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Su Reichelt e Rubin

di Paul Mattick

Recensione dei volumi di H. Reichelt, “The logical structure of the capital concept” e I. I. Rubin, “Studies on Marx’s theory of value, giugno 1974.

Poiché la filosofia di Hegel riflette e sistematizza lo sviluppo storico della società capitalista e in parte si relaziona direttamente con l’economia classica, il capovolgimento operato da Marx della dialettica idealistica per mezzo della concezione materialistica della storia era la concretizzazione dello sviluppo  delle leggi del capitale così come era stato rilevato da Hegel. Ciò che Hegel aveva rivestito di considerazioni filosofiche e idealistiche Marx lasciò spoglio nel linguaggio dell’economia e le sue sottostanti relazioni sociali. La dialettica di Marx può ad esempio essere rinvenuta ne “Il Capitale”, poiché il capitale trasforma le relazioni sociali in una dialettica. Proprio come Marx scrisse una volta a Kugelmann, che non è necessario provare il concetto di valore, poiché l’analisi delle condizioni reali lo esibisce essa stessa, la dialettica non richiede alcuna specifica trattazione, dato che, come Reichelt dichiara, “è impossibile presentare il metodo marxiano prescindendo dal suo oggetto”.

Proprio perché le cose stanno così, non vi è contraddizione tra l’originario modo di esprimersi dei Grundrisse, di carattere filosofico e dialettico, e il linguaggio usato ne “Il Capitale”. Il “Primo Abbozzo” fu scritto per il chiarimento con se stesso del Marx che stava uscendo dalla filosofia. “Il Capitale” si rivolgeva al pubblico e la sua terminologia era stata emendata in conseguenza, senza mutare il metodo o il suo oggetto e la sua unità. Il libro di Reichelt è un significativo contributo al chiarimento di questi fatti, specialmente nel respingere l’idea che la dialettica sia semplicemente un metodo cui è possibile accedere in quanto strumento utile alla comprensione esteriore dei contenuti più disparati.


Reichelt inizia con lo sviluppo in Marx della concezione materialista della storia e indica i suoi difetti costitutivi ancora presenti in origine, che possono essere superati solo attraverso la conoscenza delle reali condizioni di esistenza del capitalismo, quali l’abuso di una eccessiva divisione del lavoro come elemento determinante dell’alienazione, la proprietà privata e la società di classe. Reichelt indica altresì le difficoltà che Marx incontra nell’afferrare la natura del sistema capitalista nei suoi svariati aspetti particolari e la soluzione del problema che per lui scaturisce dal focalizzare il discorso  sulla “nozione  generale di capitale”: Tuttavia Reichelt sottolinea correttamente “che tale idea non costituiva una riduzione superficiale, ma era considerata da Marx come un trattazione del problema del tutto adeguata”.

Marx scrisse “Il Capitale” in stretta correlazione con la teoria classica perché questa è la teoria del capitale ed esso sta o cade con questa. “A rigor di termini,” scrive Reichelt, “solo in una società borghese vi può essere  teoria economica; una teoria economica di una società socialista è una contraddizione in termini”. La specificità dell’economia capitalista è costituita dalla maschera che occulta gli effettivi rapporti di produzione mediante rapporti di scambio, sebbene abbiano anche essi stessi reale importanza, ma solamente sulla base del lavoro sociale nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti. La critica di Marx al sistema capitalistico non è critica delle sue categorie economiche ma delle loro sottostanti relazioni sociali, che possono essere abolite solo abolendo tali condizioni, non criticando l’economia. Tuttavia, dimostrare il mero carattere storico del capitale richiede lo studio delle sue leggi di movimento e quindi una completa analisi dei processi economici capitalisti.

Il rifiuto rivoluzionario del sistema capitalistico espresso da Marx è preceduto dalle sue polemiche con gli esponenti dell’economia classica. L’esistenza stessa del proletariato, dello sfruttamento, della concorrenza, dell’accumulazione mostra di per se stessa le contraddizioni inerenti al capitalismo, ma senza in tal modo evidenziarne le conseguenze sul piano storico. La ricerca dell’antagonismo fondamentale che determina il movimento del capitale, condusse Marx a  una trattazione dell’economia capitalista che scende fin nei particolari, cioè come essa si relaziona con il mondo reale, sebbene in modo capovolto e nell’ambito di una falsa coscienza.

Reichelt espone la critica marxista dell’economia borghese per mezzo di esempi del suoi rapporti  con i fisiocrati, A. Smith e D. Ricardo. Dopo una descrizione del rapporto tra metodo logico e metodo storico in Marx, si rivolge alla teoria marxiana del valore per evidenziare la qui spesso trascurata relazione tra valore come tempo di lavoro e teoria della moneta. La legge del valore viene dedotta come necessità della divisione sociale del lavoro, che può essere realizzata nelle condizioni relative alla produzione di merci solo se “i vari prodotti agiscono come espressioni qualitativamente differenti di una stessa apparente unità”.

Tuttavia la teoria del valore-lavoro non si esaurisce  con la divisione del lavoro sociale nella produzione di merci poiché la merce forza-lavoro viene scambiata solo apparentemente, poichè in realtà viene appropriata dal  capitalista senza essere pagata.

La divisione del prodotto sociale in valore e plusvalore indica che, dietro le relazioni di valore si nasconde non solo  la necessità derivante dalla divisione sociale del lavoro ma anche le relazioni di classe capitaliste. Per questo motivo l’inconscia divisione sociale del lavoro non riguarda le proporzioni delle relazioni economiche per sé ma concerne la divisione del lavoro finalizzata alla riproduzione dei rapporti di classe, e così anche la divisione del lavoro finalizzata all’accumulazione è pertanto relativa a una divisione del lavoro sociale del tutto particolare  istituita non per realizzare la proporzionalità socialmente necessaria in quanto tale, ma la particolare proporzionalità necessaria al capitale, da dove nascono tutte le contraddizioni dello sviluppo capitalistico. Sfortunatamente Reichelt non elabora questa connessione, per cui la sua interpretazione della teoria del valore è riferita principalmente ad una immaginaria produzione di merci, non alla produzione di merci capitalista.

Reichelt paga lo scotto per questa sua negligenza anche nelle sue considerazioni, per quanto fugaci, sulla crisi, la cui origine viene da lui individuata nella “contraddizione tra produzione e consumo sotto i rapporti capitalistici,” o nello “sviluppo delle forze produttive e la limitazione del consumo”. Se così fosse la teoria marxista della crisi sarebbe solamente un plagio della teoria della crisi sismondiana, e gli odierni keynesiani “di sinistra” sarebbero nient’altro che fautori della teoria marxista della crisi. Ma poiché la teoria marxista dell’accumulazione e della crisi come dinamica del capitale non viene sviluppata da Reichelt, non è possibile determinare come egli ricavi le leggi di movimento del capitale dalla teoria del valore, che sta alla base del concetto di capitale. Nondimeno il libro di Reichelt è un interessante contributo al marxismo.


Anche gli studi di I. I. Rubin sulla teoria del valore di Marx pongono dei limiti a se stessi, cioè quelli sulla teoria del valore stessa. Per Marx la teoria del valore è una chiave per comprendere il capitale e le sue leggi di movimento, sebbene anche qui, come Reichelt sottolinea in un altro contesto, il metodo non può essere separato dal suo oggetto. Dietro i rapporti di valore sono occultati gli effettivi rapporti di produzione dai quali dipendono le leggi di movimento del capitale. Nondimeno, l’oggetto di cui si occupa il marxismo rimane il capitale e la teoria del valore lo strumento adeguato a padroneggiare tale oggetto.

Come nel saggio di Reichelt, l’interpretazione di Rubin  della teoria del valore è fondata  sulla summenzionata lettera di Marx a Kugelmann, dove l’imprescindibilità della distribuzione proporzionale del lavoro sociale è evidenziata. Pertanto la teoria del valore appare come una teoria dell’equilibrio sociale ed è diversa della teoria borghese dell’equilibrio solo in quanto invece di relazioni di prezzo soggettive si parla di rapporti di valore oggettivi. Questo è il motivo per cui Rubin fonda il suo discorso non solo sulle frettolose considerazioni di Marx, ma in misura molto maggiore sulle idee di Rudolf Hilferding, per il quale la legge del valore costituiva solo una diversa formulazione della concezione materialista della storia, che si riferisce al legame che vincola la società al lavoro e alla sua allocazione razionale.

“Poiché Marx prende le mosse dal lavoro umano,” egli mostra, secondo Rubin, “che in una società produttrice di merci il lavoro conduce necessariamente ad una forma di produzione di merci caratterizzata dal valore. Certamente il capitalista e il lavoratore sono coordinatati l’uno all’altro dai rapporti di  produzione. Tuttavia “essi stipulano contratti l’uno con l’altro come produttori di merce formalmente uguali”. Rubin sembra trascurare il fatto che il lavoratore “scambia” con capitale non una merce ma la sua forza lavoro, che è essa stessa, in quanto plusvalore accumulato, suo proprio prodotto. In altre parole, che in realtà non vi è qui alcuno scambio ma solo la parvenza di esso, realizzata mediante il controllo capitalistico dei mezzi di produzione. Nello sviluppo del concetto di valore Rubin fa così riferimento anche alla cosiddetta e all’epoca inesistente “produzione semplice di merci”, che allora è contrapposta alla produzione di merci capitalista. Ma per lui l’equilibrio economico determinato dalla legge del valore continua ad esistere anche nella produzione capitalistadi merce, sebbene con la “differenza che il bilanciamento oggettivo nella distribuzione del lavoro sociale deriva dalla concorrenza”, cioè mediante i prezzi di produzione, non mediante i valori. Così per Rubin resta vero che “il bilanciamento e la distribuzione del lavoro sono alla base del valore e dei suoi mutamenti, sia nella produzione semplice di merci che nella società capitalista. Questo è il significato della teoria di Marx del valore lavoro”.

D’altronde Rubin osserva tuttavia che “Marx non si stanca di ripetere che il valore è un fenomeno sociale, che l’oggettività del valore è ‘puramente sociale’ e che non un solo atomo di natura entra in esso.” Pertanto secondo Rubin il lavoro astratto, creatore di valore, può essere compreso come una categoria sociale nella quale ogni elemento materiale è assente. Se è così  risulta inesplicabile come la legge del valore porti con sé quell’equilibrio tanto enfatizzato da Rubin e fondato su reali rapporti di quantità di lavoro. Tuttavia, da un punto di vista astratto, il tempo di lavoro si manifesta nella produzione e la produzione complessiva deve corrispondere alla divisione del lavoro sociale specificamente capitalista. L’oggettivazione del valore implica una produzione, per cui il valore dei prodotti naturali e del lavoro non può in essi  mancare, sebbene il valore in quanto tale non possa essere né l’uno né l’altro. Ciò che Rubin tenta di affermare è che  nella produzione di merci i beni  devono prima di tutto assumere il loro carattere di valore realizzato in quanto merci, e che questo tuttavia non è una esigenza della produzione, a una peculiarità che sorge unicamente dalla produzione di merci. In tal senso il valore è un fenomeno puramente sociale, in quanto svanirebbe  sotto altre condizioni sociali, senza che però in tal modo  l’ “economia del tempo” cessi di regolare i bisogni sociali.

Rubin identifica lo sviluppo teoretico del concetto di valore in Marx con la legge del valore che attualmente domina il sistema capitalistico. Se Marx, riferendosi al materialismo storico, prende in considerazione anche il “lavoro umano”, in rapporto al capitalismo intende il lavoro salariato capitalistico. E sebbene Marx derivi il valore dai rapporti di scambio e chiarifichi la questione per una immaginaria ”pura produzione di merci”, ciò non può essere separato dagli attuali rapporti di produzione capitalistici. Ma l’adesione di Rubin ad un concetto di valore in quando posto esclusivamente dallo scambio, si spiega con il fatto che egli vede nella legge del valore un meccanismo di bilanciamento. “nella produzione di merci non pianificata”, scrive, la legge del valore determinata dal lavoro astratto gioca “il ruolo che il lavoro socialmente equiparato gioca in una società socialista deliberatamente pianificata.” Pertanto la legge del valore costituisce per Rubin una regolazione incoscia dell’economia che, mentre nel socialismo va verso la fine, viene sostituita da un piano che rende cosciente ciò che viene svolto inconsciamente nelle produzione di merci.

Dal fraintendimento della teoria del valore in quanto meccanismo di bilanciamento derivano una serie di errate interpretazioni della teoria di Marx che qui non verranno ulteriormente prese in considerazione. Detto questo, il libro di Rubin contiene anche molte riuscite esposizioni di aspetti particolari della teoria del valore, per cui la sua lettura è raccomandabile. Ma  la trattazione dal punto di vista dell’equilibrio e la stretta identificazione del materialismo storico con la teoria del valore impedisce a Rubin la trattazione degli attuali problemi del capitale, come quelli dell’accumulazione e della teoria della crisi. Già l’introduzione di Annette Neususs-Fogen indica le debolezze del libro, secondo la quale, sebbene la teoria del valore lavoro sia l’oggetto di questi studi, sorge il dubbio “se il modo di presentazione del contenuto  non colga il significato della teoria del valore.” Occorre rilevare che l’edizione con la traduzione dall’americano al tedesco è stata drasticamente ridotta e che le parti omesse sono fra le migliori del libro.

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