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Beneficio di inventario

Ezio Partesana

A diciotto anni dalla morte di Fortini, in una grande libreria del centro di Milano nessun suo testo è disponibile, eccezion fatta per i due volumi della manifestolibri e anche questi, mi informa cortese il commesso della Feltrinelli, sarebbero comunque da ordinare. Esco e sento una voce che conoscevo bene chiedere: Beh, Partesana, che cosa si aspettava?

È vero, se i titoli di Fortini mancano dagli scaffali delle librerie non è per chissà quale complotto contro la sua opera o censura delle sue idee, ma semplicemente perché non vendono; fategli avere i lettori di Pasolini, per dire, o di Umberto Eco e vedrete Einaudi e Garzanti affrettarsi a ristampare quanto hanno in catalogo e i distributori prenotare copie da consegnare alle librerie.

Meritano quindi il giusto riconoscimento quanti ancora insistono a conservare la sua eredità e a riflettere sul suo lavoro, siano essi il Centro studi che porta il suo nome o i poeti che scrivono (e assai bene) tenendolo per interlocutore e maestro. Purtroppo io non ho alcuna competenza per discutere di questi sforzi, e posso solo essere contento che non tutto sia andato disperso, lasciando a altri il lavoro faticoso della verifica e della critica. Esiste però nell'opera di Fortini anche un ordine di discorso, che potremmo per brevità chiamare “filosofico”, intorno al quale il silenzio è un po' cupo e le mie conoscenze meno lacunose, e che meriterebbe invece di essere oggetto di una discussione il più possibile collettiva e politica. Si tratta, dico, del rapporto tra produzione, opera letteraria e ideologia; “questione di frontiera” sì, ma anche luogo dove si intrecciano alcuni concetti cardine del pensiero di Fortini e buon osservatorio per comprendere cosa ne è stato di alcune sue tesi.

Il “beneficio di inventario” è quell'istituzione giuridica che consente agli eredi un certo tempo per esaminare i beni del defunto, patrimonio e debiti, prima di scegliere se accettare o meno il lascito; unica condizione posta è che la decisione sia irreversibile e sopra tutto assoluta: gli eredi non possono accettare una parte dell'eredità e rifiutarne un'altra, né cambiare idea più tardi. Nel mondo della cultura le cose non funzionano così  e anzi ogni eredità è sempre accoglienza parziale, rilettura, scarto e interpretazione di quanto la tradizione propone, e ogni scelta può e deve essere revocabile. Il morto continua a parlare insomma, e gli eredi devono fare i conti non solo con lui ma anche con tutto quanto nel frattempo è mutato nella società, nelle arti, nell'industria e via dicendo. Questi “conti” non sono neutri, ma al contrario dicono degli eredi almeno quanto del morto e ogni contraddizione scelta o tralasciata, ogni presa di posizione ribadita o mutata, sono azioni politiche e in quanto tale soggette a critica. Si possono quindi sottoporre a verifica le logiche che hanno guidato, consciamente o implicitamente, l'inventario dell'opera di Fortini e chiedere ragione delle scelte operate, dei giudizi filosofici, politici e culturali  che negli anni hanno portato a conservare alcuni concetti e scartarne altri, non sempre innocentemente, non sempre coerentemente.

La questione della fine del mandato degli intellettuali offre un buon inizio: “È assurda (e colpevole) – scriveva Fortini – qualunque mossa nostalgica o ribelle che voglia restituire allo scrittore lo stato sociale ereditato dal romanticismo, che lo faceva voce della coscienza nazionale o storico della vita privata; e altrettanto impossibile e consolatorio il ritorno al mandato e allo stato che il movimento operaio volle conferire allo scrittore, sia […] per eredità dalla missione illuminista e borghese, sia […] con la formazione dei fronti antifascisti”[1], queste due esperienze hanno esaurito le loro possibilità (e contraddizioni) dopo il trionfo della borghesia moderna sul fascismo e dopo che l'industria del consenso e dello sconforto hanno preso il posto, nella conduzione della coscienza nazionale, dell'erudito e del maestro ottocenteschi. Il vuoto lasciato dall'ideale, prima illuminista e poi romantico, di una discesa del sapere dai dotti al popolo, è stato colmato da una schiera di addetti alla trasmissione del pensiero e dei suoi modi che producono quanto serve a ottenere il minimo disturbo e la massima acquiescenza possibile. A insegnare la morale sono sempre stati i modi di produzione, certo, però oggi ci sono migliaia di addetti, formati e pagati, per operare la traduzione da questi a quella, e quanto più vengono inglobati nel processo di produzione capitalistico (“sussunti”, si sarebbe detto un tempo...), quanto meno trasparente diventa il rapporto che li lega al capitale da una parte e agli sfruttati dall'altra. Mancando il momento della trasformazione dell'intellettuale e del suo mandato, i funzionari del sapere smarriscono anche le possibilità di comprendere il proprio ruolo e la propria funzione, e anzi non  ne fanno proprio questione: “I medesimi intellettuali che si propongono di chiarire al proletariato la sua funzione nell'organigramma capitalistico non sono stati fino a oggi capaci di svolgere una analisi attendibile del funzionamento di una media casa editrice o di un giornale e dei rapporti di classe intercorrenti fra coloro che vi lavorano”[2].

I quarant'anni intercorsi tra queste frasi e il presente quotidiano non hanno rimediato a questa cecità. La sanzione della fine del mandato ha condotto dalle nostre parti più a una “libera uscita” degli intellettuali che non ha una riflessione sul ruolo dei portatori di sapere nella produzione e nella divisione in classi nella nostra società. Le televisioni, i giornali e le riviste sono pieni di uomini (e donne) di cultura che di tutto discutono tranne che di come opporsi al crescente potere dei meccanismi di controllo e manipolazione, umiliazione e sfruttamento, della massa dei “dannati della terra”. Nessuno riesce a spiegare, e nessuno neanche si preoccupa di farlo, perché mai l'intervento di un intellettuale “serio” dovrebbe riuscire a emergere e a sottrarsi dal contesto, dal ben orchestrato coro di opinioni e giudizi che viene oggi offerto senza soluzione di continuità e senza alcuna distinzione tra il dotto professore e la giovane ballerina, e a farsi strada sino ai suoi ipotetici destinatari; a una crescente specializzazione del sapere, non solo scientifico, sembra corrispondere un livello sempre più basso di conoscenze su ruolo, funzioni e status dell'intellettuale. Così i lavoratori della conoscenza si trovano a vivere in una condizione paragonabile a quella del piccolo artigiano e del contadino di inizio Ottocento, espropriati dei mezzi di produzione non sono più quello che erano e a nessun costo vogliono diventare quello che saranno. Ma l'unica risposta possibile è al di là delle loro specifiche conoscenze. E così gli intellettuali si rispondono da soli che “qualcosa passerà” e che è comunque meglio ci siano loro in quel posto, a scrivere, filmare o insegnare, piuttosto che uno qualsiasi di “quegli altri”, che farebbe esattamente le stesse cose s'intende, ma senza un minimo di qualità. Si fa fronte comune contro un nemico inesistente e si ignora tutto di coloro con i quali ci si sta alleando: “Chi tiene le leve della manipolazione di massa sa benissimo che il moto caotico delle opinioni, col senso di impotenza e frustrazione che lo accompagna, è appena lo schermo di potenti e organizzati processi di propaganda e di controllo e diffusione del consenso”[3].

Riconoscere come oramai avvenuto il passaggio degli “addetti alla elaborazione e riproduzione del sapere, pubblici e privati” da ceto a casta[4], non significa tuttavia dimenticare come assieme alle responsabilità individuali abbiano operato anche i meccanismi di produzione e consumo di quella peculiare sorta di merce (ma pur sempre merce) che è la cultura: “Dei tre momenti della comunicazione libraria sarebbe più fruttuoso, da un punto di vista pratico politico, guardare al momento della produzione e a quello del consumo piuttosto che a quello della pubblicazione-distribuzione. Veri filtri decisivi non sono gli interessi editoriali ma quelli di cui gli interessi editoriali sono, oramai a livello mondiale, appena un sottoprodotto. I danni, in nome del profitto o delle immediate strumentalizzazioni ideologiche e poetiche, da tali interessi portati alla qualità e alla autenticità letteraria (e, più in generale, culturale) sono assai minori di quelli che stanno all'origine del modo di produzione intellettuale e specificatamente letteraria, nella sfera delle condizioni etiche e materiali nella quale ci si educa al lavoro letterario, nel plesso ideologico e di costume che lo precede e accompagna. Ancora più decisive sono le condizioni che la realtà pone al consumo della letteratura, habitat dei consumatori, tempo psichico, pressioni ambientali, molteplicità dei messaggi, loro discesa lungo la scala sociale eccetera”[5]. Il che è come dire che anche per la produzione letteraria la sfera della circolazione dipende da quella della produzione e del consumo, e un mutamento generale può venire solo dal modo in cui viene prodotta (strumenti e rapporti) e consumata (riproduzione). Nel loro inventario generale, però, i lavoratori intellettuali si sforzano più di rimpiangere il mecenatismo (statale o privato poco importa) e il perduto prestigio, che non studiare le strutture nella quali lavorano e abbozzare una coscienza collettiva del loro particolare genere di sfruttamento. Sono al contempo esercito di riserva della manodopera e funzionari della propaganda che li dipinge liberi e creativi, avvertono la contraddizione ma cercano di risolverla scalando le classifiche e arrivando abbastanza “in alto” da potersi permettere, allora sì, qualche vezzo in più e qualche comodità proibita ai molti; rivendicano un reddito perché si rendono conto di partecipare all'accumulazione capitalistica, ma non è loro chiaro come e con quali compiti, e protestano contro la sfera della distribuzione perché è lì che a loro si nega l'accesso ai privilegi che esercitano i loro più anziani colleghi e professori, sono interessati alle proprie condizioni di vita, insomma, ma non a indagare le strutture grazie ai quali in vita si mantengono. Per questo oggi ha relativamente poco senso distinguere una cultura “alta” da una “bassa”, non solo perché si alimentano a vicenda, stimolando il popolo degli aspiranti, sfruttando la logica della scala lungo la quale un lavoratore dell'intelletto può salire o scendere, competendo per fondi e compensi e infine scambiandosi volentieri i posti quando la società dello spettacolo richieda un volto severo in televisione o la politica un comico tra i banchi del parlamento, ma principalmente per la “omogeneità tra i produttori” e la “similarità delle strutture”[6]. La regressione (anche la più colta e artistica) è sempre una possibilità: non mette i bastoni tra le ruote alle leve del comando e assicura un qualche profitto al mercato delle opinioni. Così si scrive volentieri dell'inconscio profondo, della natura originaria, di esperienze inenarrabili e persino di segreti esoterici un tempo noti e oggi oramai inaccessibili se non a una ristretta cerchia di iniziati, tutto pur di non vedere le strutture economiche che organizzano la produzione; esse devono restare al di sotto del livello di coscienza e lo fanno, sino a costituire il “mistero dei misteri”, come lo chiamava Fortini, ”l'inconscio sociale, cioè il vero inconscio”[7].

Alla povertà dell'esperienza, alla sostituzione dell'esperienza con preordinati feticci, allo sprofondamento dell'esperienza nell'inconscio, sembrerebbe corrispondere nell'opera arte un processo simile e inverso; essa in quanto “forma” compiuta partecipa del sogno di un'umanità capace finalmente di condurre l'esistenza secondo progetti liberamente scelti, ma in quanto “forma bella” ha sempre anche un tratto consolatorio che giustifica l'esistente, seduce (cioè etimologicamente “svia”) a un'illusione di autonomia e completezza che nella vita vera non si dà: “Se poesie e arte diventano, soprattutto nel corso dell'ultimo secolo, «forma e struttura», ciò è proprio in quanto appaiono come «seconda natura» cioè come l'unico agire che la sclerosi della reificazione non abbia apparentemente invaso”[8], ma “qualsiasi espressione letteraria che rappresenti una servitù in modo da rendere immediatamente possibile l'illusione di una libertà, serve una libertà illusoria”[9]. Si rende quindi necessario un livello di contraddizione e di mediazione diverso, da quello rappresentato dalla convinzione che un'opera letteraria si risolva interamente nella struttura dei suoi significanti (con conseguente dilatazione del concetto di “significante”), così come dall'esortazione a  contenuti spirituali, che servano da nutrimento agli uomini quando riposano dalle preoccupazioni immediate e prosaiche dell'esistenza. Poiché entrambe queste tendenze sono passate in eredità ai nostri contemporanei, oggi si disserta seriamente di estetica rivoluzionaria e stilemi critici a proposito dell'ultimo film comico di successo e nella pagina accanto si elogia l'ennesimo romanzo giallo che “rivela le pieghe nascoste della nostra società meglio di quanto potrebbe fare la più minuziosa inchiesta sociologica”, nella doppia illusione che basti alzare a un livello minimo la chiacchiera per salvarla dall'essere, appunto, chiacchiera, e che basti discorrere sopra la realtà per dire cose vere. Le conoscenza circa l'importanza dei rapporti reciproci che legano gli elementi di un'opera d'arte, si è rovesciata nella moda dei “recuperi” culturali del peggio, purché sia possibile raccogliere un'accolita di intenditori attorno e promuovere una tavola rotonda, mentre l'idea che anche in un'opera letteraria, per quanto “di finzione”, esista comunque un grado di verità (o di falsità) si è rapidamente adeguata al mercato  riproponendo il modello stantio dell'artista come coscienza superiore, dell'intuizione irrazionale, dell'esperienza esoterica e via dicendo. L'importante per l'Industria culturale, è che il grado di attenzione necessario al consumo tenda allo zero e contemporaneamente all'assoluto l'immedesimazione nelle forme proposte. “Oggi le difficoltà per dire la verità non sono cinque, come voleva Brecht, ma cinquanta. Che gli dèi dell'astuzia soccorrano”[10].

Che cosa resta delle possibilità del linguaggio di esprimere altro rispetto alla logica del dominio? “Mi chiedo se non si debba cercare di preservare le residue capacità rivoluzionarie del linguaggio in una nuova estraneazione, diversa da quella brechtiana ma su di quella orientata”[11], scriveva Fortini. Ora, l'estraneazione è quella tecnica di recitazione teatrale che mira ad aumentare la distanza tra attore e personaggio con il fine di eliminare, tendenzialmente, l'identificazione dello spettatore; così facendo, riteneva Brecht, resterà attivo un maggior spazio per la riflessione e la comprensione delle vicende narrate. Si tratta quindi di un raffreddamento, potremmo dire, dell'emozione a favore della ragione, una diminuzione della catarsi a favore della critica e della coscienza di sé. Se dovete impersonare un uomo che ha avuto un incidente automobilistico – diceva Brecht – comportatevi come se l'incidente lo aveste avuto davvero ma lo steste raccontando a dei vostri amici. L'estraneazione è quindi un processo di sdoppiamento che ha come risultato la messa in evidenza di due piani: la vicenda e l'accaduto e le strutture narrative. Per “estraneare” il linguaggio sembrerebbe quindi fondamentale mostrare le sue strutture al fine di mettere a nudo la storicità di tutti i suoi elementi costitutivi: il lessico, la grammatica e la sintassi. È evidente come la medesima frase non sia la stessa se mutano coloro che la pronunciano, il contesto o le condizioni sociale entro le quali viene detta, ma Fortini allarga il contesto in una forma così radicale da sfiorare il paradosso:  “Se voglio capire Zanzotto o Cavalcanti ho davvero bisogno di sapere di quanto di estende il riarmo giapponese, come il Pentagono fa ammazzare i sandinisti in Nicaragua e se la nostra inflazione è manovrata e da chi”[12]. Bisogna quindi sapere dove si nascondono e come operano le leve del comando se si vuole conservare le capacità rivoluzionarie del linguaggio, e non c'è dubbio che: “per quanto è delle forme (artistiche, letterarie e simili) sarebbe bene considerarle interamente subordinate ai modi di produzione di questo tardo capitalismo”[13]; comprendere in che cosa il modo di produzione subordini a sé le forme artistiche, letterarie e culturali in genere, equivarrebbe a svelare, come accennato prima, i meccanismi dell'inconscio sociale, il “mistero dei misteri”, ma non per questo bisogna perdonare a coloro che non sanno quello che fanno. È vero che la forza che acceca il manipolato e il manipolatore è una sola, ma alcuni si trovano in centri nevralgici del modo di produzione, altri no: “Negli anni a venire la via verso un mutamento, lunga, durissima, segnata da sacrifici di ogni specie e nemmeno immaginabili, richiederà la frattura, la lotta, la divisione all'interno delle strutture e degli organismi dell'informazione, del sapere e del consenso”[14], e bisogna dunque agire nei luoghi dove si elaborano le forme del sapere e della sua comunicazione. Ma deve al contempo essere chiaro che non è questione, o non è solo questione, di dire la verità al posto della menzogna, perché l'ideologia non è appunto una menzogna alla quale si possa contrapporre, come in una dimostrazione geometrica, la verità, ma bensì un discorso sopra la realtà che è distorto proprio dalle condizione che la realtà (capitalista) pone a ogni sorta di discorso intorno alle sue strutture. Per farsi “candidi come volpi e astuti come colombe”[15] si deve dunque approfittare della subordinazione delle forme (artistiche e letterarie) al modo di produzione, e della capacità dell'opera (artistica e letteraria) di mettere in scena una totalità con forme altre rispetto a quelle alle quali è subordinata. Non è una forma di sapere, qualcosa che possa essere appreso e poi trasmesso, né una verità da contrapporre alla propaganda, ma al contrario un dire le cose come non potrebbero essere dette: “Fino a quando si continuerà a credere nell'illusione […] che sapere sia potere, che pensare sia fare e che la parola sia la cosa […],  fino allora ci si illuderà che basti opporre la notizia vera alla falsa, la parola rossa alla nera. Quando, per combattere la barbarie che abbiamo di fronte, è necessario che la notizia vera e la parola rossa siano anche un altro linguaggio, che i rapporti tra le parole e i periodi, i loro ritmi, le strutture delle forme di argomentazione e di rappresentazione si oppongano punto per punto a quelle degli «altri» e siano invece coerenti fra loro”[16].

Alzi la mano chi è d'accordo, perché il sapere oggi viene conteso in modo opposto. Dall'alto ci si premunisce di ripetere all'infinito che la struttura del linguaggio è tutto ed è indipendente da qualsiasi forma di organizzazione sociale,  dal basso ci si affatica a diffondere notizie vere nell'illusione che a convincere le persone a ribaltare il capitalismo bastino quelle. Nessuno sembra interessato alla dialettica che lega il modo di produzione al sapere, né a quella che attraverso la prima organizza il rapporto tra forma e contenuto nella comunicazione. Eppure si potrebbe cominciare la ricerca da tendenze che si mostrano abbastanza chiaramente, e prima fra tutte quella della inutilità pratica della letteratura. La “poesia”, insomma, non serve più a niente e il “poeta” segue il suo destino, ma proprio per questo il linguaggio può essere un luogo di scontro: “Ad ogni progresso della conoscenza [...] scientifica della società sembrano corrispondere una diminuzione delle funzioni didascaliche della letteratura e un aumento della sua latitudine metaforica. E come è sempre stato nella storia di tutte le letterature, una poesia sugli uccelletti del bosco, per struttura, articolazioni interne e tensioni semantiche, può interpretare e quindi formalmente superare una data «visione del mondo», riflesso di un rapporto di classe e regime produttivo dati”[17]. Quello che qui importa, allora, è la “somiglianza” (per usare il termine più debole possibile) tra la capacità di messa in forma dell'opera letteraria e il potere di dare liberamente forma alla propria esistenza degli uomini. Entrambe sono illusioni fino a che vengono presentate come immediatamente disponibili e indifferenti alla struttura sociale, ma possono diventare rivoluzionari se usate per “avvelenare i pozzi” della coscienza prodotta dal capitalismo. Bisogna, dunque, rendere visibile ciò che esso per sua natura nasconde due volte: una prima nei rapporti di classe e una seconda nella rappresentazione ideologica di questi. Non si può farlo senza modificare radicalmente il modo di produzione, ma parte del sapere necessario a questa battaglia si nasconde nella possibilità del pensiero di superare formalmente l'accecamento.

La rinuncia al mandato degli intellettuali si accompagna al riconoscimento del potere quasi perfetto che il contesto esercita sull'opera letteraria o artistica in genere, e questo a suo volta porta alla coscienza della funzione che i portatori di sapere e comunicatori svolgono nel capitalismo odierno. Questo gli intellettuali lo sanno. Ma di produrre merce, e di essere prodotti e comprati come merce è cosa che va quasi sempre oltre le loro possibilità Messi di fronte alla contraddizione di un mondo regolato dal rapporto tra capitale e lavoro, preferiscono sfuggire alla contraddizione della loro condizione esaltando ora la scrittura come pura azione (con il fastidioso gergo che ne consegue), ora negando che nel loro lavoro ci sia anche una questione etica:  “Due sono, come tutti sanno, le forme con cui l'apologetica letteraria del nostro secolo ha cercato di sfuggire a quel destino di impotenza pratica: la prima equiparando ogni operare letterario all'azione […], la seconda eliminando il problema, riducendo cioè ogni fatto artistico o letterario a comunicazione e informazione”[18], ovvero, detto in altri termini, con gli atteggiamenti opposti e simmetrici della provocazione e dello scherzo. Contro questo “surrealismo” di terza generazione bisogna tornare a ripetere che esistono scelte etiche e decisioni personali che determinano il valore e il segno di ogni attività intellettuale, e che non ci si può giustificare adducendo a propria discolpa che non si fa altro se non se non rispondere a una domanda del mercato, perché quella domanda proprio essi hanno indotta[19]. Se “i gestori del culturalismo di massa, quelli almeno dei livelli superiori, se vogliono mantenere la propria collocazione e respingere la petulanza degli aggiornati, non posso fare a meno di indicare l'al di là della cultura e del sapere, cioè l'intuito, il gusto, l'indicibile, la tradizione iniziatica”[20], perché mai i “lavoratori della mente” li seguono in questa apologia anziché denunciare la corruzione? Perché lo “al di là” che si indica non è la realtà sociale né l'etica, non la struttura dell'opera e men che meno il modo di produzione, ma solo il mito del genio, del talentuoso artista e del segreto posseduto e rivelato a pochi intimi? “Non sopportiamo la verità e i nostri padroni sanno e vogliono che noi non la sopportiamo. Noi vogliamo essere, come si dice, «uomini»”[21].

La notizia dell'oppressione e dello sfruttamento sarebbe facilmente accessibile a chiunque alzasse la testa anche solo per un momento dal “fiero pasto”, in un mondo dominato dall'informazione non è difficile sapere quanti vengono massacrati in nome del profitto, anche nostro. Ma se non ci rassegniamo all'idea che questa notizia passi inosservata perché vogliamo che così sia per il nostro (poco) quieto vivere e i nostri (numerosi) privilegi, allora è indispensabile elaborare una conoscenza di come e dove venga messo a profitto il lavoro intellettuale. Secondo Fortini: “Oggi il ruolo di coloro che operano nell'ordine dei linguaggi appare il campo di scontro decisivo di qualsiasi avvenire; né solo in Italia. Poiché quell'ordine dei linguaggi agisce oggi direttamente sulla produzione”[22], ovvero, per non far confusione, l'ordine dei linguaggi agisce direttamente sui rapporti di produzione e sulla riproduzione della forza lavoro. Sono quindi queste le funzioni di comando e controllo che bisogna disinnescare nella lingua, e farlo bene e presto.

Diversamente da quanto suggerirebbe il senso comune ai suoi eredi, oggi il centro del conflitto di classe ha i piedi nella produzione materiale ma la testa nell'ordine simbolico. Il capitalismo, che ha pienamente dispiegato il potere della tecnica, il controllo sulle forze produttive, si rivolge adesso alla produzione di segni - che sono quelle “cose” attraverso le quali conosciamo e interpretiamo il mondo e noi stessi - e alla sottomissione di questo universo alla sua logica di profitto. Per questo e non altro il centro dello scontro può essere l'ordine dei segni. Così come nell'Ottocento era cruciale il controllo dei mezzi di riproduzione della forza lavoro oggi lo è ancora, ma la penuria e quindi la scontro, adesso e in Occidente, si è spostato sull'esperienza e dunque sui concetti e sulla logica di interpretazione, in ultima istanza sulla capacità del linguaggio di mostrare esperienza autentica nonostante la riduzione della vita a merce e del linguaggio stesso a propaganda e ideologia.

L'intellettuale deve dunque indagare i modi di produzione e i rapporti di classe della merce a lui propria e quelli della produzione materiale, nonché la dialettica, mutevole a seconda delle fasi, dei due. Nell'opera letteraria questo si traduce, secondo Fortini, in una azione volta a “spostare sulla sintassi il centro di gravità della scrittura”[23], perché è qui che il modo di produzione subordina a sé, attraverso l'ideologia, il linguaggio. Questo è il segreto. Toccherebbe a noi adesso accettare il compito e proteggere le residue capacità rivoluzionarie della lingua, con le scelte che ne derivano e accettando i sacrifici che ne conseguono. È vero, coloro ai quali è data questa possibilità non possono contare su un rapporto privilegiato con la classe degli sfruttati in nome della quale vorrebbero operare, né su una forma di ricompensa diversa dall'esperienza, sia pure illusoria, di dare forma alle cose. E tuttavia la loro, la nostra, condizione è meno lacerata di quelli che garantiscono la sopravvivenza materiale del mondo con il loro lavoro. Essi guarderanno al sapere e all'arte con lo strabismo di chi intuisce di essere la base materiale di tutta quella ricchezza e al contempo gli esclusi dal godimento; vedranno che cosa sarebbe potuto essere e lo misureranno con quel che è, soffrendo l'enorme distanza di tempo che separa l'una cosa dall'altra, il lavoro morto dal lavoro vivo. Ma non potranno né cessare il servizio – ché questo è il modo in cui essi si mantengono in vita -, né la sensazione che la cultura nasconda un potere che a loro è precluso. E nonostante questo: “La classe dominata – o quella parte di noi che ha solo esistenza e penuria - continuerà, come di fatto continua, a consumar poesia; non potrà non farlo perché la sua faccia è rivolta alla «cultura» come potenza che promette forma. La cultura dominante le viene continuamente sottoposta come sua essenza possibile. Ma dovrà necessariamente sentire la poesia come non-contemporanea, formalizzazione della esistenza degli altri”[24].

Fortini tenne appesa, per qualche tempo, una riproduzione dell'Angelus Novus di Klee all'interno dell'anta di un armadio. “In questo modo – diceva – ha rivolta a me la sua faccia migliore”, ovvero la tempesta che spira dal paradiso, quella che: “Lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo”[25]. Più modestamente noi (dico a me stesso) dovremmo stare per qualche tempo davanti all'Angelo e guardare bene quelle rovine che stanno per scomparire.

Ecco, questo è tutto. Con beneficio di inventario naturalmente.

 



Note

[1]
Franco Fortini, Verifica dei poteri, Einaudi, Torino 1989, pag. 134.
[2] Franco Fortini, Questioni di frontiera, Einaudi, Torino 1977, pag. 134.
[3] Franco Fortini, Extrema Ratio, Garzanti, Milano 1990, pag. 29.
[4] Cfr. Franco Fortini, Insistenze, op. cit., pag. 77 et passim.
[5] Franco Fortini, Questioni di frontiera, op. cit., pagg. 313-14.
[6] Cfr. Franco Fortini, Verifica dei poteri, op. cit., pag. 66.
[7] Franco Fortini, Ibidem, pag. 44.
[8] Ibidem, pag. 139.
[9] Ibidem, pag. 51.
[10] Franco Fortini, Extrema Ratio, op. cit., pag. 31.
[11] Franco Fortini, Verifica de poteri, op. cit., pag. 51.
[12] Franco Fortini, Insistenze, op. cit., pag. 228.
[13] Franco Fortini, Extrema Ratio, op. cit., pag. 84.
[14] Franco Fortini, Insistenze, op. cit., pag. 84.
[15] Franco Fortini, Verifica dei poteri, op. cit., pag. 51.
[16] Franco Fortini, Questioni di frontiera, op. cit., pag. 119.
[17] Franco Fortini, Verifica dei poteri, op. cit., pag. 37.
[18] Ibidem, pag. 73.
[19] Cfr. Franco Fortini, Insistenze, op. cit., pagg. 78-79.
[20] Franco Fortini, Ibidem.
[21] Franco Fortini, Questioni di frontiera, op. cit., pag. 44.
[22] Franco Fortini, Insistenze, op. cit., pag. 83.
[23] Franco Fortini, Verifica dei poteri, op. cit., pag. 85.
[24] Franco Fortini, Verifica dei poteri, op. cit., pag. 143.
[25] Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pag. 80.
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