la bracciata e rischia di essere punito severamente dalle masse nelle urne e nella società. Ponendo la dracma come criterio discriminante e di fatto come pretesto per non formare un fronte unitario traccia una linea divisoria che non rappresenta correttamente i due lati della vera barricata.

Ad ogni modo, comunque la si pensi rispetto al dibattito nella sinistra greca, questi temi sono destinati ad uscire dalle nostre assemblee ristrette e dai siti web “d’area” per diventare argomenti di confronto politico quotidiano anche nel nostro Paese. A dispetto di tutti i ritardi politici e culturali che l’Italia si porta dietro, i fatti avranno la testa più dura della zucca di legno di tanti dirigenti politici e sindacali; il tipo di temi su cui litigheremo o ci scopriremo compagni sono questi e non altri; i frame tossici sono destinati ad essere smontati uno dopo l’altro. Una rivoluzione consiste prima di tutto in milioni di persone comuni che iniziano a discutere di politica volando alto rispetto alle miserie del gossip parlamentare. Il primo passo di una rivoluzione è quando si cerca una spiegazione collettiva alle sfighe individuali.

Le sfighe che ci stanno colpendo sono parecchie, ma hanno una causa e una soluzione comune. Prepariamoci a parlare un bel po’.

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