Print
Hits: 2209
Print Friendly, PDF & Email
il rasoio di occam

Scienza della letteratura e critica della vita

Note su “The Bourgeois” di Franco Moretti

Raffaello Palumbo Mosca

Uscito nel 2013, “The Bourgeois” di Franco Moretti non ha ricevuto in Italia tutta l’attenzione che merita. Si tratta tuttavia di uno dei frutti più maturi delle digital humanities e del metodo del distant reading. La riflessione su questo metodo porta inoltre a interrogativi ancora più generali sullo statuto della critica letteraria

schiele121Il libro

Pubblicato nel 2013 presso la casa editrice Verso e subito entusiasticamente recensito da tutte le maggiori riviste americane e inglesi, The Bourgeois. Between History and Literature di Franco Moretti non ha avuto, in Italia, l’attenzione che merita. Ed è stata un’occasione persa. Innanzi tutto perché questo volume è, a oggi, il frutto più maturo e interessante delle digital humanities e in particolare di quel metodo di distant reading i cui vantaggi Moretti illustrava già in Graphs, Maps, Trees: Abstract Models for a Literary History del 2005. Ma The Bourgeois è anche ‒ forse soprattutto ‒ uno studio nel quale la virtuosistica capacità dell’autore di bilanciare e perfettamente intrecciare l’analisi storica e teorica, l’analisi dei dati e quella più propriamente critico-letteraria, tocca il suo apice.

Il risultato, notevolissimo, è uno studio che, per quanto agile, non solo riscrive e analizza in modo originale la storia e il declino della borghesia europea, ma ci consente anche di guardare da una prospettiva nuova e diversa le tecniche letterarie di volta in volta utilizzate nel corso di due secoli. Da una parte, quindi, Moretti rifiuta ‒ come vorrebbe una lettura ormai sclerotizzata di Simmel, Weber, Sombart e altri ‒ di identificare borghesia e capitalismo come due facce della stessa medaglia, o di ridurre il borghese all’etica del lavoro (come lo stesso Weber sembrava inclinato a fare), per restituirci invece una storia più complessa e sfaccettata, in grado di illuminare sia le contraddizioni interne alla borghesia stessa, sia l’ambiguo rapporto che essa intrattiene con lo sviluppo del capitalismo europeo.

Moretti riesce inoltre a stabilire una relazione sempre cogente tra fenomeni extra-letterari e strategie retoriche perché ‒ come ricordava lui stesso in Segni e stili del moderno del 1987 ‒ questi ultimi contano non tanto come possibili temi o oggetti di un testo, ma in quanto capaci di suscitare «delle reazioni culturali, dei sistemi di valutazione che si traducono in strategie retoriche».

L’assunto di partenza del libro è prettamente lukácsiano (il Lukács di Teoria del romanzo): «ogni forma è la risoluzione di una fondamentale dissonanza dell’esistenza» e lo studio delle forme letterarie come “fossili di quello che una volta è stato un vivo e problematico presente” serve quindi a comprendere quale particolare dissonanza tali forme servissero ad armonizzare. Così, ad esempio, Moretti è in grado di stabilire e chiarificare la relazione tra l’uso del past gerund nel Robinson Crusoe di Defoe (1719) e la ragione strumentale tipica della mentalità capitalistica; vale a dire: di riconoscere nella struttura e nel ritmo della prosa di Defoe l’‘incarnazione del ‘metodo’ dell’accumulazione capitalistica che “rinnova senza sosta i risultati acquisiti in nuovi inizi”. Già da questo primo esempio si sarà capito che, se Moretti guarda alla letteratura ‒ secondo la sua felice definizione ‒ ‘da lontano’ (cioè: analizza e istituisce relazioni tra pochi dati fondamentali e fondanti), la sua analisi si arricchisce e integra anche grazie a calibratissime zoomate al livello della frase o del periodo. E la frase o il periodo sono presi come campioni in un laboratorio per esemplificare lo stile di un autore (o di un’epoca) inteso come unione di ‘prosa’ (con tutte le sue strategie retoriche) e, appunto, parole-chiave.

Non ho usato le parole ‘campioni’ e ‘laboratorio’ a caso, ma soprattutto per introdurre l’idea di una critica letteraria, più volte ribadita e soprattutto praticata dall’autore, molto vicina alla scienza: una critica le cui conclusioni e i cui giudizi sono fondati su fatti concreti e quindi anche, popperianamente, falsificabili. Da qui l’importanza cruciale rivestita dalle ricerche ‒ sulle occorrenze dei singoli termini da una prospettiva diacronica e su testi appartenenti a diverse tradizioni, ad esempio ‒ condotte nel Literary Lab da Moretti stesso diretto presso la Stanford University. Ma è chiaro: è l’interpretazione dei dati, la capacità di renderli significativi all’interno di un progetto coerente ‒ lo sfruttare l’analisi quantitativa sempre in vista di un’analisi qualitativa ‒  ciò che più conta, e che Moretti riesce a fare in maniera non solo convincente, ma avvincente.

La struttura generale del libro è molto chiara: a un’introduzione nella quale si analizzano criticamente quasi due secoli di teorie sulla borghesia (tra i più citati, e la cosa non sorprende, Weber, Marx e Kocka)  fanno seguito cinque capitoli, in ognuno dei quali Moretti analizza lo slittamento semantico nel corso dei secoli di una parola-chiave (“utile”, “efficienza”, “comfort”, “serio”, “influenza” e “onesto”) e lo stile di una serie di testi esemplari, sempre mettendoli in relazione allo sviluppo della borghesia. Ogni capitolo sembra poi tripartito in un prima, durante e dopo la rivoluzione industriale. In questo modo, Moretti analizza e mette in luce l’evoluzione e della classe borghese e dei testi che ne sono l’espressione, evidenziando le contraddizioni interne ed esterne di questo rapporto.

C’è però una domanda che risuona per tutto il libro, e che Moretti ripete esplicitamente e con insistenza: qual è il lascito della cultura borghese? Dal punto di vista simbolico, il più grande successo (“achievement”) della cultura borghese è senza dubbio la creazione di una cultura del lavoro di cui Moretti non ignora, però, l’interna contraddizione. Anzi: l’analisi di Cuore di tenebra di Conrad (1902) rivela come la devozione al lavoro in sé sia, nella cultura borghese, insieme fondamento della dignità del soggetto e della sua infamia. Accostandosi al piano dell’analisi letteraria, invece, Moretti enfatizza come nel corso di un secolo (dal 1800 al 1900) si assista a un esponenziale aumento dei «riempitivi» (i “fillers”, contrapposti ai “turning points”, o ‘punti di svolta’). “Unica invenzione narrativa del secolo”, i riempitivi portano lo sfondo in primo piano: non modificano il senso della storia né le aggiungono alcunché di significativo, non sono semplicemente ‘effetti di realtà’ à la Barthes, e non servono ad introdurre nella trama le ‘realtà’ borghesi. Perché, allora, Moretti ne parla come dell’invenzione narrativa borghese per eccellenza? Perché ‒ e si ricordi il passo di Segni e stili del moderno già citato ‒ essi “offrono quel tipo di piacere narrativo compatibile con la regolarità della vita borghese” e attraverso di essi la logica della razionalizzazione “pervade il ritmo stesso del romanzo”. Potrei continuare a lungo con esempi di questo fine intrecciarsi di storia sociale e teoria letteraria all’interno del libro di Moretti, ma rinvio senz’altro al piacere di scoprirli nel volume.

Da ultimo, vorrei solo citare l’analisi che Moretti fa dell’evoluzione nell’uso degli aggettivi tra 1700 e l’epoca vittoriana: se l’analisi quantitativa non mostra variazioni significative, l’analisi qualitativa rivela come la loro funzione cambi invece in maniera radicale. Se, nota Moretti, in Robinson Crusoe (e negli altri romanzi del periodo) gli aggettivi servivano a indicare qualità fisiche delle cose e contribuivano alla “accuratezza letterale” della prosa, nei romanzi vittoriani gli stessi aggettivi indicano invece qualità morali. Vale a dire: contengono un «giudizio in miniatura»; è così che il romanzo vittoriano nasconde la propria vocazione moralistica dietro una solo apparente ‘oggettività’; i giudizi sono, nel testo, continuamente offerti, ma sempre in modo indiretto. Gli aggettivi usati nel romanzo vittoriano, conclude Moretti, “non offrono precisamente un giudizio, ma presentano una data qualità come inerente all’oggetto in sé”. La sfida di The Bourgeois è ambiziosissima: non solo restituire un’interpretazione originale di due secoli di storia sociale e letteraria, ma anche fondare questa interpretazione attraverso un’analisi che sia in senso proprio scientifica. È una sfida che Moretti senza dubbio vince; e non è davvero cosa da poco.

 

Brevi riflessioni a margine

Eppure The Bourgeois, e soprattutto il metodo del distant reading, portano anche a interrogativi più generali sulla critica letteraria in sé: da una parte sul posto e il ruolo che essa occupa all’interno dei saperi, ma anche all’interno della società e, più modestamente, all’interno dell’università (ad esempio, cosa faranno quegli studiosi ‒ ovvero tutti quelli che non sono a Stanford ‒ che non hanno a disposizione un literary lab?). Ma andiamo con ordine. Se il tentativo di avvicinare, almeno metodologicamente, lo studio della letteratura a quello propriamente scientifico non è nuovo (nuovi sono il modo e gli strumenti utilizzati da Moretti) esso corre anche un rischio consueto: perdere di vista il singolare e considerare tutti i testi, indipendentemente dal loro valore, solo come sintomi di un qualcosa d’altro (società, politica, classe).

Mi spiego meglio, contrapponendo quelli che a mio parere sono oggi i due metodi critici più nuovi e fecondi (e tra loro i più differenti): il distant reading di Moretti, appunto, e la ‘critica della vita’ ‒ la definizione è di Massimo Onofri ‒ recentemente proposta e studiata in un convegno all’Università di Sassari. La differenza è evidente: se il distant reading vuole riscrivere la storia della letteratura come “sociologia delle forme simboliche” (Moretti in Segni e stili del moderno), la critica della vita vuole riscriversi come letteratura (Berardinelli) e per questo il suo punto di vista è sempre particolare e situato, e adotta le forme retoriche e i metodi che di volta in volta ritiene più appropriati, dall’autobiografia alla satira alla critica filosofica; se il distant reading parla di significatività storica e di costanti stilistiche, la critica della vita non può prescindere dal giudizio di valore su ogni singolo testo. E infine: se il distant reading si rivolge soprattutto agli studiosi ‒ e spesso agli studiosi di altre discipline ‒, la critica della vita considera sempre suo compito mediare tra il testo e il lettore comune. Anzi, come ha affermato Berardinelli al convegno di Sassari, nel critico della vita si percepisce il punto di contatto tra lo studioso e il lettore comune.

A costo di apparire salomonico, vorrei dire che questi due approcci sono in contrapposizione come le due facce di una moneta, e quindi entrambi necessari. Scegliere l’uno o l’altro dipenderà più da una predisposizione personale che da una scelta di principio; più difficile sarebbe invece immaginare un’alternanza dello stesso studioso tra i due poli (quell’alternanza che invece è utilissima al lettore). Entrambi i metodi possono avere delle derive pericolose: se l’idea di una scienza della letteratura può degenerare e, di fatto, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso con gli epigoni dello strutturalismo, è degenerata in un concettismo che esclude il pubblico dei non specialisti, anche la critica della vita corre il rischio di diventare critica impressionistica. Vale a dire: una critica che si nasconde dietro affermazioni di gusto non sufficientemente motivate. Non è certo il caso né di Moretti, la cui analisi è sempre coinvolgente e variata, né dei maestri della critica della vita come, per fare solo qualche nome, Onofri, Berardinelli, Nigro e Ficara.

Questo breve elenco mi conferma in una mia idée fixe: la critica sono i critici e, al di là dei metodi e delle scuole, a contare sono soprattutto le intuizioni personali e i particolari modi in cui ogni metodo è declinato di volta in volta. Ha certo ragione Berardinelli quando scrive che la critica letteraria è “oggi più che mai un’attività da inventare”; sempre, naturalmente, che si abbia “la forza e la voglia di farlo”. Moretti è convinto che lo studioso della letteratura possa e debba imparare dal rigore dello scienziato e che il dialogo tra la letteratura e le scienze dure debba sempre rimanere aperto. Non potrei essere più d’accordo. Ma sono anche convinto che non si debba mai dimenticare che il dialogo della letteratura ‒  e quindi anche della critica ‒ è sempre anche con un lettore che, come ha scritto Onofri, “ha a cuore la sua esistenza”; un lettore che nel testo cerca “un crittogramma del suo destino”, ed è proprio questo destino che la critica della vita indaga e mette in luce. Di fronte alla progressiva marginalizzazione del discorso letterario nella società contemporanea abbiamo bisogno di tutte le bocche da fuoco disponibili.

______________________________________________

Opere citate e di riferimento:
Berardinelli, Alfonso. La forma del saggio. Marsilio, Venezia, 2008.
Moretti, Franco. The Bourgeois. Between History and Literature. Verso, New York, 2013
Moretti, Franco. Segni e stili del moderno. Einuadi, Torino, 1987.
Onofri, Massimo. La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo. Donzelli, Roma, 2007.
Palumbo Mosca, Raffaello. L’invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell’Italia contemporanea. Gaffi, Roma, 2014.
Il convegno La critica come critica della vita. Alle radici antropologiche e filosofiche della critica letteraria si è tenuto nei giorni 12 e 13 febbraio 2015 presso l’Università di Sassari. È prevista la pubblicazione degli atti. Il programma è visibile sul sito dell’università a questo indirizzo: http://www.uniss.it/php/proiettoreTesti.php?cat=204&xml=/xml/bacheca/bacheca15235.xml
Raffaello Palumbo Mosca è ricercatore di letteratura italiana presso la University of Kent in Inghilterra e si occupa prevalentemente del romanzo europeo contemporaneo e dei rapporti tra romanzo, etica e politica. Ha pubblicato saggi e articoli in riviste italiane ed estere (“Lettere italiane”, “Studi Novecenteschi”, “Nuovi Argomenti”, “Raison Publique”, “Modern Language Notes” etc.). Con L’invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell’Italia contemporanea (Gaffi, Roma, 2014) ha vinto il premio Tarquinia-Cardarelli per l’opera prima di critica letteraria. Dirige con Lorenzo Chiesa la Genoa School of Humanities (www.gsh-education.com). Collabora con “L’Indice dei libri del mese”, con il progetto Books in Italy (www.booksinitaly.it) e con la casa editrice Zanichelli.
www.raffaellopalumbomosca.comThis email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Web Analytics