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A che punto è la notte

Francesco Ciafaloni intervista Luciano Gallino

Luciano Gallino, maestro di rigore in un’Italia che vive di menzogne e approssimazioni, ha pubblicato di recente da Laterza una lunga intervista sul nostro grigio presente (a cura di Paolo Borgna, La lotta di classe dopo la lotta di classe), recensito nello scorso numero da Costantino Cossu. Abbiamo chiesto al nostro collaboratore Francesco Ciafaloni di stimolare Gallino a parlarne ancora, nella convinzione che è di studiosi saggi come lui che noi tutti – oggi – abbiamo grandissimo bisogno.

La domanda è: com’è che ci siamo ridotti in queste condizioni? Le macrocause e qualche macrorimedio.

Stiamo attraversando, dal 2007 in poi, una crisi che è al tempo stesso una crisi finanziaria e una crisi dell’economia reale, che dal 2010 in poi è stata trasformata, se non deliberatamente camuffata, in crisi del debito pubblico. Alle origini della crisi, che sono abbastanza lontane nel tempo, vi sono non già l’eccessiva generosità dei bilanci pubblici, lo Stato sociale, ma due cause principali, delle quali l’una è oggetto di discussione ma non di azione, ed è la crisi del sistema finanziario, la sregolatezza della finanza; l’altra, di cui non si parla per niente, è il forte peggioramento della distribuzione del reddito a danno dei salariati in generale e di buona parte del ceto medio, da prima del 1980.

La crisi finanziaria ha anch’essa molte componenti, economiche in senso stretto, e politiche, che si intrecciano. La politica, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, con una forte partecipazione di politici e intellettuali europei, ha smantellato le regole che, dal 1933, imponevano alle banche commerciali di non giocare al casinò coi soldi dei clienti o con quelli propri. Sono state demolite le leggi che regolavano i derivati, col risultato che i derivati sono diventati più di 700 trilioni di dollari in giro per il mondo, senza alcun controllo per il 90% perché scambiati “al banco” come si dice tra privati. Sono state abolite le regole per la circolazione dei capitali e non si è affatto dato peso allo sviluppo della cosiddetta “finanza ombra”.

Fondi di investimento e fondi pensione si mettono a fare le banche; prestano denaro con interessi più o meno elevati. Le banche hanno dovuto rincorrerli fin dagli anni ottanta-novanta. In assenza di regole, o con le nuove regole, si è ecceduto nella trasformazione in titoli dei crediti che le banche avevano concesso, con il risultato che la banca concede un mutuo, un prestito per comprare un’auto, un prestito a uno studente, lo trasforma in un titolo commerciale, lo cede a una società di scopo che essa stessa ha costituito e toglie il credito dal bilancio. Così la percentuale di riserve, che deve essere in Europa e negli Stati Uniti tra l’8 e il 10%, risale, e la banca può concedere un secondo prestito come se il primo non esistesse. E così un terzo, un decimo, un millesimo. Si è così creata una gigantesca finanza ombra, invisibile, che è quella che pesa tuttora sui bilanci delle banche. Oggi come oggi gli enti maggiormente indebitati, in America, ma anche in Europa, sono le banche. In quasi tutti i paesi il debito privato delle banche supera largamente il debito pubblico. Il massimo è toccato dalla Gran Bretagna, in cui il debito privato delle banche ammonta al 600% del pil, mentre quello pubblico è del 60%. La finanza ombra è stata ignorata in Europa più o meno fino a un anno fa, quando il Financial Stability Board ha prodotto i primi documenti. La politica, dopo aver aperto tutti i possibili varchi alla sregolatezza della finanza, ha provveduto a salvare le banche. Quando uno sta per annegare non bada alla qualità del salvagente. Non bisogna dimenticare che le prime banche che falliscono sono europee: la Northern Rock nel Regno Unito e una banca tedesca, costate al contribuente più di 140 miliardi di euro. In totale i versamenti diretti per salvare le banche – quelle irlandesi, quelle spagnole, quelle inglesi – e le garanzie versate a vario titolo, che sono soldi che non puoi usare ad altri fini, ammontavano a più di 4mila miliardi di euro. è allora che si sono scavati enormi buchi nei bilanci pubblici.

Altra causa della crisi è la distribuzione del reddito che da più di trent’anni è fortemente sfavorevole alle classi lavoratrici e alle classi medie. Negli Stati Uniti i salari reali al di sotto della qualifica di foreman sono fermi o leggermente regrediti dal 1973. Ma anche l’Europa ha visto crescere a dismisura le disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Uno dei paesi più diseguali che esista in Europa, soprattutto se si guarda alla ricchezza, è la Germania. La Germania ha un coefficiente di Gini prossimo a 0,8-0,799. Se si tiene conto che il coefficiente 1 vuol dire che uno solo prende tutto, si capisce che si tratta di una disuguaglianza elevatissima. Ci sono due schemi esplicativi delle connessioni tra la disuguaglianza e la crisi usati da studiosi ed enti certamente non di sinistra.

La prima spiegazione, di ordine finanziario e tecnologico, è che i ricchi si sono arricchiti perché avevano superiori capacità professionali, più ampio accesso alla finanza, maggiori competenze tecnologiche e informatiche. Perciò hanno raggiunto un alto reddito addizionale e, alla fine, una notevole ricchezza. Quelli che avevano minori capacità professionali erano meno competitivi, hanno avuto salari stagnanti. È nata così una doppia convenienza. Quelli che avevano accumulato ricchezza avevano bisogno di investire in modo sicuro, di dare denaro in prestito. Le classi medie, le classi lavoratici, avevano bisogno di prestiti per comprarsi la macchina, la casa, per pagarsi le spese mediche. Si sono così combinati i due interessi. Con le invenzioni della finanza che abbiamo visto, trilioni di dollari sono stati prestati dal 10% più ricco al 40-50% meno abbiente.

C’è un altro schema esplicativo, molto più politico. L’attacco ai sindacati, la globalizzazione vista nei suoi effetti sulle politiche del lavoro, per cui migliaia di aziende sono andate a cercare il lavoro dove i salari erano minimi, minime le tutele ambientali, minimi i diritti, hanno realizzato una gigantesca trasformazione ai danni delle classi lavoratrici. Questo ha voluto dire, per intanto, ristagno della domanda. Come ha detto di recente un economista americano, ci sono dei limiti alle bottiglie di Dom Perignon che i ricchi possono consumare, o alle giacche di Armani che possono indossare. E anche un attacco allo stato sociale, visto falsamente come causa dell’approfondirsi del debito pubblico.


Che fare?


Il trasferimento del reddito dal basso verso l’alto ha provocato la stagnazione dei salari, negli Stati Uniti e in Europa, inclusa la Germania, che con la moderazione salariale non ha scherzato, e l’Italia, dove i salari reali sono fermi più o meno dal 1995, e una crescente disoccupazione. Un rapporto di un anno e mezzo fa dell’Ilo – governato congiuntamente dai sindacati, dagli imprenditori e dai governi, e perciò sempre prudente – a onta del linguaggio forbito, pubblica cifre agghiaccianti. Il rapporto dice che occorrerebbe creare 600 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni per recuperare il terreno perduto a causa della crisi. E bisognerebbe crearne altri 400 milioni, 40 milioni l’anno, per compensare l’incremento demografico, perché la popolazione del mondo continua ad aumentare. Anche negli Stati Uniti aumenta dell’1-1,5% l’anno, con l’immigrazione. Cioè, secondo questo rapporto bisognerebbe creare un miliardo e duecento milioni di posti di lavoro, al ritmo di 100-120 milioni l’anno. Obiettivo improponibile. Non solo il lavoro si creerebbe soprattutto in Cina – benissimo, se fosse pagato un po’ meglio e rispettato un po’ di più – ma l’innovazione tecnologica, la microinformatica, che consente di contenere migliaia di funzioni in un oggetto delle dimensioni di un grano di riso, può automatizzare praticamente tutto. C’è un’eccedenza di capacità produttiva che non potrà mai essere saturata da un incremento della domanda.

Per uscirne bisogna pensare a cose più dirette, come la creazione di posti di lavoro destinati a piccole opere, la cui necessità è avvertita in tutta Europa, in particolare in Italia. Si continuano a leggere articoli di giornale sugli acquedotti che perdono il 40% dell’acqua, sui morti a ogni pioggia, sulle scuole che rischiano di cadere sulla testa dei ragazzi, come in qualche caso – ahimè – è accaduto. è una sfilza che non finisce più.

Questo rimanda a una sorta di programma pubblico. Ne parlano studi storici americani, canadesi, ma anche francesi. Lo Stato deve assumere direttamente le persone per destinarle a opere pubbliche di rilevante utilità collettiva, da fare subito perché non richiedono molti capitali per essere avviate.

Il caso storico più noto è, naturalmente, quello del New Deal, quando enti creati dal presidente Roosevelt in pochi mesi crearono milioni di posti di lavoro e li mantennero attivi dal 1933 al 1937-38. Ma si può citare anche William Beveridge, che presentò a Churchill, nel 1942 – figuriamoci! – il suo piano per lo Stato sociale, poi realizzato dopo la vittoria laburista nel 1945. Datano da allora concetti come “datore di lavoro di ultima istanza”, “occupazione garantita”, o anche “stock di occupazione tampone”. Lo Stato assume tutti coloro che sono in grado di lavorare per un salario compreso tra un minimo salariale e la media nazionale.

L’obiezione che si può fare è che un progetto di questo genere, non realizzato pienamente neppure negli Stati Uniti – caso mai, talora, in Argentina o in Brasile – è realizzabile se esiste una Banca centrale libera di creare denaro nella quantità necessaria. Ma si può ripiegare su progetti meno ambiziosi. Nel caso italiano, assumere tutti quelli che vogliono e possono lavorare vorrebbe dire assumere 7-8 milioni di persone. Si tratta di formulare programmi mirati a fasce particolarmente interessanti.

Come ricordava un economista degli anni ottanta, e come è del tutto ovvio, è già un danno la disoccupazione media del 9-10%; ma per certi gruppi – i giovani, gli anziani, le donne – la percentuale può arrivare al 30-40%. Anche se è difficile, bisognerebbe scegliere tra le fasce per assumere non 7-8 milioni di persone ma 1-2 milioni, con dispositivi simili a quelli del New Deal. Ciò significa agenzie centrali, statali; ma anche un ampia distribuzione sul territorio – regioni, comuni, volontariato, piccole e medie imprese.

Se ne sta parlando abbastanza. Può darsi che l’aggravarsi della crisi convinca della necessità di far intervenire direttamente la mano pubblica; anche se abbiamo a che fare con governi che sono completamente imbevuti di ideologia neoliberale – o neoliberista.

Nei centri di potere sono attivi ancora oggi economisti che ritengono che il nemico principale sia l’inflazione; e guai se la disoccupazione scende sotto il 5-6%, perché allora l’inflazione salirebbe. Cosa che non regge da nessuna parte; ma viene sostenuta lo stesso da amministratori potenti e consulenti autorevoli. Questi progetti hanno quasi tutti contro; ma hanno dalla loro la ragionevolezza. La Ue, purtroppo, non ha una Banca centrale; ma potrebbe fare di più anche con i mezzi a sua disposizione.

Resta il fatto che una riforma dell’articolo 123 del Trattato di Maastricht prima o poi bisogna farla. Non è accettabile che la Svizzera abbia una Banca centrale in grado di emettere moneta e la più grande economia del mondo non ce l’abbia.


Qualche altra domanda. Tutti i tuoi scritti recenti vanno nel senso di riprendere, anche emblematicamente nei titoli, filoni di pensiero di sinistra liberale, socialdemocratici, che tendono a incidere sull’esistente, senza rimandare a una remota palingenesi. Questa caratteristica, che a me sembra molto positiva, condivisibile, richiede proposte molto strutturate. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori si è fatto perché nella Fondazione Brodolini qualcuno ci aveva pensato prima. Quando è arrivato il conflitto ed è cresciuta la pressione sociale, è bastato aprire la porta. In questo momento manca il dettaglio delle cose da fare, da proporre all’interno dello schema che tu hai tracciato: attività ad alta intensità di lavoro, locali, che rispondano a esigenze inderogabili. Le proposte, se ci sono criteri condivisi, possono arrivare anche da settori motivati e competenti più ampi di quanto non avvenga ora. Ti faccio un esempio. Se si cerca in rete la statistica Ocse delle ora lavorate per lavoratore in vari paesi (
Ocse, hours worked per worker) si vede comparire una tabella che sembra inventata perché mostra una correlazione inversa quasi perfetta con il tasso di occupazione. L’unica eccezione è la Svizzera. Si parte dalla Norvegia e dall’Olanda in cui le ora lavorate – di fatto, in media, non le ore contrattuali, o le ore lavorate negli anni centrali della vita – sono intorno a 1400 e il tasso di occupazione tra i 15 e i 65 anni è intorno al 74% e si arriva all’Ungheria, alla Grecia, all’Italia, con ore lavorate poco sotto le 2000 e tassi di occupazione poco sopra il 50%. Ciò che in alcuni paesi è stato regolato con forme di ingresso e formazione al lavoro o con uscite graduali dal lavoro, in Italia è stato affidato al terzo settore, al volontariato, settori che mi capita di aver conosciuto per esperienza personale, compiuti i 60 anni, negli ultimi quindici anni. C’è il sistema duale tedesco, ci sono i part-time in ingresso e in uscita, i cambi di settore per gli anziani, che, se facevano il metalmeccanico, il muratore, lo scaricatore ai mercati generali, non possono farlo per tutta la vita. Noi abbiamo risolto tutto col lavoro nero e col volontariato, per chi desidera fare volontariato. Bisognerebbe regolare queste uscite. L’allungamento di cinque anni della vita di lavoro delle donne, che a me sembra, in generale positiva, o accettabile, perché spinge a una uguaglianza di genere, se regolata e attutita, sta avvenendo adesso; non è ancora tradizione. Non si sono create nicchie, interessi, resistenze, come per il lavoro nero in Campania. Ci sono persone che vedono peggiorare la propria condizione e che volentieri guarderebbero a una soluzione per loro più positiva di quella che loro si prospetta. Ci sono persone che a 60 anni sono passate da un impiego comunale all’educazione volontaria dei bambini, con pensione intera. Cosa puoi aggiungere a ciò che hai detto, almeno come criteri, sui modi e sull’età di pensionamento? Cosa facciamo per la protezione delle campagne e delle coste? S’intende all’interno di un quadro europeo, come hai detto, perché se l’Europa non si dà un governo e una Banca centrale semplicemente non sopravvive; e i pezzi in cui si frammenterebbe non sono in grado di reggere né finanziariamente né per le cose che è materialmente in grado di produrre.

Per occupare più persone ci possono essere altri strumenti, oltre allo Stato e alle agenzie che può creare. In Germania ha funzionato abbastanza bene durante la crisi la ridistribuzione degli orari di lavoro, in base a una vecchia legge del 1999, se non di ancora prima, che si applica all’interno delle stesse aziende. Agli interessati si propone la scelta se lavorare 28 o 36 ore invece di 40. Si potrebbe ripescare il vecchio “lavorare meno, lavorare tutti”. Se il modello industriale rimane quello che è, quelli che lavorano meno dovrebbero avere una maggiore retribuzione per mantenere il tenore di vita. Altrimenti, oltre tutto, cadono i consumi, e qualche altra azienda va per aria perché non ci sono più le commesse. è sparita dalla discussione, mentre se ne parlava molto negli anni settanta e ottanta, l’economia informale. Alcuni studiosi, soprattutto austriaci, stimano che l’economia sommersa, “economia ombra”, come dicono lì, in Italia valga intorno al 22% del Pil; 320-340 miliardi l’anno. L’economia sommersa c’è anche in Germania o in Francia, ma si stima che valga più o meno la metà e sia perciò più controllabile. Con le nostre percentuali di economia sommersa spariscono le leve stesse per regolare la produzione. Faccio un caso specifico. Negli anni duemila ci sono stati enormi passaggi dall’economia sommersa all’economia regolare; e viceversa. Si è scritto che con la legge 30 abbiamo creato un milione di posti di lavoro. In realtà – non tutti ma per i due terzi circa – erano immigrati irregolari che hanno continuato a fare esattamente quello che facevano prima ma, essendo andati a iscriversi all’anagrafe, sono diventati ufficialmente lavoratori. Ma restano forse due milioni in nero totale e tre milioni che fanno un terzo di mensilità in nero, cioè un milione di unità a tempo pieno. Se non si passa di lì è difficilissimo regolare il mercato del lavoro, perché cambiano di continue le convenienze a stare da una parte o dall’altra, a seconda dei rischi e delle tasse. Questo spiega anche perché abbiamo una quota censita così bassa di attivi. E spiega anche perché non abbiamo ancora l’assalto ai forni. Ci sono 300 miliardi che girano, in grandissima parte, al di fuori di ogni controllo. Un intervento da parte dello Stato dovrebbe anche puntare a ridurre il tasso di economia sommersa.

Un altra cosa può essere il passaggio scaglionato dal lavoro a tempo pieno alla pensione totale. Ci potrebbe essere un’uscita a metà tempo, a un terzo del tempo, con sostegno al reddito. Non credo che questo sia in contrasto con l’esistenza di un’agenzia che ti chieda se vuoi lavorare a tempo pieno, a metà tempo, a un terzo del tempo. Magari puoi guadagnare 400 o 500 euro, ma con tutte le protezioni del lavoratore a tempo pieno, dal punto di vista sanitario o della perdita del lavoro, per esempio.

Sulla questione dei prestiti della Banca centrale, i cittadini dovrebbero farsi sentire, se venissero bene informati, a proposito di fatti enormi che stanno accadendo. Una percentuale di deputati superiore ai due terzi ha modificato l’articolo 81 della Costituzione con il vincolo del pareggio di bilancio. Questo vincolo, a rigore, non faceva neppure parte del patto fiscale. Il testo dice che il pareggio di bilancio andrebbe recepito dalla legislazione dei vari Stati “preferibilmente per via costituzionale”. Il testo lo dice chiaramente in francese, in tedesco, in lituano, per chi lo sa, ma il gregge dei deputati è corso lo stesso a modificare la Costituzione. Allo stesso modo, l’articolo 4 del patto di stabilità prescrive chiaramente l’impegno previsto dal Trattato di Maastricht a rientrare entro il limite del 60% del Pil del debito pubblico, riducendo il proprio debito di un ventesimo l’anno. Dato che il debito italiano è al 120%, scendere sotto il 60% vuol dire scendere di 3 punti l’anno, cioè 45 miliardi l’anno. Come si possa nascondere una cosa del genere ai cittadini è veramente inaudito. Ma così è andata.

Un altro argomento. Tra il 2011 e il febbraio 2012 la Banca centrale ha prestato alle banche europee oltre un trilione di euro, 1000-1040 miliardi. Le banche in parte hanno pagato i debiti che avevano nei confronti della Banca centrale, in parte li hanno usati per capitalizzarsi, con qualche piccolo prestito alle piccole e medie imprese, ma per oltre un terzo hanno comperato titoli di Stato, che rendono dal 3% di certi titoli francesi o tedeschi fino al 7-8% nel caso di titoli italiani, spagnoli eccetera... Loro alla Banca centrale pagano l’1%. Dovrebbe essere possibile, i cittadini dovrebbero chiedere, che prestiti del genere siano accessibili anche agli Stati. Se lo Stato italiano avesse un prestito anche solo di 40-50 miliardi all’1%, o magari allo 0,25%, vicino a 0, come fa il Giappone, le cose andrebbero meglio. L’interesse dovrebbe essere in ogni caso minore del tasso di sviluppo. Invece siamo al 5% pagato alle banche, che l’hanno preso all’1%.


Se le cose restano come sono, l’ingestibilità del debito pubblico è reale. Diventerebbe meno reale, se diminuisse quella enorme quantità di falsi in bilancio, di intere partite di merci nascoste, che è implicita nel lavoro nero. C’è poi il problema della formazione, da tempo soprattutto fittizia. Fare cose finte rende sempre più difficile fare quelle vere. Sui giornali finisce la crisi dello Csea, che è triste e pluridecennale, ma di fatto le aziende si tutelano dalla mancanza di formazione assumendo persone sovraqualificate – periti per fare gli operai. In qualche caso i mestieri non si sono riprodotti. All’estero qualche volta le aziende che producono impianti assumono persone qualificate locali. Ci sono qualificazioni prodotte, anche con lunghi periodi all’estero, per scelta e impegno personale. Ma la mancata riproduzione dei mestieri non va presa sottogamba.


Gli addetti dell’industria tedesca hanno due o tre anni di formazione più degli italiani. C’è senz’altro un grosso problema di formazione professionale che riguarda i famosi tre anni dopo i 15, che adesso sono diventati 14. E allora si pensa che bisognerebbe rafforzare gli Istituti di formazione professionale, che sono messi male. Poi però si guardino i dati delle professioni richieste nelle vaste surveys che fa l’Unioncamera e si scopre che tra le professioni più richieste ci sono i cuochi, gli addetti al magazzinaggio, eccetera... Gli informatici vengono al quinto posto. Poi ci sono gli operai generici, eccetera... Per trovare lavori specializzati moderni si arriva al decimo, al ventesimo posto. Cioè magari diecimila persone l’anno, rispetto alle centomila donne delle pulizie. Questo vuol dire che le aziende sono tecnicamente povere al loro interno. E lo sono anche perché ricorrono al lavoro flessibile, ai precari. Nel 2005 i contratti di breve durata hanno superato il 75% degli avviamenti al lavoro. Questo vuol dire che né l’azienda ha interesse a formare né il lavoratore a formarsi. Se uno sa che tra 4-5 mesi il contratto gli scade, perché dovrebbe formarsi? La flessibilità del lavoro – il milione di precari – ha avuto tra le conseguenze la mancata riproduzione dei saperi tecnici. Se uno è stabile probabilmente vale la pena di fargli fare qualche giornata al mese di formazione, di avere l’anziano che forma il giovane, cosa del tutto impensabile con la polverizzazione dei contratti. Questo rimanda al fatto che molte aziende italiane producono merci a basso valore aggiunto. Tra il basso valore aggiunto per unità di prodotto e la piaga del lavoro precario che rende indifferente il problema della formazione tanto all’imprenditore quanto al lavoratore.


Persino nel pubblico impiego si sono moltiplicate le persone assunte in febbraio a far data da gennaio, e per un anno.


Un ostacolo all’idea stessa di creare direttamente occupazione per avvicinarsi al pieno impiego sono gli economisti che, nonostante innumerevoli smentite da parte della realtà, credono che sia valido il famoso niur, not inflationary unemployment rate, il tasso di disoccupazione che non accresce l’inflazione, un tasso ritenuto vicino al 5-6%, cioè alcuni milioni di disoccupati in più che si potrebbero utilizzare. Dimenticando che disoccupazione vuol dire famiglie spezzate, malattie, figli che vanno a fare il manovale, se possono, invece di formarsi, e criminalità, frustrazione collettiva.

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