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Un capitalismo in cerca di vie d'uscita

di Biagio Borretti

Il vicolo cieco e la crisi sistemica del capitale. Si è tenuta a Napoli, tra il 29 ed il 30 giugno scorsi, una due giorni di studi ed approfondimenti sullo stato attuale della crisi del capitalismo organizzato dalla Rete dei Comunisti.

Il convegno, svoltosi tra venerdi pomeriggio e sabato mattina , è stato suddiviso in tre sessioni di discussione: “Guerra delle monete e trappola della liquidità” (con relazioni di Luciano Vasapollo, Leonidas Vakiatokis, Franco Russo e Guglielmo Carchedi); “La divaricazione e la competizione tra Usa e Unione Europea” (relazioni di Sergio Cararo, Giorgio Gattei, e Francesco Piccioni); “L’alternativa può venire dai paesi emergenti?” (relazioni di Mauro Casadio, Vladimiro Giacchè, Ignacio Mendoza), il tutto introdotto e moderato da Michele Franco.

L’intervento di Luciano Vasapollo si è incentrato sull’analisi della moneta come “regolatore del ritmo di accumulazione del capitale” e sulla natura del denaro così come del credito, laddove il denaro di credito è prodotto dentro le leggi del mercato e quindi è anch’esso merce. Una merce particolare, però, che non ha valore: il suo prezzo è rendita e non profitto. Ne consegue una lettura della crisi come crisi di valorizzazione e non da insufficienza di domanda.

La parte finale della sua relazione si incentra, invece, sulla ricostruzione delle differenti reazioni dei poli imperialistici e del Comecon alla fine del sistema di Bretton Woods, sottolineando il particolare interesse che oggi potrebbe suscitare un rinnovato studio della organizzazione e della funzione dell’allora Banca internazionale di collaborazione economica interna al Comecon.


Il compagno greco Vakiatokis, invece, ricostruisce con precisione il processo di unificazione dell’Europa sul piano economico e monetario, evidenziando come essa sia stata una soluzione a tre tipi di conflitto: tra stati europei; tra stati europei e Stati Uniti d’America; tra il padronato dei singoli stati europei, tendenzialmente convergente in una classe transnazionale e le classi lavoratrici europee.

Franco Russo ha offerto una lettura della nascita dell’euro come tentativo di autonomizzare l’UE sul piano valutario e rafforzare una propria area commerciale. Legge la crisi sistemica del capitale, inoltre, alla luce di una tesi abbastanza controversa e discussa negli ultimi tempi. Sostiene, infatti, che l’esplosione dei derivati sia il frutto della scomparsa dell’unità di misura mondiale. Essi finiscono per assumere la forma di strumento con cui i vari investimenti vengono valutati continuamente: i derivati sono i sostituti della moneta mondiale (l’utilizzo dei derivati serve a governare il rischio e quindi a prezzarlo).

Guglielmo Carchedi, a conclusione della prima giornata di studi, legge il processo di integrazione europeo da un particolare punto di vista: il progetto di unificazione monetaria è dettato dall’obiettivo strategico di appropriarsi dei benefici del signoraggio internazionale. I benefici di tale meccanismo di drenaggio di valore è ben rappresentato dagli USA: sin dal 1971 la bilancia commerciale USA è sempre negativa. Ogni anno gli Stati Uniti si appropriano di quote di valore prodotte altrove che, negli ultimi anni, possono essere quantificate nel 6% del PIL statunitense. In un breve excursus critica poi la tesi avanzata da Franco Russo (derivati=moneta) sostenendo che il credito non sia moneta, bensì rappresentazione di un debito. Circa le prospettive attuali della crisi, sottolinea come la borghesia tedesca sia divisa al suo interno: da una parte c’è una frazione che difende lo status quo dell’unione monetaria; dall’altra v’è una parte di borghesia che spinge verso un euro forte, presupposto del quale è il fallimento dei paesi deboli e la loro fuoriuscita dall’UEM. Critica inoltre la tesi per cui la svalutazione monetaria, in un’ipotesi di ritorno alla moneta nazionale, potrebbe risolvere il problema della competitività italiana (o di altri paesi in simili condizioni) rispetto alla Germania. La svalutazione potrebbe al limite far crescere la produzione ma non stimolerebbe la crescita, perché il paese con tassi di produttività superiori (Germania) si approprierebbe di valore proveniente dai paesi con tassi di produttività inferiori. Conclude poi sostenendo che sia le politiche anti-crisi neoliberiste che keynesiane sono assolutamente fallimentari nel risolvere il problema. La crisi si risolve solo con la distruzione di capitale.

Francesco Piccioni ha inaugurato la seconda sessione di studi ricostruendo il ruolo dello stato USA nella crisi (modello perfetto di “comitato di affari della borghesia”). Il modello politico statunitense è frutto di un patto tra proprietari, da cui sono esclusi i lavoratori e le loro organizzazioni politiche e sindacali, a differenza del modello europeo.

La diversa formazione dello stato USA e delle forme statuali europee hanno comportato anche risposte storicamente differenti alle varie crisi del capitale: il modello europeo reagisce alla crisi portando guerre agli stati/nazioni limitrofe, gli USA conducendo guerre “altrove”, lontano dai propri confini nazionali. Ciò ha comportato che, mentre in Europa i vari stati nazionali hanno sempre ricercato il consenso interno, anche con il Welfare, negli USA non si riscontrano similitudini su questo piano.

Anche la risposta USA alla crisi ha delle sue peculiarità. La Federal Reserve ha funto da prestatore di ultima istanza ed il governo ha preso decisioni importanti di intervento diretto nell’economia, salvando o meno gruppi bancari ed assicurativi. La politica della Federal Reserve, tuttavia, è possibile solo nella misura in cui gli USA possono stampare dollari grazie alla credibilità globale della loro moneta che poggia sulla solidità politica prima ancora che economica.

Con le politiche interventiste degli ultimi anni, gli USA hanno imposto agli altri paesi un vero e proprio “format” di gestione della crisi (v. Gran Bretagna): il pubblico, lo stato deve intervenire per salvare il modello finanziario. In Europa, tuttavia, questo tipo di intervento necessita un contemporaneo mutamento del modello sociale, con conseguente abbattimento del Welfare State.

Giorgio Gattei ha svolto una relazione a carattere storiografico dando ampio risalto alle strategie geopolitiche della Germania. Sostiene che la geopolitica di Haushofer sia stata recuperata dalla “Größe Deutschland” in contrapposizione alla geopolitica anglosassone. Haushofer divideva il globo in quattro macro-regioni: pan-America, pan-Eurasia, pan-Europa, pan-Asia: ogni pan-regione spetta ad uno stato egemone (per l’Europa esso è la Germania) ed ogni pan-regione ha diritto ad uno “spazio vitale” che, tuttavia, non si estende per vie orizzontali (come nei piani geopolitici anglosassoni), ma per assi verticali.

Dopo la fine della geopolitica tedesca nel 1944, essa rinasce nel 1994 con la nuova politica di rafforzamento della comunità europea che consiste nel: rinsaldare l’alleanza tra paesi appartenenti al “nocciolo duro”; rinvigorire l’alleanza Francia-Germania; unificare progressivamente la politica estera e la sicurezza; estendere l’Unione ad Est.

Schäuble è l’attuale primo ideologo/stratega di geopolitica tedesco. I perni della sua strategia sono: l’area valutaria euro; le politiche di “Fiscal Compact”; una vera unione politica europea.

Gattei pone molta attenzione agli effetti deleteri che avrebbero le politiche di “Fiscal Compact” ovvero di pareggio di bilancio come formulate recentemente: l’eccedenza del debito oltre il 60% del PIL deve essere ripianata in 5 anni, il che impone politiche di austerità recessive a beneficio peraltro della Germania (principale creditrice, ad es., dell’Italia). Le politiche di austerità tedesche, tuttavia, entrano in collisione con quelle di crescita sostenute dagli USA. È qui che si apre un altro fronte di guerra tra poli geo-economici contrapposti, ove giocano un ruolo decisivo le agenzie di rating e le ondate speculative.

Sergio Cararo sottolinea come siamo di fronte da una crisi profonda della storica camera di compensazione degli interessi USA/Europa, ovvero la NATO. Il caso emblematico è offerto dalla Georgia, nel cui teatro di guerra si sono contrapposti interessi diversi (interventisti quelli statunitensi, refrattari ad interventi militari, quelli europei).

Vengono sottolineati poi alcuni momenti importanti, anche recenti, delle politiche di rafforzamento dell’unificazione europea (nonostante la vulgata ufficiale voglia un’UE in piena crisi, sull’orlo del fallimento e della dissoluzione). Ad es. dal 2010 vi è una frenetica attività normativa sul piano dell’innovazione o istituzione dei Trattati che hanno accelerato il processo di centralizzazione dei momenti decisionali. A ciò si aggiunga che il complesso militare-industriale europeo si è rafforzato sensibilmente negli ultimi anni (si pensi ai progetti francese, tedesco, italiano, britannico sui droni e sul sistema missilistico europeo). Anche sui corridoi energetici gli interessi sono divergenti, laddove l’UE prova ad autonomizzarsi dalle fonti energetiche controllate dagli USA. Alla luce di tali evidenze è importante smarcarsi da quelle letture che si appiattiscono sulla incessante conflittualità tra stati membri dell’UE e provare ad analizzare le “tendenze” in atto, le sole che possono orientare nel lavoro politico di lungo respiro.

Mauro Casadio ha introdotto la terza sessione di studi aprendo alle prospettive di alternativa. La crisi dell’URSS apre ampi spazi di crescita al capitale che, in 17 anni (1991-2008) si riorganizza sul piano mondiale riconfigurando relazioni tra stati, modelli produttivi e nuova divisione internazionale del lavoro.

Il nuovo ciclo di crescita ha trovato però dei limiti strutturali che non sono solo di carattere economico, ma investono anche la sfera energetica, delle risorse naturali, quella della sostenibilità ambientale di tale modello di crescita… Appare fondato cominciare a ragionare sulla traccia politica per cui la crisi favorisce delle divaricazioni importanti tra paesi centrali e paesi periferici. Se essa crisi si scarica sui paesi periferici, che effetti può sortire sui processi politici di trasformazione della società?

Il compagno boliviano Ignacio Mendoza traccia una panoramica interessante sui processi di trasformazione in atto di America latina e soprattutto con ampi riferimenti all’ALBA. Lotta contro le povertà, l’esclusione sociale, l’analfabetismo e per i diritti sociali (compresi quelli delle minoranze linguistiche, delle donne ecc.) sono al centro delle politiche dei vari governi rivoluzionari del Sud America, nonché dello stesso ALBA. L’es. boliviano in merito è eloquente: oltre all’ALBA sono stati promossi numerosi trattati bilaterali negli ultimi anni con paesi come Cuba e Venezuela per la cooperazione su singole questioni. Un potente strumento di riappropriazione al pubblico di risorse in precedenza privatizzate, è rappresentato dalle nazionalizzazioni (principio peraltro costituzionalizzato nella nuova Costituzione boliviana): dalle risorse naturali alla biodiversità, dagli idrocarburi alla banda elettromagnetica al servizio di trasporto elettrico. Tali processi sono agevolati su scala internazionale grazie all’intervento delle imprese integrate dette “gran-nacionales” sorte all’interno dell’ALBA in vari segmenti economici. A tali iniziative si aggiungono quelle sull’accordo di integrazione energetica, il Banco de l’ALBA, l’unità monetaria comune (SUCRE) quale unità di conto interna all’Alleanza, fino alla Carta de los movimientos sociales.

Vladimiro Giacchè tiene l’ultima relazione del convegno sul “caso cinese” come esperienza da analizzare con attenzione al fine di trarre alcune lezioni di politica economica, pur non ergendolo a modello di riferimento. Cinque grandi errori, sostiene Giacchè, circolano nelle analisi sulla Cina contemporanea: 1) lo sviluppo cinese è basato sull’export; 2) i consumi cinesi sono bassi; 3) la produzione cinese è a basso valore aggiunto; 4) è in corso una gigantesca bolla immobiliare; 5) in Cina prevale il turbocapitalismo. A dispetto di quanto generalmente ritenuto, la Cina non è un’economia trainata dalle esportazioni. Molte merci “Made in China”, infatti, sono solo assemblate in Cina, ma contribuiscono poco a formare il PIL. Le merci esportate rappresentano il 44% del PIL cinese. Le dinamiche di sviluppo cinese sono in buona parte trainate dai consumi interni. A seguito della crisi del 2008 si è anche assistito ad un mutamento delle direzioni del commercio estero: crolla quello verso gli USA/UE ed aumenta quello verso altri paesi emergenti. Dall’export quantitativo, peraltro, si passa sempre più verso l’export di qualità. La crescita dei consumi interni ha dei tassi impressionanti: +12% quelli urbani (anno 2012), +17% quelli rurali. Ciò è il frutto della crescita dei redditi nel lungo periodo (dal 1978 ad oggi). Negli ultimi dieci anni: +151% i salari urbani e +111% quelli rurali (importanza decisiva hanno avuto in tal senso le politiche pubbliche sui minimi salariali). Ciò nonostante, il consumo è uguale al 34% del PIL ma è spiegabile dall’enorme quota di investimenti in infrastrutture e capitale fisso. Aumentano le spese per i servizi sociali (nel 2009 si è registrato un +20% sull’anno precedente). V’è inoltre il dato impressionante della crescita annua dal 2008 ad oggi del 20% delle spese nel settore R&D (ricerca e sviluppo). Anche i tassi di produttività aumentano sensibilmente, puntando quindi sul plusvalore relativo, ciò che rende possibile gli aumenti salariali. Numerose imprecisioni circolano anche in ordine alla supposta bolla immobiliare, che sarebbe frutto delle politiche di privatizzazione degli immobili. Privatizzazione che però è avvenuta interessando tutti i ceti. Peraltro, dai dati a disposizione emerge che solo il 7% è ascrivibile agli investimenti immobiliari. Infine, Giacchè critica la tesi per cui in Cina saremmo di fronte ad un modello produttivo “turbocapitalistico”. L’economica cinese, sostiene G., è ancora in mano allo stato ed al PCC (le più grandi imprese strategiche ed il comparto finanziario sono controllate dal pubblico). Nonostante gli investimenti privati oramai siano prevalenti, crescono anche quelli statali. Delle 150 maggiori società cinesi, peraltro, lo stato detiene quote maggioritarie di partecipazione. Un ruolo centrale nel successo dell’economica cinese deve essere attribuito alla pianificazione, da intendere come una sorta di rivincita della strategia. Non è un caso che più voci provenienti dal mondo dell’alta finanza abbiano individuato nei piani quinquennali il principale strumento di successo della politica economica cinese.

La sfida odierna – dalla Cina è possibile estrarre delle lezioni interessanti – è data dalla compresenza di due sistemi economici: quello privato e quello pubblico, laddove quest’ultimo deve sviluppare capacità di governo delle dinamiche economiche impedendo il pieno dispiegamento dell’anarchia del mercato. Giacchè, infine, abbozza una indicazione di ricerca: la necessità di pensare alla nostra vita degli ultimi decenni come al fallimento non di uno ma di due sistemi economici: quello sovietico da un lato, quello del mercato dall’altro, fallito nel biennio 2007/2008.

Gli atti dello stimolante convegno, che richiama già quello tenuto a Roma sulla “Mala Europa”, verranno stampati a settembre a cura della Rete dei Comunisti, così da essere messi a disposizione dei militanti.

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