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Perchè nell'opera di Marx non c'è una teoria della democrazia

di Roberto Finelli

Sul piano pragmatico della storia sociale e politica, almeno di tutto il ’900, il movimento operaio dell’Occidente ha costantemente intrecciato i valori dell’eguaglianza e della giustizia sociale propri del marxismo con quelli della libertà e dell’autodeterminazione politica propri della tradizione democratica. Invece va detto che sul piano propriamente teoretico e categoriale il concetto e il termine di «democrazia» rimangono sostanzialmente estranei all’opera di Marx. Questa estraneità categoriale, se pone dei problemi al marxismo, pone contemporaneamente dei problemi alla democrazia. Soprattutto oggi che, la realtà della globalizzazione, con un curioso effetto di après coup, di Nachträglichkeit, dà valore di verità alla scelta teorica e scientifica di Marx di aver concettualizzato come protagonista egemonico del moderno l’economico e il suo intrinseco eccesso, a danno di quell’autonomia e capacità di costruire realtà che, in modo troppo presuntivo e ideologico io credo, è stata attribuita al politico soprattutto nell’ultimo trentennio dalla maggioranza della filosofia sociale e politica.

Lo scopo di questo mio intervento è quello di svolgere alcune riflessioni sulle ombre e sui limiti, ma paradossalmente, anche sui meriti e sulle luci del vuoto democratico nell’opera di Marx. Da questo punto di vista dividerò la mia esposizione in due parti, la prima dedicata al rapporto tra il non-essere della democrazia e il giovane Marx, la seconda tra l’assenza della democrazia e il Marx del Capitale.


«Junghegelianismus» ed effetti fusionali-simbiotici della «Gattungstheorie»

Fino alla sua permanenza in terra tedesca nell’ottobre del 1843 il giovane Marx è iscritto, dalla tradizione esegetica, nel ruolo, presocialista, dei teorici della democrazia radicale.

E non a torto se si guarda la lettera del suo scrivere ancora tedesco in terra tedesca. «La democrazia - così scrive il giovane Marx in un celebre passo di Zur Kritik des hegelschen Staatsrechts - è l’enigma risolto di tutte le costituzioni. Qui la costituzione non solo in sé, secondo l’essenza, ma secondo l’esistenza, secondo la realtà è ricondotta continuamente nel suo fondamento reale, l’uomo reale, il popolo reale e posta come sua propria opera». Tutti gli articoli, della Rheinische Zeitung ne fanno del resto testimonianza, gustosa e intelligente, di teorico di una libertà moderna postständisch, passata attraverso la Rivoluzione francese e critica perciò dei privilegi dei ceti e dell’autoritarismo burocratico dei regnanti. Ma se, al di là della lettera, si guarda cosa ci sia dietro questa celebrazione marxiana della democrazia, ci si accorge di quali pesanti presupposti di antropologia metafisica siano a principio del discorso marxiano e come subito lo chiudano, anzi propriamente neppure riescano ad aprirlo, su un piano di concreta articolazione istituzionale-politica.

Infatti il soggetto della democrazia è per Marx indubbiamente il popolo (das Volk), ma un popolo con una forte identità olistica e organicistica, il cui carattere antindividualistico è determinato da un singolare intreccio di motivi feuerbachiani ed hegeliani. Anche per Marx, come per Feuerbach, gli individui, in quanto esseri umani partecipano di un’essenza comune, partecipano del genere umano e, come tali, compongono «il gran Santo, l’Umano Santo». Ma la curvatura universalistica della Gattung di Feuerbach si traduce per Marx nella soggettività collettiva di un Volk che, hegelianamente, si possiede come soggetto libero e universale solo se diviene consapevole di sé rispecchiandosi e riconoscendosi in oggetti e attività di natura universale. Quando un popolo non produce predicati universali, non può riconoscersi come soggetto organico e unitario della vita e allora non si dà «Volk» ma «Privatpöbel», plebe privata, quale un ammasso di individui la cui identità, anziché propriamente umana, è solo naturale, legata al soddisfacimento di bisogni egoistici e privati. Invece la vita del Volk è quella di prodursi costantemente come Volksgeist, cioè come insieme di manifestazioni, non economico-materiali ma spirituali, in cui il popolo, superando ogni egoismo privato, riflette e guarda a se stesso dalla prospettiva dell’universalità. «Stampa» (Presse), che esprima in modo libero e appunto universale la realtà oltre ogni censura di parte, «diritto» (Gesetz) che al di là del formalismo giuridico sia l’autosvolgimento concettuale del contenuto organico della realtà stessa, «Stato» (Staat) come istituzione in cui il popolo riconosce più che altrove la propria unità di soggetto collettivo, sono così per il giovane Marx, democratico e presocialista, gli ambiti del riconoscimento e del rispecchiamento più elevati di un Volk che si realizza come Volksgeist.

Dove è chiaro che per Marx il significato di Volksgeist è lontano dall’analogo concetto d’ispirazione romantica, che rimanda alla forza primigenia, ma latente, di ogni vita nazionale. Per i romantici il Volksgeist è principio genetico che rimane inattingibile e indeterminato nella sua originarietà. Esso spiega lo svolgimento storico di un popolo ma non è riducibile, perché inesauribile, ad alcuna sua manifestazione e realizzazione, quand’anche la più caratterizzante possibile. Mentre in Marx il Volksgeist acquisisce e mantiene un’inconfondibile carattere di autoriconoscimento e di mediazione speculativa hegeliana. Il Volksgeist è per Marx risultato, termine di un processo di superamento del naturale, di un processo di cultura che implica la maturazione di una prospettiva universalizzante e unificante. Senza per altro dimenticare che questo Marx, profondamente influenzato anche dall’organicismo di Feuerbach, sceglie come percorso del divenire, e specificamente del giungere a coscienza di sé di un popolo nello Stato, quello tipicamente feuerbachiano dell’emanazione-oggettivazione, dell’oggettivarsi cioè nelle sue opere determinate di un soggetto presupposto come principio sostanziale e totalizzante del reale: di quel modulo cioè di soggetto-predicato che Hegel ha sempre rifiutato perché basato su una logica analitica dell’identità che rifiuta un divenire fatto di contraddizioni, scarti e non coincidenza di un soggetto con sé stesso. Del resto ciò che fa maggiore problema in questa teoria giovanil-marxiana del Volk come Volksgeist è proprio il peso dell’eredità della Gattung di Feuerbach nella definizione dell’identità del principio ontologico e antropologico di Marx: ossia il fatto che tra io e tu, tra io ed altri, nella comunanza d’essenza della Gattung o nell’unità del Volk, non si dà mai discontinuità o frattura, bensì solo continuità e integrazione.

Giacché è appunto la medesima caratteristica d’identità d’essenza la quale, nel momento in cui garantisce l’unità del Gattung/Volk, ne impedisce nello stesso tempo qualsiasi articolazione e differenziazione istituzionale e sociale, giacché qualsiasi forma di rappresentanza, qualsiasi autonomia del potere statale, qualsiasi funzione legislativa, amministrativa, giudiziaria con un suo spessore di consistenza e di struttura permanente, significherebbe separatezza e negazione dell’organicità del Volk. «Essere rappresentato è in genere qualcosa di passivo - scrive Marx nella Rheinische Zeitung -; solo ciò che è materiale, privo di spirito, schiavo, malsicuro, ha bisogno di una rappresentanza»1. L’istituzione della rappresentanza è per Marx è un istituto della scissione, della frattura di un popolo in rappresentati e rappresentanti, in società civile e Stato politico. Ne consegue la tematizzazione marxiana dell’estinzione dello Stato, giacché se la rappresentanza deve essere concepibile propriamente come autorappresentanza, in cui tutti, o ciascuno, rappresentano tutti, lo Stato come Stato politico deve decadere e venir meno. Ma non solo il topos dell’estinzione dello Stato deriva in Marx dalla metafisica organicistico-feuerbachiana del Volk. Anche la sua critica del diritto moderno come diritto dell’uomo proprietario ed egoista, così come la sua immagine del cielo della politica in cui si ricomporrebbe solo idealmente l’atomismo della società economica, derivano da una lettura della Rivoluzione francese alla luce di un’antropologia organicistica. Ciò che mette in scena il giovane Marx è, infatti, da un lato una società civile moderna vista, in modo paradossale per come evolverà poi il pensiero del Marx maturo, come fondata sul principio dell’individualismo e della concorrenza di ciascuno contro tutti, e dall’altro uno Stato ridotto a mera funzione fantastica e idealizzata dell’unità di genere frantumata appunto nell’individualismo della società civile. È una rappresentazione del moderno fondata non su relazioni od opposizioni di classe ma sulla contrapposizione di Individualismus versus Universalismus. Anche se va detto, almeno a mio avviso, che tutto lo Junghegelianismus ha sofferto di questa polarizzazione, valorizzando ora il polo dell’individualismo ora quello dell’universalismo, senza sapersi mantenere all’altezza della mediazione tra i due estremi ricercata da Hegel.

Ma la questione dell’impossibilità da parte del soggetto collettivo del giovane Marx di accogliere nella sua identità ontologica e antropologica la differenza non si limita all’impossibilità di pensare il politico e di conseguenza la politica. Il Gattungseffekt di Feuerbach ha conseguenze inconsapute ma durevoli nell’opera di Marx. E opera a mio avviso nella troppo facile e ingenua identificazione del proletariato come soggetto unitario e comune, proprio perché, escluso dalla proprietà privata, sarebbe stato spoglio per principio di quell’egoismo che invece affetta il borghese e il suo individualismo antisociale. Dove non è difficile sottolineare il troppo semplice manicheismo tra il valore assoluto del comune e il disvalore del privato in cui cade la teoria sociale ed etico-politica di quel primo Marx. Così come continua a operare, il Gattungseffekt feurbachiano, nella filosofia marxiana della storia quale filosofia della prassi materiale, dove troppo facilmente viene dato per presupposta una soggettività collettiva e comune quale soggetto del lavoro e quale protagonista, attraverso il succedersi delle generazioni, dello sviluppo delle forze produttive dell’umanità. Quello che voglio dire è che le aporie, le difficoltà di riuscire a concepire la democrazia, lo Stato, il diritto, a causa di un umanesimo poco controllato, si sono spostate, senza poter essere affrontate e risolte, nel contenitore di un soggetto del socialismo esposto a una fusione che espelle radicalmente da sé il privato o nel contenitore di un soggetto prometeico della prassi materiale che è per principio soggetto collettivo e comune.

È insomma il valore e la messa a tema dell’individuale che sono completamente assenti dal primo Marx, non solo di quello della Rheinische Zeitung e della Kritik del 1843 ma anche di quello che identifica il proletariato come soggetto universale perché comunemente universalmente escluso dalla proprietà privata. Né c’è l’individuo nella valorizzazione storico-materialistica della prassi materiale, perché il soggetto del lavoro e dello sviluppo delle forze produttive è per definizione collettivo e unito nella cooperazione. L’individuale è il disvalore, come del resto accade nell’antropologia della menschliche Gattung di Feuerbach, che traduce in termini umanistici quella rinuncia al sé individuale che il giovane Feuerbach nei suoi studi giovanili aveva trovato valorizzata nella teologia dell’Entsagung, nella teologia dell’abnegazione, di Carl Daub. E questo deficit originario d’individualità ci dice quanto sia l’impianto teorico del primo Marx quanto quello di Feuerbach siano inferiori, e perciò subalterni, all’orizzonte pratico-antropologico di Hegel e alla sua necessità di far valere accanto al principio dell’universale quello dell’individuale.


Trasfigurazioni del dominio (Herrschaft) nella democrazia moderna

Ora, passando alla seconda parte del mio intervento, vorrei rovesciare la medaglia. Vorrei cioè mostrare come l’estraneità di Marx a occuparsi su un piano istituzionale e politico storicamente concreto di democrazia si traduca nel Marx del Capitale in una critica positiva della democrazia. Positiva, perché non deriva non dalla metafisica organicistica e presupposta del Gattung-Volk, bensì dal deficit strutturale di riconoscimento e dall’insorgenza di situazioni di Herrschaft, di dominio, che il moderno patisce, e nello stesso tempo occulta, nello snodo tra orizzonte democratico del denaro e orizzonte, invece, tecnologico e autoritario, del capitale.

Per il Marx del Capitale il denaro è l’orizzonte della democrazia, in quanto vettore di socializzazione tra liberi dal dominio ed eguali. La funzione principale del denaro in quanto denaro, e non del denaro in quanto capitale, è infatti per lui quella di essere equivalente generale. Per cui quando gli individui stringono relazioni tra loro mediate dal denaro, si riconoscono tra loro come equivalenti ed eguali. «In quanto soggetti dello scambio, - scrive Marx nei Grundrisse - la loro relazione è quella dell’eguaglianza. È impossibile rilevare una qualsiasi differenza o addirittura tra di essi, e neppure una diversità». All’opposto tale riconoscimento e tale isonomia viene meno quando si istituiscono rapporti sociali non mediati dal denaro. Per l’assenza della mediazione del denaro l’isonomia cede al dominio, all’Herrschaft. È quanto per Marx accade in quel segmento fondamentale della relazione tra capitale e lavoro che si svolge non nell’orizzonte pubblico e aperto del mercato ma nell’orizzonte chiuso e privato del mercato. Tra le fonti che Marx ha a disposizione per studiare il processo lavorativo come relazione tra persone non mediata dal denaro ma mediata dall’Herrschaft c’è, come prima fra tutte, la tradizione della Technologie e del Kameralismus tedeschi. Ricordo che in un quaderno di estratti del 1851 il Marx che lavora il British Museum fa delle sintesi storico-tecnologiche delle opere di due tardocameralisti fondamentali nella storia della cultura politica e tecnologica della Germania del ’700 come Johann Beckmann e il suo allievo H. M. Popp.

Il cameralismo è un sistema di pensiero e di pratiche politico-giuridico-amministrative che fiorisce nei paesi tedeschi in particolare nella prima metà del XVII secolo. Legato alla Camera, in lingua latina, o alla tedesca Kammer, dove si conserva il tesoro del principe, raccoglie e sviluppa l’insieme minuzioso delle regole governative e amministrative attraverso le quali il principe assicura ordine e benessere ai suoi sudditi. La Cameralwissenschaft è l’insieme delle norme che caratterizzano la gestione insieme illuminata e paternalistica di uno Stato patrimoniale, in cui non c’è distinzione tra amministrazione del patrimonio del principe e amministrazione dello Stato. Ed è appunto la scienza giuridico-amministrativa, insegnata nelle Università tedesche a partire da Göttingen, che deve preparare i burocrati attraverso cui il principe governa un Polizeystaat, o Stato di Polizia, dove Polizey indica, non l’insieme moderno degli strumenti di repressione, ma, con riferimento al significato classico del termine, la cura del bene collettivo. Nel superamento di una altständi-sche Gesellschaft, iscritta ancora nell’orizzonte medioevale e premoderno, lo Stato cameralista è l’espressione di una lotta vittoriosa di un potere che si fa centralizzato e monopolista rispetto alla molteplicità di poteri e di fonti giurisdizionali di una società cetuale. E, diversamente dal futuro Stato liberale, ha come finalità attraverso una politica massicciamente interventista, più che la libertà dei sudditi, il loro Wohlfahrt, il loro benessere, come vuole il nesso paternalistico figli-padre.

La Technologie è un ramo fondamentale della Cameralwissenschaft ed è costituita dall’insieme di competenze che spettano al burocrate cameralista per organizzare nel modo più efficace i processi di lavoro e di produzione di beni, considerandoli, si noti bene, come l’assemblaggio di cose che devono essere ben composite e regolate. La Technologie ha per Bechmann e Poppe, ma anche per Marx, lo status delle scienze naturali (Beckmann è allievo di Linneo) nella misura in cui esclude dal processo di lavoro la presenza di comportamenti e di variabili soggettive, studia la produzione come una combinazione di cose, le cui regole di funzionamento sono sotto il controllo e il dominio del solo scienziato-burocrate cameralista. Il Marx della maturità rigetta, com’è ovvio, il cameralismo come sistema politico-amministrativo paternalistico e premoderno, ma accoglie la Technnologie come scienza moderna del processo di lavoro, appena questo cessa di essere considerato dal punto di vista del prometeismo della prassi e viene considerato dal punto di vista del capitalista di ridurre costantemente il lavoro vivo a lavoro disciplinato, normato ed astratto. Come scrive chiaramente nel primo libro del Capitale: «Il principio dell’industria moderna, che è quello di risolvere ogni processo di produzione nei suoi elementi costitutivi e senza riguardo alcuno alla sua possibile realizzazione per mezzo della mano dell’uomo, ha creato la nuova scienza della tecnologia».

Technologie va distinta da Technik, almeno nel contesto tedesco, pur se lo stesso Marx non usa sempre questi termini nella corretta distinzione. Ma si può sottolineare nelle pagine soprattutto del Capitale l’uso di Tecknik come termine maggiormente riferito alla relazione tra forza-lavoro e strumento di lavoro, in quanto insieme di mezzi di cui il lavoratore dispone per eseguire il proprio compito, e l’uso invece di Technologie come termine riferito alla descrizione del processo di lavoro in quanto processo naturale-oggettivo privo dell’intervento attivo della soggettività di attori sociali. Così la dislocazione che Marx compie dell’orizzonte naturalistico della Technologie dalla Cameralwissen-schaft e dal Polizeystaat al capitalismo e alla grande industria gli consente di abbandonare l’umanesimo della filosofia della prassi della Deutsche Ideologie e di inaugurare uno studio del processo di lavoro moderno in cui l’uso capitalistico della forza-lavoro, il suo uso e consumo, è istituito e attraversato dalla dimensione del dominio, dove per principio non entra la democrazia e la relazione reciproca tra soggettività. La produzione di lavoro astratto - il fatto cioè che a ogni nuova generazione di lavoratori gran parte delle conoscenza, delle decisioni tecniche e dell’apparato disciplinare siano poste fuori del controllo della persona che concretamente effettua il lavoro - appare quindi la categoria centrale del sistema teorico di Marx. Perché spiega sul piano economico l’origine reale, praticamente vera, della teoria del valore-lavoro in quanto basata su lavoro astrattamente eguale, e nello stesso tempo sul piano giuridico-politico il deficit strutturale, e insuperabile nel capitalismo, di democrazia. Ma paradossalmente proprio questo che è il luogo massimo del disconoscimento sociale per Marx è stato a sua volta profondamente disconosciuto nella storia dei marxismi europei, caratterizzata più da un’adesione al prometeismo di Marx e all’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive che non dall’inaugurazione di una sociologia critica del processo di lavoro. Basti pensare alla IIª Internazionale, alla singolare mescolanza da parte di Lenin tra Marx e Taylor, alle pagine, pure acute e intelligenti, di Gramsci su Americanismo e fordismo, nelle quali l’automatismo del lavoro a catena diviene addirittura un’occasione per la liberazione della mente.

Ma la coincidenza semantica che Marx ha posto tra Technologie e uso capitalistico della forza-lavoro non viene rivelata neanche dalla autori della scuola storica tedesca, né di prima né di seconda generazione, come Knies, Schmol-ler e Weber. In questi autori l’uso del termine Technologie scompare progressivamente a favore di quello di Technik e in particolare con Weber il termine Technik definisce l’insieme di mezzi che intervengono in ogni tipo di attività razionale. Nelle opere di Weber, mentre il termine Technik è onnipresente, quello di Technologie compare all’incirca dieci volte. E appunto Technik assume un valore né economico né sociologico, quanto a sociologia del processo di lavoro, bensì culturale. Nel senso che, una volta scelto come possibile comportamento di valore l’agire razionale rispetto allo scopo rispetto ad altre forme possibili di azione, la scelta dei mezzi più appropriati, calcolati secondo il minimo costo e il massimo risultato, è ciò che Weber definisce come un problema tecnico. Technik è sinonimo dunque in Weber di calcolo razionale e concerne un rapporto tra qualsiasi soggetto dell’agire razionale e i suoi mezzi d’azione. È divenuta una categoria di valore culturale, un segmento di un idealt-tipo dell’agire umano, che concerne più il rapporto soggetto-oggetto, uomo-natura, che non il rapporto uomo-uomo. Dove è evidente che in questa dilatazione di senso del termine e attraverso la sua collocazione di senso nell’ambito della scelta soggettivo-culturale tra diversi valori spirituali, ciò che viene meno è l’attenzione marxiana alla diversità degli attori sociali che entrano in gioco nel processo di lavoro.

Nella cultura tedesca a cavallo tra ’800 e ’900 la coppia semantica Technolo-gie/Technik vede la diffusione sempre più ampia del lemma Technik nell’accezione weberiana. Con l’eccezione di Schumpeter che nella sua Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung torna a leggere la Technik come l’azione di uno specifico e nuovo attore sociale, quale l’imprenditore, che si distingue dal capitalista, proprietario del capitale, e la cui azione consiste nella costante innovazione, quale capacità di combinare in modo sempre nuovo materie prime, macchine e lavoratori all’interno del processo produttivo, per competere sul mercato con gli altri capitalisti. Ma è appunto, nella cultura tedesca, la semantica weberiana di Technik a guidare la diffusione e la generalizzazione del termine. E tecnica sta qui a significare, non la specificità del processo capitalistico di lavoro con la sua asimmetria costitutiva di ruoli sociali, ma insieme di mezzi a disposizione di un attore che calcola razionalmente, indipendentemente da particolari sistemi di credenze. Mezzi di un soggetto che, per la loro crescita, la loro progressiva concatenazione e il loro gigantismo, possono farsi essi soggetto e condurre a morte la cultura dell’Occidente. Sembra quasi superfluo aggiungere che la concezione heideggeriana della tecnica che trova in questo contesto semantico le sue radici non ha nessun punto né di conoscenza né di contatto con la concezione del Max maturo riguardo al processo di lavoro. Semmai ha punto di contatto critico con il prima Marx, teorico della praxis e dello sviluppo delle forze produttive. Ma nella teoria matura della Machinerie per Marx la macchina non è concepibile come una cosa, come un oggetto o mezzo di lavoro a disposizione di un soggetto produttore. La macchina è bensì sempre intrinsecamente connessa e correlata alla forza-lavoro, in una connessione che dà vita a un sistema organico di macchine e forza lavoro, che, come produce beni e merci vendibile e scambiabili, produce nello stesso tempo soggettività lavorative astratte e subalterne, ossia la soggettività capitalistica di massa.

Così nella produzione di lavoro astratto - in tale vuotezza d’esistenza e d’individuazione - viene meno il riconoscimento democratico per Marx. Ma il limite, come sappiamo da Hegel, non separa mai le questioni e gli ambiti, bensì li connette e li unisce. Vale a dire che la questione fondamentale della democrazia, quale il Marx del Capitale l’ha implicitamente formulato, non è quella di un potere politico che dall’esterno possa condizionare il sistema macchine-forza lavoro bensì è quello dell’estensione del diritto e del dovere del reciproco riconoscimento che possa spezzare la produzione di lavoro e di soggettività astratte. Ben al di là dunque di ogni distinzione tra agire comunicativo e agire strumentale.

Per concludere io credo che l’eredità che Marx ha lasciato alla tradizione democratica europea non si limiti al lascito negativo di una critica estremistica del diritto e dello Stato come luoghi solo di un’eguaglianza formale e apparente ma includa soprattutto il limite interiore, strutturale e sempre più espansivo, che il lavoro astratto e il suo vuoto d’individuazione pone al politico moderno e alla sua capacità, effettiva o meno, di autonomia. Il Marx del Capitale ha individuato nelle astrazioni economiche, e non in quelle politiche, la capacità di generare i nessi moderni di socializzazione. Tale dislocazione dell’astratto dal giuridico-politico all’economico, che ha luogo nel passaggio di Marx dal pensiero della giovinezza a quello della maturità, continua a bussare alla porta e a porre problemi ai teorici della democrazia e dell’autonomia del politico.

* Facoltà di Lettere e Filosofia Università Roma Tre

1 K. Marx, La Allgemeine Zeitung sui comitati dei ceti in Prussia, tr. it. di L. Firpo rivista da N. Merker, in Meoc, I, p. 313.

 

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