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Tale Quale

in «Théorie Communiste», n. 24, dicembre 2012

«Il viso di Garbo esprime un'Idea, quello di Hepburn un Evento.»
Roland Barthes, “Il viso di Garbo”, in Miti d'oggi

Il momento rivoluzionario come congiuntura

Leggere Lenin (le Tesi d'Aprile, le Lettere da lontano, in generale tutti i testi scritti tra febbraio e ottobre 1917) come si legge Machiavelli, Clausewitz o Sun-Tzu, né più né meno: un teorico del momento decisivo dei conflitti, ovvero un teorico della congiuntura, del “momento attuale”. È rimasta buona usanza citare Machiavelli, Clausewitz o Sun-Tzu, allorché il primo era al servizio dei principi italiani, l'altro del re di Prussia, e il terzo... allora perché non Lenin?

«Né la natura né la storia conoscono miracoli; ma ogni brusco tornante della storia, e in particolare ogni rivoluzione, offrono una tale ricchezza di contenuto, mettono in gioco delle combinazioni così inattese e così originali di forme di lotta e di rapporti tra le forze in campo che, ad uno spirito angusto, molte cose devono ben sembrare miracolose.» (Lenin, Lettere da lontano).

«[…] in ragione di una situazione storica di un'estrema originalità, delle correnti assolutamente differenti, degli interessi di classe assolutamente eterogenei, delle tendenze politiche e sociali assolutamente opposte si sono fuse con una “coesione” rimarchevole.» (ibid.)

«La prima rivoluzione (1905) ha profondamente smosso il terreno, ha sradicato pregiudizi secolari, svegliato alla vita politica e alla lotta politica milioni di operai e decine di milioni di contadini, ha svelato agli uni e agli altri e al mondo intero tutte le classi (e i principali partiti) per la loro reale natura, i rapporti reali fra i loro interessi, le loro forze, i loro metodi d'azione, i loro obiettivi vicini e lontani.» (ibid.)

«Con la proclamazione della repubblica sulla base del suffragio universale si spense persino il ricordo degli scopi e degli obiettivi limitati che avevano spinto la borghesia alla rivoluzione di febbraio. Invece di poche frazioni della borghesia, tutte le classi della società francese furono gettate di colpo nella cerchia del potere politico, costrette ad abbandonare i palchi, la platea, la galleria, e a recitare in persona sulla scena della rivoluzione!» (Karl Marx, Le lotte di classe in Francia)

Ma per precipitare tutte le classi sulla scena rivoluzionaria bisogna che esista, come dice Lenin, un “potente regista”: «Questa rivoluzione di otto giorni [la rivoluzione di febbraio 1917, ndr] è stata giocata, se mi è permessa questa metafora, come se fosse seguita ad una decina di prove generali e parziali; gli “attori” si conoscevano, avevano imparato i loro ruoli, i loro posto e tutta la scena in lungo e in largo […] Ci è voluto solo un grande, vigoroso, onnipotente “regista” capace, da una parte di accelerare enormemente la marcia della storia universale, e dall'altra, di generare delle crisi mondiali di natura economica, politica, nazionali ed internazionali di un'intensità senza precedenti1.» (Lenin, Lettere da lontano, cit.)

«Secondo la concezione materialistica della storia, il fattore determinante nella storia è, in ultima istanza [in corsivo nel testo, ndr], la produzione e la riproduzione della vita reale. Né Marx né io abbiamo mai detto di più. Se poi qualcun altro tortura questa proposizione per farci dire che il fattore economico è l'unico determinante, la trasforma in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi elementi della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i suoi risultati: le costituzioni stabilite una volta che la battaglia è vinta dalla classe vittoriosa, le forme giuridiche e gli stessi riflessi di queste lotte reali nei cervelli dei partecipanti, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le concezioni religiose e i loro sviluppo ulteriore in sistemi dogmatici – esercitano egualmente la loro azione sul corso delle lotte storiche e, nella maggior parte dei casi, ne determinano la forma.» (Engels, Lettera a Joseph Bloch, 21 settembre 1890)

«Non c'è che da prestare l'occhio al 18 Brumaio di Marx, in cui si tratta quasi unicamente del ruolo particolare giocato dalle lotte e dagli eventi politici, naturalmente nel limite dei loro legami generali con le condizioni economiche. O nel Capitale, ad esempio, al capitolo sulla giornata lavorativa, dove la legislazione – che è un atto prettamente politico – è profondamente presente. O ancora al capitolo sulla storia della borghesia (il capitolo XXIV).» (Engels, Lettera a Conrad Schmidt, 27 ottobre 1890.


Qualche citazione e un po' di provocazione nelle firme. Ma la provocazione principale è di natura teorica e definisce l'oggetto di questo testo: nientemeno che la rimessa “in cantiere” della comprensione del capitale come contraddizione in processo, e di come si produce la meccanica del suo superamento – che noi definiremo nel concetto di congiuntura.


Il capitale come contraddizione in processo e come congiuntura

Il programmatismo: una contraddizione semplice e omogenea

Certo, c'è il corso del capitale come contraddizione in processo: «Il capitale è una contraddizione in processo: da una parte esso spinge alla riduzione del tempo di lavoro a un minimo e, d'altra parte, esso pone il tempo di lavoro come la sola fonte e la sola misura della ricchezza.» (Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica).

Questa contraddizione era l'essenza di tutto, aveva una forma semplice e omogenea, comprendeva tutto, spiegava tutto, ma... allo stesso modo in cui una valanga trascina con sé ogni cosa sul suo cammino. Tutto il resto non era che fenomeno e accidente, contingenza. Dopo l'economia, tutte le altre istanze del modo di produzione non apparivano che come comparse. La segmentazione stessa del proletariato, la molteplicità delle contraddizioni nelle quali erano presi questi segmenti, la contraddizione fra uomini e donne, le altre classi trascinate nella lotta con i loro propri obiettivi, non erano che le ombre proiettate sul fondo della caverna della realtà sostanziale sempre già data dell'unità della classe e del divenire del capitale come contraddizione in processo. Porre la contraddizione era ipso facto cogliere il processo della sua abolizione e la produzione del suo superamento.

Certo, era il movimento naturale del programmatismo – dove la contraddizione fra le classi si risolve nella vittoria di uno dei suoi termini. Fino alla crisi di fine anni 1960 e alla ristrutturazione che ne è seguita, il capitale come contraddizione in processo era senza dubbio il contenuto della contraddizione fra proletariato e capitale, e si situava su quel livello attraverso la produzione e la conferma, all'interno stesso di questa contraddizione in processo, di un'identità operaia a partire dalla quale si strutturava il ciclo di lotte come la concorrenza tra due egemonie, due gestioni, due controlli sulla riproduzione.

Il programmatismo in quanto teoria e pratica storicamente definite della lotta di classe, è il superamento del capitale come contraddizione in processo attraverso la liberazione del lavoro e l'affermazione del proletariato. E quando, talvolta, fu questione di donne, la loro emancipazione consisteva nell'essere naturalmente, gaiamente e volontariamente delle madri ed egualmente delle lavoratrici. La risoluzione della contraddizione tra gli uomini e le donne veniva realmente evacuata verso un avvenire post-rivoluzionario e indefinito per mezzo della configurazione della contraddizione tra le classi, ma anche per mezzo di quella della contraddizioni fra i generi, giacché il lavoro e la popolazione rimanevano, dopo la rivoluzione, più che mai la principale forza produttiva e di conseguenza le donne restavano delle donne. Le lotte delle donne rimanevano prese dentro al paradosso dell'affermazione dell'identità femminile e della rivendicazione dell'indipendenza e dell'eguaglianza con gli uomini (sulla base del riconoscimento di tale identità)2.

Così, la teoria della rivoluzione comunista ha potuto per lungo tempo accontentarsi di una sola contraddizione fra il proletariato e il capitale. Questa sola contraddizione, giacché si risolveva nella vittoria di uno dei suoi termini, bastava coglierla ed enunciarla nella sua forma semplice e omogenea, lasciando come circostanze accidentali e fenomeniche le forme multiple, diverse, immediate della sua esistenza, attraverso cui si distribuisce in multiple esistenze del rapporto di sfruttamento (essa non esiste che in questa distribuzione), e i molteplici livelli delle sue forme di apparizione. Ciò bastava per rendere conto del divenire contraddittorio del modo di produzione capitalistico e del movimento della sua abolizione. Non avevamo bisogno di altro.  

I teorici programmatici della congiuntura situavano essi stessi la propria riflessione nel quadro di questa realtà.  

«Apprezzare ogni “momento attuale”, non solamente dal punto di vista della sua originalità presente, di oggi, ma ancora tenendo conto delle sue radici più profonde» scriveva Lenin nelle Lettere da lontano. Ora è all'inverso che dobbiamo scrivere questa frase: «non solamente dal punto di vista delle sue radici più profonde, ma ancora e soprattutto tenendo conto della sua originalità presente, di oggi». La questione della congiuntura esisteva, ma non era che un involucro che andava a rivestire la contraddizione essenziale allorché si rivelava. Il carattere concreto di una situazione rivoluzionaria non è la contingenza in cui si realizza la necessità, questa necessità noi la incontriamo in un presente concreto e definito. La necessità del Processo Contraddittorio del Capitale non si apre la strada nella contingenza delle circostanze. In ogni situazione in cui le contraddizioni fra le classi e fra gli uomini e le donne sono intricate – e a fortiori in una situazione rivoluzionaria – noi ci troviamo all'interno di un risultato di questo intreccio, ma non agiamo mai nel Processo Contraddittorio del Capitale in generale, bensì nel concreto della situazione, nella congiuntura, nel momento attuale. La situazione veniva scomposta in un carattere invariante, sostanziale e in circostanze storiche particolari, in un essenziale e un fenomenico, in potenza ed atto; ma nulla esiste altrimenti che in atto, e l'esistente in atto è tutto il concreto o il reale3.

Si aveva dunque il corso del capitale come contraddizione in processo. Ne conosciamo la definizione data da Marx nei Grundrisse: è insufficiente.

 
Classi e generi: ridefinizione del capitale come contraddizione in processo  

L'originalità del ciclo di lotte attuale, che ha accompagnato la ristrutturazione del rapporto fra proletariato e capitale negli anni 1970, è doppia. Per la lotta di classe, tale originalità consiste nell'aver conferito alla contraddizione fra proletariato e capitale come contenuto essenziale, il suo proprio rinnovamento, ovvero l'identità tra la costituzione e l'esistenza del proletariato come classe e la sua contraddizione con il capitale. Nella sua contraddizione con il capitale – ciò che lo definisce come classe – il proletariato sta in un rapporto contraddittorio con la sua propria esistenza in quanto classe.

Per la contraddizione tra gli uomini e le donne, l'originalità dell'attuale ciclo di lotte sta nell'averle conferito come contenuto essenziale e problematico l'esistenza naturale del corpo femminile, il sesso e la sessualità come definizione delle donne. Non solamente il lavoro e la popolazione come forza produttiva sono un problema per il capitale, ma ancora, nella fase attuale del modo di produzione capitalistico – e con la bancarotta del programmatismo – questi hanno perduto, l'uno e l'altra, ogni contenuto di rivendicazione e di affermazione opposti al capitale. Quando il lavoro e la popolazione come principali forze produttive (quelle che le riassumono tutte) diventano – in quanto potenza rivoluzionaria – un problema per se stessi (lo sono sempre per il capitale, ed è in ciò che hanno potuto essere il fondamento della prospettiva liberatrice del programmatismo) ciò significa che essere una donna appare come una contraddizione4. La rivendicazione dei diritti, dell'indipendenza e dell'eguaglianza, intrecciandosi con la questione del corpo, produce e incontra nel fatto di essere una donna il suo proprio limite. Quando la “natura” è messa in gioco, essa non rimane naturale a lungo. “Essere donna” non va più da sé. Il genere precede il sesso.

 Col fallimento del programmatismo, il capitale come contraddizione in processo è divenuto l'unità dinamica che le contraddizioni di classe e di genere costruiscono. La contraddizione tra le donne egli uomini è essa stessa un'altra contraddizione rispetto a quella fra proletariato e capitale. Quattro elementi, due contraddizioni, una sola dinamica: quella del capitale come contraddizione in processo – che non si scompone, non si autodetermina come contraddizione fra classi e contraddizione fra gli uomini e le donne, ma che è concretamente costruita da queste due contraddizioni (cfr. Réponse aux Américaines, in «Théorie Communiste», n. 24, dicembre 2012).

Partire dalla riproduzione (biologica) e dalla posizione specifica delle donne in questa riproduzione, è presupporre come dato ciò che è il risultato di un processo sociale. Il punto di partenza è ciò che rende questa posizione specifica come costruzione e differenziazione sociale: i modi di produzione, fino ad oggi. Fino al capitale incluso, dove la cosa diventa contraddittoria, la fonte principale di questo pluslavoro è certamente il lavoro – ciò che equivale all'aumento della popolazione.

L'aumento della popolazione come principale forza produttiva non è un rapporto naturale, non più di qualsiasi altro rapporto di produzione. Ma, possedere un utero non significa “fare dei bambini”, per passare dall'uno all'altro ci vuole tutto un dispositivo sociale di appropriazione e di messa in situazione (di messa in funzione) del “fare dei bambini”, dispositivo per mezzo del quale le donne esistono. Possedere un utero è una caratteristica anatomica e non già una distinzione, ma “fare dei bambini” è una distinzione sociale che fa della caratteristica anatomica una distinzione naturale. È nell'ordine di questa costruzione sociale, di questo dispositivo di costrizione, di rinviare sempre ciò che è socialmente costruito – le donne – alla biologia. La necessaria appropriazione del pluslavoro, fenomeno puramente sociale (il pluslavoro non è legato ad una supposta plus-produttività del lavoro) che presuppone il lavoro e la popolazione, crea i generi e la pertinenza sociale della loro distinzione su un modo sessuale e naturalizzato.

Nessun pluslavoro senza lavoro, nessun lavoro senza popolazione come principale forza produttiva. Là dove abbiamo sfruttamento, abbiamo la creazione delle categorie “donna” e “uomo”, la loro naturalizzazione inerente all'oggetto stesso della loro costruzione, e con ciò l'appropriazione di tutte le donne da parte di tutti gli uomini. La costruzione simultanea e interdipendente delle contraddizioni di genere e di classe introduce le separazioni di ciascuna di queste categorie nell'altra, ma anche le contraddizioni proprie alla costruzione sociale di ciascuna di queste categorie, che diventano contraddizioni inerenti l'una all'altra. Inestricabile, l'esperienza è sempre impura.

Ma non basta dire che nessuna esperienza né alcun soggetto sono puri, come una constatazione; è questa “impurezza” che bisogna sondare e costruire nella sua intimità.

La contraddizione tra il proletariato e il capitale presuppone quella tra gli uomini e le donne, così come quest'ultima presuppone la prima, cioè lo sfruttamento. Ritroviamo la nostra formula: quattro elementi, due contraddizioni, una dinamica. Ma questa formula si arricchisce del fatto che nessuna delle due contraddizioni può essere tale senza l'esistenza congiunta dell'altra.

È dal pluslavoro che provengono gli uomini e le donne, la loro distinzione e dunque la loro contraddizione; è dal medesimo pluslavoro che provengono le classi e la loro contraddizione. L'esistenza del pluslavoro è l'esistenza di due contraddizioni. Ciascuna ha nell'altra non solamente la sua condizione, ma ancora ciò che la fa essere una contraddizione, ovvero un processo che rimette in causa i suoi propri termini nel loro rapporto.

Tale esistenza congiunta, che fa di ciascuna una contraddizione, non è un incontro o una somma, ma esiste per ogni contraddizione nei suoi propri termini, nel suo “linguaggio”.

Tra il proletariato e il capitale, è l'esistenza stessa del lavoro come forza produttiva (la contraddizione tra uomini e donne) che è, nei termini del rapporto, questo divenire contraddizione del rapporto conflittuale: il lavoro come unica misura e fonte di ogni ricchezza. Ciò fa sì che la lotta di classe abbia per dinamica e come posta l'abolizione delle classi (e non un semplice spostamento del cursore tra lavoro necessario e pluslavoro sulla linea della giornata lavorativa), ciò che il capitale è in quanto contraddizione in processo. È la definizione delle donne, ovvero la contraddizione tra gli uomini e le donne (la definizione è in se stessa la contraddizione) che si gioca sul lavoro.

Tra gli uomini e le donne, è l'esistenza del pluslavoro e della sua relazione al lavoro necessario (la contraddizione fra le classi) che è, nei termini del rapporto, questo divenire contraddizione del rapporto conflittuale. Il pluslavoro e la sua relazione al lavoro necessario fanno sì che il conflitto tra uomini e donne abbia per dinamica e come posta l'abolizione delle condizioni inerenti all'individualità – essere una donna o un uomo –, ciò che il capitale è come contraddizione in processo. Detto in altri termini: questa contraddizione tra pluslavoro e lavoro necessario è la contraddizione attraverso cui la popolazione come principale forza produttiva (la distinzione di genere) è abolita come necessità. Contrariamente a ciò che abbiamo scritto in «Théorie Communiste» n. 23, la rivoluzione non è «sospesa all'abolizione dei generi», né «non potrà sfuggire al loro superamento», in quanto sono l'uno e l'altro nel loro movimento specifico – e determinandosi reciprocamente come contraddizione –, a costruire il capitale come contraddizione in processo. Non è un caso se in tutti i momenti rivoluzionari le due contraddizioni si sono sempre legate, incrociate, confortate e più spesso scontrate.

La popolazione come principale forza produttiva (la popolazione e la produttività del lavoro come sintesi delle forze produttive), ovvero il lavoro come problema nel modo di produzione capitalistico è la dinamica propria della contraddizione tra gli uomini e le donne (e non la forma che assume). È la dinamica propria di una contraddizione particolare, attraverso la quale questa esiste come particolarità della totalità: il capitale come contraddizione in processo. La distinzione dei generi e la contraddizione tra uomini e donne, nel suo contenuto specifico e su tutti i suoi fronti, deve essere presa in conto come l'altra particolarità di questa totalità: nella loro differenza e nella loro unità. L'unità come unità vivente, attiva, è la relazione necessaria tra queste due contraddizioni (il pluslavoro) attraverso la quale l'unità le fa sue, e agisce effettivamente come loro unità. L'unità o la totalità porta la relazione tra i suoi termini (classi e generi) a una contraddizione per gli stessi termini; il tutto è là, attivo e distinto come relazione tra parti che, grazie alla sua propria azione, diventano sue.

La contraddizione tra uomini e donne non fa irruzione nella contraddizione fra le classi, ma la modula costantemente, così come lo sfruttamento modula costantemente la contraddizione tra uomini e donne. Il loro intreccio costituisce una successione di configurazioni storiche della lotta di classi così come della contraddizione tra uomini e donne, esso definisce un ciclo di lotte. La lotta di donne che non vogliono restare ciò che sono ha una storia: dalla rivendicazione dell'eguaglianza dei diritti civili e politici, dalla rivendicazione dell'eguaglianza nel lavoro alla rimessa in causa della loro propria definizione (nel femminismo degli anni 1970, in cui il corpo stesso diviene l'oggetto della rivendicazionee della critica sociale) che supera il paradosso del femminismo enunciato da Joan W. Scott. È falso dire che la lotta delle classi dipende (è sospesa), quanto al suo superamento, dalla contraddizione tra gli uomini e le donne, così come è falso dire che il superamento delle categorie uomo e donna dipendono dalla lotta di classe. Particolarità di una stessa totalità in quanto contraddizioni specifiche (attraverso la loro specificità, il tutto non è un'autodeterminazione), esse costruiscono e si costruiscono costantemente come un solo ed unico movimento (all'interno del quale la loro relazione d'implicazione conflittuale è sempre storicamente specifica) di successione di cicli di lotte (lotte di classi/contraddizione di genere, e l'una poiché l'altra) sempre storicamente definiti. Due contraddizioni, quattro elementi, ma un solo movimento, una sola dinamica, quella del capitale come contraddizione in processo – di cui ciascuna contraddizione, attraverso la sua specificità, esiste come particolarità di questa totalità (la trappola speculativa è l'autodeterminazione del tutto). Le lotte che costituiscono questo ciclo di lotte si trovano sempre – considerate nella dinamica unica del capitale come contraddizione in processo –, nell'intreccio necessario e conflittuale (la lotta delle classi a sempre a che fare con la contraddizione generale fra donne e uomini, allo stesso modo quest'ultima ha sempre a che fare con la separazione delle classi) delle contraddizioni di classe e di genere5.

Se l'abolizione della distinzione di genere è una necessità dal punto di vista della “riuscita” della comunizzazione, non è in nome dell'abolizione di tutte le mediazioni, né perché la rivoluzione sarebbe “sospesa” alla necessità di questa abolizione. Considerare le cose in questa maniera è sintomatico di unaposizione teleologica e normativa. È nel suo carattere concreto, immediato, che questa contraddizione tra uomini e donne si impone nella riuscita della comunizzazione contro ciò che questo rapporto implica di violenza, d'invisibilizzazione, d'assegnazione ad un posto subordinato. Se l'abolizione della distinzione di genere si impone come una necessità della comunizzazione, è perché la contraddizione che definisce le donne esiste nella vita corrente – ed è da questa situazione che partiamo, per parlare della necessità dell'abolizione dei generi. Lavoro domestico, posizione nella divisione del lavoro, modalità d'inserimento nel processo di produzione immediato, forme “atipiche” di salariato, violenza quotidiana nel rapporto coniugale, famiglia, negazione e appropriazione della sessualità femminile, lo stupro e/o la minaccia dello stupro, sono i diversi fronti su cui si gioca la contraddizione tra gli uomini e le donne, la quale ha per contenuto la loro definizione e assegnazione costrittiva (nessuno di questi elementi è fortuito). Tutti questi fronti sono i luoghi di una lotta permanente che oppone due categorie della società, costruite come naturali e decostruite come tali dalle donne nella loro lotta.
 

Da una questione all'altra: verso il concetto di congiuntura


Questa ridefinizione del capitale come contraddizione in processo indicava la risposta ad una domanda che aveva come unico difetto quello di non essere stata posta. Dal momento in cui si considera il capitale in quanto contraddizione in processo come la costruzione di due contraddizioni che, per quanto congiunte, non si confondono, si designa una situazione rivoluzionaria o di crisi come una congiuntura. Dentro ad una sorta di quid pro quo, rispondendo alla questione del capitale come contraddizione in processo, indicavamo nella nostra risposta la presenza di un'altra questione: quella della natura del suo superamento e non solamente la questione della natura del suo corso.

Si tratta dunque di riformulare adeguatamente il problema.

Da una parte, sappiamo che il capitale come contraddizione in processo è una “tensione all'abolizione della regola”, ma questa tensione non ci dà che la possibilità o la necessità del superamento, e però non ci dice ciò che esso è6.

Dall'altra, sappiamo che il passo che la lotta di classe e quella delle donne devono fare (la produzione dell'appartenenza di classe e della distinzione di genere come costrizioni esteriori) è precisamente il contenuto di ciò che il superamento è. Ma questo contenuto non ci dice come la “tensione” diviene in sé una realtà effettiva ed efficace.

Infine, sappiamo che se possiamo parlare al presente di rivoluzione come comunizzazione, è perché la lotta di classe contiene attualmente, al suo stesso interno, la produzione dell'appartenenza di classe come costrizione esteriore, ovvero contiene degli scarti7: «Attualmente la rivoluzione è sospesa al superamento di una contraddizione costitutiva della lotta di classe: essere una classe è, per il proletariato, l'ostacolo che la lotta di classe deve superare/abolire (Le moment actuel, in «SIC», n.1, gennaio 2012). In conseguenza delle due precedenti, allorché si giunge all'ultima proposizione, ne segue il concetto di congiuntura.

In che modo la struttura contraddittoria del divenire del modo di produzione capitalistico, questa “tensione all'abolizione della sua regola”, si trasforma in situazione rivoluzionaria? Evidentemente, la questione non è di sapere quando e dove avvenga una cosa simile, ma qual è la natura di questa trasformazione – non ciò che la produce (questo lo abbiamo definito in Le moment actuel, ne La théorie de l'écart e in Réponse aux Américaines)8, ma la natura di ciò che si produce.

 
Congiuntura: unità e forme di manifestazione

La natura di ciò che si produce è una congiuntura, un momento attuale.

È la teoria della rivoluzione come comunizzazione – non in quanto prospettiva ma in quanto presente dell'appartenenza di classe come limite della lotta in quanto classe, e come presente della contraddizione tra uomini e donne, che rimette in causa la loro definizione – che costringe all'obsolescenza il paradigma teorico del corso d'una contraddizione semplice e omogenea, poiché risolventesi nella vittoria di uno dei due termini.

Dunque, certamente abbiamo La Contraddizione che è il capitale come contraddizione in processo, unità dinamica delle contraddizioni di classe e di genere; essa è una e essenziale, ma nella sua efficacia storica non esiste che in tutte le sue forme di manifestazione. Nessuna delle sue forme, politiche, giuridiche, di relazioni internazionali, ideologiche etc., nessuna delle forme di relazione tra le istanze funzionali del capitale (capitale industriale, capitale finanziario, capitale mercantile), nessuna delle forme particolari in cui essa definisce ciascuna frazione del proletariato e le assegnazioni di genere, e attraverso cui si rifrange a tutti i livelli del modo di produzione – rifrazioni che sono la sua stessa condizione d'esistenza – nessuna di queste forme è un puro fenomeno senza il quale La Contraddizione potrebbe comunque ed egualmente esistere. Le condizioni immediatamente esistenti sono le sue condizioni d'esistenza. Essa non produce il suo superamento, la sua negazione, la troppo famosa negazione della negazione, tanto «ineluttabile quanto le leggi della natura» e della dialettica, come un semplice dover essere derivato dal semplice fatto che La Contraddizione è posta. In quanto dinamica delle contraddizioni di classe e di genere, è in tutte le forme attraverso cui esiste realmente, nella loro combinazione ad un momento dato, in una congiuntura, che è rivoluzionaria. In quanto tale, essa non è che un concetto.

È la maniera in cui si comprende nella sua efficacia storica il capitale come contraddizione in processo
– e non solamente la contraddizione tra il proletariato e il capitale – ad essere qui in gioco. Le formalizzazioni “classiche” del capitale come contraddizione in processo non solamente si limitano alla sola teoria della lotta di classe, ma oltretutto si propongono di dissolvere le forme d'apparizione per riportarle ad una sorta di unità essenziale interna. Precisamente, tali formalizzazioni non comprendono queste forme come forme di apparizione di questa essenza interna (come se si parlasse del capitale senza la concorrenza, del valore senza il prezzo di mercato), ed affermano, con la fatuità di chi è sicuro di sé, l'essenza interna attraverso la negazione pigra e altezzosa delle forme di apparizione, le quali vengono esorcizzate come volgari apparenze in nome dell'invarianza sostanziale del concetto. Certo, la “essenza interna” sarà attorniata da migliaia di circostanze, ma senza mai comprendere che queste “circostanze” sono necessarie e definitorie di questa “essenza interna”. È un metodo teorico e tutta una comprensione del capitale come contraddizione in processo – ovvero una comprensione della contraddizione tra il proletariato e il capitale e della relazione, non colta come contraddizione, tra uomini e donne – ad essere qui in gioco. In altri termini, non eravamo usciti dal programmatismo.

Le leggi della riproduzione del modo di produzione capitalistico sono identiche a quelle della sua abolizione: il capitale come contraddizione in processo, o l'abbassamento tendenziale del saggio di profitto, non sono delle determinazione economiche oggettive sottendenti le contraddizioni fra le classi e i generi, sono invece la loro stessa esistenza come unità. Ma queste affermazioni sono di tanta terribile esattezza quanto di una terribile inutilità, se ci accontentiamo di comprenderle come l'espressione di un movimento contraddittorio semplice e omogeneo, e non come una moltitudine di contraddizioni “parziali” a livello dello sfruttamento e di tutti i dispositivi sociali attraverso cui le donne sono assegnate alla loro natura, cioè attraverso cui sono donne. Il capitale come contraddizione in processo è una moltitudine di forme d'azione e di lotte a tutti i livelli del modo di produzione. Il suo superamento è una congiuntura, ovvero l'unità di una moltitudine di contraddizioni a tutti i livelli del modo di produzione, che divengono unità di rottura.

Ciò che intendiamo per congiuntura non è l'incontro delle due contraddizioni che abbiamo esposto (proletariato/capitale, uomini/donne): esse non si incontrano mai poiché sono già da sempre congiunte. Ciò che l'una e l'altra di queste contraddizioni e la loro unità ci portano a produrre teoricamente, è che il capitale come contraddizione in processo non è colto come oggetto di trasformazione che nella molteplicità delle sue forme e livelli di apparizione, senza i quali esso non esiste. È la molteplicità delle forme di apparizione di questa unità, a tutti i livelli del modo di produzione, a definire una congiuntura e più precisamente la cristallizzazione in un'istanza del modo di produzione delle contraddizioni multiple che designano (momentaneamente) tale istanza come dominante. La costruzione dell'unità come unità dinamica di due contraddizioni contiene già in sé stessa, nel processo della propria costituzione, le sue condizioni d'esistenza, ovvero la sua esistenza, come intreccio di livelli multipli del modo di produzione. Da questo punto di vista, il concetto di congiuntura coincide con quello della crisi della riproduzione del modo di produzione stesso.

 
Congiuntura: l'autopresupposizione del capitale, una meccanica che si inceppa

Non solo la rivoluzione non è il risultato della transcrescenza dell'ascesa progressiva della classe, la vittoria e l'affermazione della sua situazione all'interno del modo di produzione capitalistico, ma ancora, il contenuto di questo salto qualitativo è di rivoltarsi contro ciò che l'ha prodotto. Quest'inversione è il rovesciamento della gerarchia delle istanze del modo di produzione capitalistico, cioè delle meccanica del suo autopresupporsi. Tutte le causalità e l'ordinamento normale delle istanze del modo di produzione capitalistico (economia, relazioni di genere, diritto, politica, ideologia etc.) che concorrono in tale normalità alla sua riproduzione, si trovano minati.

Una congiuntura è, ad un tempo, un incontro e un disfacimento. Essa è il disfacimento della totalità sociale che fino a quel momento univa tutte le istanze di una formazione sociale (politica, economica, sociale, culturale, ideologica); essa è il disfacimento della riproduzione delle contraddizioni che formano l'unità di questa totalità. In una congiuntura si hanno aleatorietà, incontri, cose dell'ordine dell'evento: uno scioglimento che si produce e si riconosce nell'accidentalità di questa o quella pratica. In tal modo, una congiuntura si presenta come ciò che succede nella misura in cui “ciò che succede” forma la condizione particolare di non sapere “ciò che può succedere”; essa è il momento in cui può esercitarsi la potenza del rendere “ciò che è” più ampio di ciò che contiene, cioè del creare – al di fuori dei concatenamenti meccanici della causalità o della teleologia del finalismo.

Una congiuntura è anche un incontro di contraddizioni che avevano il loro proprio corso e la loro propria temporalità, e che non intrattenevano fra loro alcuna relazione se non l'interazione: lotte operaie, lotte studentesche, lotte delle donne, conflitti politici all'interno dello Stato, conflitti all'interno della classe capitalistica, corso mondiale del capitale, riproduzione di questo corso all'interno di una particolare area nazionale, ideologie attraverso le quali gli individui combattono le loro lotte. La congiuntura è il momento di questa carambola di contraddizioni, ma questa carambola prende forma secondo la determinazione dominante che designa la crisi che si svolge entro i rapporti di produzione, nelle modalità dello sfruttamento9. La congiuntura è una crisi della determinazione autoriproduttrice dei rapporti di produzione che si definisce attraverso una gerarchizzazione determinata e fissa delle istanze del modo di produzione.

Una congiuntura è quella situazione propria ai periodi di crisi, dove il movimento del capitale come contraddizione in processo non è più una sola contraddizione (fra le classi o fra i generi) e nemmeno l'unità semplice e omogenea delle due. Il capitale come contraddizione in processo non si impone più come il senso sempre già presente di ciascuna delle sue forme di apparizione. Una congiuntura è quel momento storico in cui la contraddizione fra le classi, quella tra le donne e gli uomini, sono prese come oggetti di trasformazione nella molteplicità delle contraddizioni, delle divisioni di genere e delle segmentazioni di classe che giocano conflittualmente fra loro, e infine delle condizioni reali, concrete, immediate, che sono ciò in cui e attraverso cui esiste il capitale come contraddizione in processo. Le contraddizioni si ricompongono, si uniscono in un'unità di rottura; la pratica rivoluzionaria, le misure comunizzatrici, rovesciano la gerarchia delle istanze dominanti del modo di produzione attraverso la quale la riproduzione di quest'ultimo era immanente a ciascuna di esse. Al di là di questa immanenza, di questo autopresupporsi che contiene e necessita della gerarchia stabilità delle istanze, c'è l'imprevedibile e l'evento. La congiuntura è la meccanica, l'ingranaggio intimo del salto qualitativo nel quale si frantumala ripetizione del modo di produzione. È il concetto di congiuntura, divenuto necessario alla teoria delle contraddizioni di classe e di genere come teoria della rivoluzione e del comunismo, che questo testo tenta di mettere a fuoco.

“Momento attuale”, “congiuntura”, sono concetti che in periodo di crisi divengono essenziali, inaggirabili, concetti che si impongono come conoscenza adeguata del corso storico delle cose nella sua accezione più immediata.

Tutte le forme di esistenza di questa contraddizione in processo devono essere colte come sue proprie condizioni d'esistenza, solamente attraverso le quali può esistere: essa non è altro che la totalità dei suoi attributi.

Nelle prime righe di Lavoro salariato e capitale (1849), Marx scrive: «Le giornate di giugno a Parigi, la caduta di Vienna, la tragicommedia del novembre 1848 a Berlino, gli sforzi disperati della Polonia, dell'Italia e dell'Ungheria, l'affamamento dell'Irlanda: tali furono i momenti principali in cui si riassunse in Europa la lotta di classe [il corsivo è nostro, ndr] fra borghesia e classe operaia […] Ora, dopo che i nostri lettori hanno visto svilupparsi la lotta di classe, nel 1848, in forme politiche colossali [idem, ndr], è tempo di penetrare più a fondo i rapporti economici, sui quali si fondano tanto l’esistenza della borghesia e il suo dominio di classe quanto la schiavitù degli operai.»

In opere storiche come Le lotte di classe in Francia (1848), si potrebbero moltiplicare le citazioni in cui Marx rende conto di un evento spostando senza posa le dominanti e le determinazioni (moltiplicando gli angoli d'attacco, benché quest'espressione sia infelice, poiché presuppone l'esistenza dell'oggetto e dei semplici cambiamenti d'angolo visivo, allorché nelle variazioni delle dominanti e delle determinazioni si tratta precisamente della costituzione dell'oggetto), a tal punto che in Le lotte di classe in Francia, non si sa più con certezza quante classi compongano la società, tanto spesso si passa senza posa dalla nozione di “situazione di classe” a quella di “posizione di classe” attraverso le variazioni della dominante che costituisce l'evento. Da questo punto di vista, La Guerra civile in Francia sarebbe egualmente assai interessante da studiare per definire teoricamente il concetto di congiuntura.

Nella citazione di Lavoro salariato e capitale, Marx pone (volontariamente o meno: nel 1849 non possiede ancora il concetto di modo di produzione) una differenza tra congiuntura e analisi generale astratta, e congiuntamente l'unità tra le due. La congiuntura è il processo di questo “riassunto” («si riassumeva la lotta di classe»), di questa concentrazione in un luogo, in un momento. Tutta la questione della congiuntura si trova nell'unità di questa differenza e di questa unità. Si può approcciarla dal lato del gioco tra determinazione e dominante fra le istanze di un modo di produzione, dal lato delle diverse temporalità che costituiscono la storia come altrettante determinazioni che le sono necessarie, attraverso le quali essa esiste e non come una decomposizione della storia in quanto oggetto che preesiste a quelle.

La congiuntura è inerente alla rivoluzione in quanto comunizzazione: autotrasformazione del soggetto. Tutte le manifestazioni dell'esistenza sociale, ovvero quelle che per ciascun individuo sono «le condizioni inerenti alla sua individualità» (Marx, L'ideologia tedesca), escono dal loro rapporto gerarchizzato nel modo di produzione e si ricombinano – in maniera mobile in quanto produttrici di situazioni nuove – nella loro relazione di determinazione e di dominante. Queste manifestazioni divengono, così, oggetto di contraddizioni e di lotte nella loro specificità e non come effetto e manifestazione di una contraddizione fondamentale, soppresse solamente “in conseguenza”10.

Quando lottare in quanto classe è il limite della lotta di classe, quando il fatto di essere donna è il limite delle lotte delle donne11, la rivoluzione diventa una lotta contro ciò che l'ha prodotta. Tutta l'architettura del modo di produzione, la distribuzione delle sue istanze e dei suoi livelli si vedono trascinate in un processo di rovesciamento della normalità/fatalità della sua riproduzione, definita dalla gerarchia determinativa delle istanze del modo di produzione. Solo essendo questo rovesciamento – e solamente se questo viene portato a compimento – la rivoluzione è quel momento in cui i proletari si sbarazzano di tutto il marciume del vecchio mondo che sta loro incollato alla pelle12, allo stesso modo in cui gli uomini e le donne si sbarazzano di ciò che costituisce la loro individualità (cfr. nota 4). Non si tratta di una conseguenza, ma di un movimento concreto della rivoluzione nel quale tutte le istanze del modo di produzione (ideologia, politica, nazionalità, economia, genere etc.) possono essere una dopo l'altra la focalizzazione dell'insieme delle contraddizioni. La rivoluzione come comunizzazione avrà di che nutrirsi dell'impurità, della non-semplicità, del processo contraddittorio del modo di produzione capitalistico. Cambiare le circostanze e cambiare sé stessi coincidono: è la rivoluzione, è una congiuntura. Una teoria della congiuntura è una teoria della rivoluzione che fa proprio il fatto che «L'ora solitaria dell'“ultima istanza” – l'economia – non suona mai, né al primo momento né all'ultimo» (Althusser, Contraddizione e surdeterminazione, in Per Marx), poiché non è nella natura della rivoluzione farla suonare. Non è una formula letteraria dire che la rivoluzione è una trasgressione della storia, della temporalità, e non è senza ragione che Walter Benjamin annotava che i rivoluzionari sparavano sugli orologi.

Una teoria della rivoluzione come rottura contro ciò che l'ha prodotta, cioè come comunizzazione, deve passare per una teoria della congiuntura. In un modo di produzione, tutte le istanze che lo compongono non vivono allo stesso ritmo; esse occupano una regione nella struttura globale del modo di produzione, che assicura il loro statuto e la loro efficacia per mezzo del posto specifico assegnato a ciascuna istanza. Nel modo di produzione capitalistico, l'economia è ad un tempo l'istanza determinante e l'istanza dominante, ciò che non era dato in altri modi di produzione (cfr. la citazione di Marx nella nota 9).

Una congiuntura è una crisi di tale assegnazione: essa può dunque essere una variazione della dominante (politica, ideologia, rapporti internazionali13) all'interno della struttura globale del modo di produzione sulla base della determinazione da parte dei rapporti di produzione.

Ritroviamo ciò che fa, fondamentalmente, del concetto di congiuntura un concetto necessario della teoria della rivoluzione: il rovesciamento delle gerarchie determinative delle istanze del modo di produzione. Una congiuntura designa il meccanismo stesso di una crisi come crisi dell'autopresupporsi del capitale.

Nella crisi della riproduzione, è questo spostamento delle istanze in quanto dominanti e determinazioni, a essere il come della tensione all'abolizione della regola, che diviene la realtà effettiva della rimessa in causa dell'appartenenza di classe e dell'assegnazione di genere; è in questo modo che il capitale come contraddizione in processo viene preso come oggetto di trasformazione, rivolgendosi contro sé stesso: non è più questo automatismo semplice che si risolve sempre in se stesso. Quando l'unità si disfa (in ragione dei rapporti di produzione che sono la determinazione), ciò significa che l'assegnazione di tutte le istanze del modo di produzione è in crisi. Si produce allora un gioco della dominante designata, nel quale non c'è nulla di fisso: le carte girano. Una congiuntura è l'effettività del gioco che abolisce la sua regola.

 
Il vicolo cieco

La struttura globale del modo di produzione capitalistico è una contraddizione in processo, ciò significa che simultaneamente essa non produce che la sua riproduzione da un lato, e che essa è un gioco che abolisce la sua regola dall'altro. Ma se ci si ferma qui, non è possibile avvicinarsi di più alla rivoluzione (il famoso “vicolo cieco”). Bisogna dunque, non cambiare di registro, ma vedere che questo registro dei rapporti di produzione non è la totalità del modo di produzione, anche se ne è la struttura determinante.

Il gioco che abolisce la sua regola ci porta solamente fino al bordo di una congiuntura (o ciò che Lenin teorizzò sotto il nome di “momento attuale”). La produzione interna della trasgressione della struttura – che è il modo di produzione capitalistico – passa per la costituzione di una congiuntura. L'importanza di questo concetto all'interno di quello di “capitale come contraddizione in processo” ci fa comprendere la rivoluzione come un evento che si spinge al di là delle sue cause, contro di esse (è la comunizzazione), in quanto ribaltamento determinato del determinismo dei rapporti di produzione.

L'attività nella lotta di classe non è il semplice riflesso delle condizioni che la costituiscono, essa crea inadeguatezza: «Le rivoluzioni proletarie invece [contrariamente alle rivoluzioni borghesi che «passano di successo in successo... e giungono rapidamente al loro punto culminante», ndr], quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo, si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta!» (Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte).

Qui si può trovare la descrizione di una congiuntura o di un evento, ovvero di una situazione che eccede le sue cause, che si rivolta contro di esse. Se il capitale è una contraddizione in processo nella quale il corso della sua accumulazione è quello della sua abolizione, è là che si situano l'attività, la scelta, la libertà, l'indeterminato: il ribaltamento come lotta di classe e dentro le lotte, il rivoltarsi delle leggi di riproduzione del modo di produzione contro se stesse. Ma dobbiamo fare attenzione qui a non riprodurre una meccanica simile alla meccanica hegeliana dell' “astuzia della Ragione”: la ragione storica che sembra abbandonare il suo corso per meglio ritrovarsi. L'evento non è un'astuzia della Ragione. Le leggi di riproduzione del capitale come contraddizione in processo ci dicono perché esistono degli eventi, ma non ne sono la causa: la questione della causalità e dell'evento è posta nuovamente.

L'evento crea una discontinuità, crea il nuovo, e dunque non può essere ridotto a un semplice momento successivo e continuo, come prolungamento delle sue cause: nelle crisi rivoluzionarie, i rivoluzionari sono occupati a trasformare – loro stessi e le cose –, a creare qualcosa di assolutamente nuovo, scrive Marx all'inizio del 18 Brumaio. E prosegue: «La rivoluzione sociale del secolo decimonono non può trarre la propria poesia dal passato, ma solo dall’avvenire. Non può cominciare a essere se stessa prima di aver liquidato ogni fede superstiziosa nel passato. Le precedenti rivoluzioni avevano bisogno di reminiscenze storiche per farsi delle illusioni sul proprio contenuto. Per prendere coscienza del proprio contenuto, la rivoluzione del secolo decimonono deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti». L'evento va contro le sue cause: Hic Rhodus, hic salta.

Nella congiuntura, le leggi di riproduzione di un sistema sono quelle del suo rovesciamento, giacché una congiuntura – incontro e disfacimento – è il rivoltarsi delle cause contro se stesse. Ciò che dice semplicemente Lenin ne L'estremismo su «quelli che stanno in alto» e «quelli che stanno in basso».

«Affinché la rivoluzione abbia luogo, non basta che le masse sfruttate ed oppresse prendano coscienza dell'impossibilità di vivere come prima e reclamino dei cambiamenti. Perché la rivoluzione abbia luogo, bisogna che gli sfruttatori non possano vivere né governare come prima. Solo quando “quelli che stanno in basso” non vogliono più vivere alla vecchia maniera e “quelli che stanno in alto” non lo possono più, solo allora la rivoluzione può trionfare. (Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo)

Quali sono oggi queste «correnti assolutamente differenti», questi «interessi di classe eterogenei», queste «tendenze politiche opposte», questa «ricchezza di contenuto» e queste «combinazioni inattese» che assumono «quelli che stanno in basso» e «quelli che stanno in alto»?


Cominciamo da “quelli che stanno in alto”

Nel corso della ristrutturazione del capitalismo che fu messa in atto a partire dagli anni 1970, sono scomparsi quegli argini all'accumulazione che erano rappresentati dalle rigidità del mercato del lavoro nazionale, dalle protezioni sociali tali quali esistevano, dalla divisione dell'economia mondiale nei blocchi usciti dalla Guerra Fredda e dai progetti di sviluppo nazionale protetto che tale divisione permetteva nella “periferia” dell'economia mondiale. All'epoca, la crisi del modello sociale fondato sul modello produttivo e lo “Stato sociale keynesiano” o “fordista”14 condusse alla finanziarizzazione, allo smantellamento e alla delocalizzazione della produzione industriale, alla distruzione del potere operaio e dell'identità operaia confermata dalla riproduzione del capitale, alla deregulation, alla fine della contrattazione collettiva, alle privatizzazioni, ad un'evoluzione verso il lavoro temporaneo e flessibile. La formazione di un mercato globale del lavoro sempre più unificato come un continuum di segmentazioni, l'attuazione delle politiche neo-liberiste, la liberalizzazione dei mercati e la tendenza internazionale all'abbassamento dei salari e al deterioramento delle condizioni di lavoro hanno rappresentato una controrivoluzione il cui risultato è il fatto che la contraddizione fra il proletariato e il capitale si situa a livello della riproduzione stessa del rapporto di sfruttamento, a livello dell'implicazione reciproca di proletariato e capitale.

Nella crisi attuale, sono queste caratteristiche definitorie del capitalismo ristrutturato a trasformarsi da dinamiche in limiti e in contraddizioni dello sviluppo, ovvero che da controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto sono diventate gli assi portanti di tale caduta. È precisamente il capitalismo ristrutturato ad essere entrato in crisi. Le contraddizioni e i limiti che esplodono attualmente, sono proprio ciò che aveva costituito la dinamica del sistema e avevano definito le condizioni del suo sviluppo.

Un modo di sfruttamento della forza-lavoro su scala mondiale, di messa in valore del capitale, si ritrova col fiato corto e affonda nel suo esacerbarsi. Tutte le frazioni nazionali della classe capitalista mondiale cercano di salvarlo rafforzandone le caratteristiche, al punto che la sua unità va in pezzi.

Attualmente, gli Stati Uniti temono un affondamento e un'implosione dell'Europa, questo “malato del mondo”, ma fanno di tutto per salvare se stessi, nel caso quest'eventualità si presenti; la Cina, l'India e il Brasile, sono presi a tenaglia tra il loro ruolo funzionale all'interno del sistema che affonda e il loro proprio sviluppo – che non possono ancora far valere in quanto tale; in zone intere come l'Asia centrale, l'America centrale o in Africa, borghesia, burocrazia, mafie, polizia ed esercito gestiscono gli investimenti stranieri, le attività che possono articolarsi alla valorizzazione mondiale si separano dai monopoli. Di questi tempi, per un gran parte della popolazione, il costante scarto creato dall'accumulazione del capitale tra la massa di manodopera liberata disponibile e il suo assorbimento come forza-lavoro, diviene la condizione d'esistenza di ogni tipo di attività riproduttrice per questa popolazione stessa, e spesso necessaria anche ai settori più performanti dell'accumulazione: cantieri, servizi forniti alle classi medie e superiori dei “bei quartieri”, forniture di certe materie prime riciclate etc.

Nei paesi arabi del Mediterraneo, le rivolte proletarie e interclassiste hanno significato la bancarotta di una classe capitalista costruita come un'oligarchia clientelista, che si confonde con gli apparati repressivi dello Stato e che trasforma ogni produzione o servizio che possa entrare nel flusso della valorizzazione mondiale del capitale, in attività produttrici di rendita. Ogni attività economica suscettibile di entrare in questo flusso viene accaparrata, in connessione con lo Stato, da una frazione della borghesia e diviene oggetto di un monopolio che si insinua nella forma di un monopolio naturale (centri turistici, attività import/export, campagne di vaccinazione, telefonia, fornitura di manodopera, immobiliari etc.). Questa frazione della borghesia era divenuta un “potere”, ovvero all'interno dello Stato aveva un potere sullo Stato. Questa classe dominante nonpossiede in se stessa le risorse e la dinamica della propria ricomposizione. È questo vuoto ad essere occupato per il momento dall'Islam politico, che abbisogna, per incarnare la “rivoluzione” in quanto ordine ristabilito, di essere allo stesso tempo lo Stato ed il popolo. In questo, nelle mani degli islamisti, lo Stato è sempre minacciato dalla sua possibile separazione dalla società e dalle lotte di classe – ciò che, in Egitto, ricorda loro vigorosamente l'esercito.

A livello mondiale, in questo modo d'accumulazione che sprofonda, si è verificata una disconnessione tra la valorizzazione del capitale e la riproduzione della forza-lavoro.

Questa disconnessione era uno zoning geografico del modo di produzione capitalistico: degli iper-centri capitalistici che raggruppano le funzioni alte nella gerarchia dell'organizzazione delle imprese (finanza, hi-tech, centri di ricerca etc.); delle zone secondarie che necessitano di tecnologie intermedie, che raggruppano la logistica e la diffusione commerciale, zone che si trovano sul confine fluido con le periferie consacrate alle attività di assemblaggio, spesso in outsourcing; infine, delle aree di crisi e di “discariche sociali”, sottomesse di tanto in tanto a qualche spedizione securitaria preventiva, nelle quali prospera tutta un'economia informale fatta di prodotti legali ed illegali – economia che spesso si articola agli altri livelli della valorizzazione del capitale e della riproduzione della forza-lavoro impiegata altrove.

Se la valorizzazione del capitale è unificata attraverso questo zoning, altrettanto non si può dire per la riproduzione della forza-lavoro. Ciascuna di queste zone presenta delle modalità specifiche di riproduzione. Nel primo mondo: strati caratterizzati da alti salari e privatizzazione dei rischi sociali, sovrapposti a frazioni della forza-lavoro che mantengono certi aspetti del “fordismo”, e ad altre – sempre più numerose – sottomesse ad un “nuovo compromesso” il cui contenuto è l'acquisto globale della forza-lavoro15. Nel secondo mondo: regolazione per mezzo di bassi salari, imposti dalla forte pressione delle migrazioni interne e dalla grande precarietà dell'impiego, isole di outsourcing internazionale più o meno stabili, poca o nessuna garanzia contro i rischi sociali, migrazioni dovute alla ricerca di lavoro. Nel terzo mondo: aiuti umanitari, traffici vari, sopravvivenza agricola, regolazione per mezzo di tutti i tipi di mafie e di guerre, ma anche per mezzo della rivivificazione delle solidarietà locali ed etniche. Questo zoning deve essere una mise en abyme16: ogni gradino della scala, dal mondo al quartiere, riproduce questa tripartizione. La disgiunzione è totale, tra la valorizzazione mondiale del capitale e la riproduzione della forza-lavoro adeguata a questa valorizzazione. Tra le due, la relazione reciproca di stretta equivalenza tra produzione di massa e modalità di riproduzione della forza-lavoro – che definiva il fordismo – è scomparsa.

Questo zoning era determinazione funzionale del capitale: mantenere, malgrado la rottura tra le due, dei mercati mondiali in espansione ed un'estensione planetaria della manodopera disponibile, e ciò al di fuori di qualsiasi relazione necessaria su una stessa area di riproduzione predeterminata. La rottura di ogni relazione necessaria tra valorizzazione del capitale e riproduzione della forzalavoro ha frantumato le aree di riproduzione coerenti nella loro delimitazione regionale o anche nazionale.

Nella crisi attuale di questa fase del modo di produzione capitalistico, iniziata con la ristrutturazione degli anni 1970, questo zoning con la sua mise en abyme di ogni segmento – la determinazione definitoria di questa fase – è esso stesso entrato in crisi. Assistiamo, da una parte, ad un movimento di fuga in avanti: i capitali abbandonano la Cina per il Vietnam, il Vietnam per la Cambogia o l'Indonesia; in Africa – l'Africa occidentale, la Repubblica Democratica del Congo, il Sahel – il racket, la violenza armata statale o para-statale, il massacro delle popolazioni, diventano un modo ordinario di appropriazione delle risorse e delle rendite; un paese come la Russia sprofonda in un processo di disintegrazione della rendita. Dall'altra parte, principalmente in America del Sud, mentre prosegue la concentrazione della popolazione nelle bidonvilles, dei programmi sociali cercano di gettare le basi per un'integrazione di questa popolazione nei circuiti formali dell'economia. Che sia nella fuga in avanti o nei tentativi d'integrazione formale, è questo zoning ad essere entrato in crisi con la crisi attuale. Esso tende a divenire contro-producente. L'identità, nella crisi attuale, tra crisi di sovraccumulazione e di sottoconsumo sta a significare che la disconnessione tra valorizzazione e riproduzione della forza-lavoro è diventata un problema. In questa identità della crisi, la disconnessione che era funzionale a una fase del modo di produzione, diventa contraddittoria per la sua continuazione. E ciò, tanto al livello dell'architettura mondiale della realizzazione del plusvalore, facendo degli Stati Uniti il consumatore in ultima istanza, che al livello – egualmente importante, e forse sempre più in futuro – dello sviluppo “nazionale” dei “capitalismi emergenti”. Non si tornerà indietro, ma la mondializzazione può prendere una direzione attualmente indefinibile, e che potrà essere solamente una funzione di nuove modalità della valorizzazione e del rapporto di sfruttamento.

Questa disconnessione era un sistema mondiale. La Cina, l'India, il Brasile etc., vi trovavano il loro posto allo stesso tempo come potenze economiche autonome e in ascesa, e come tasselli di questa struttura mondiale. Che la Cina e l'India pervengano a costituirsi per se stesse in quanto mercati interni, dipende da una rivoluzione nelle campagne (privatizzazione della terra in Cina; sparizione della piccola proprietà e delle forme di mezzadria in India), ma anche e soprattutto da una riconfigurazione del ciclo mondiale del capitale che soppianti la globalizzazione attuale (una rinazionalizzazione delle economie che, ad un tempo, superi e conservi la globalizzazione, una definanziarizzazione del capitale produttivo etc.). Ciò significa che questa ipotesi è fuori dalla nostra attuale portata, giacché esclusa da questo ciclo di lotte; essa presuppone la sconfitta della rivoluzione di questo ciclo e, con questa sconfitta, una ristrutturazione del modo di produzione capitalistico.

Tutta la geografia della riproduzione mondiale del capitale e del suo zoning va in sfacelo. Ciò che faceva sistema non funziona più: austerità, abbassamento dei salari al di sotto del valore della forza-lavoro, non alimentano più le assegnazioni su una valorizzazione futura del capitale finanziario, che si alimenta esso stesso al “tavolo da gioco”. È la moneta stessa, in tutte le sue funzioni, che tende a diventare il nodo della crisi; ciò equivale a dire che la crisi del capitale, poiché crisi del capitale, diventa una crisi del valore17; ovvero, in maniera più sensibile, una crisi di tutto ciò che costituisce le relazioni che definiscono l'unità della classe capitalista – ed è tutta la sua coesione interna, nella molteplicità dei suoi legami finanziari, creditizi, scambisti, a sgretolarsi.

Se la società è il risultato finale del processo di produzione in quanto sussunzione del lavoro sotto il capitale, è allora la società a ritrovarsi orfana di una rappresentazione. La società civile, questa riorganizzazione dei rapporti di produzione attraverso lo Stato, si disgrega in molteplici frazioni dai contorni mutevoli. Nessuna rappresentazione politica o statale è più legittima come universalizzazione reale degli interessi particolari della classe dominante unificata. Questa classe dominante stessa non crede più nel suo Stato. È la borghesia stessa a sopprimere l'autonomia relativa dello Stato e della politica di fronte all'economia, gettandoli nella tormenta immediata di tutti i suoi conflitti interni e del suo conflitto fondamentale con il proletariato. Tanto che l'ultima milizia ideologica di questo Stato messo a nudo è rappresentata da quelli che, in un certo senso, lo contestano in nome della sua esistenza ideale (l'indignazione). Questa contestazione non significa null'altro che tutte le mediazioni ideologiche (partiti, sindacati, sistema educativo etc.) che cementano la riproduzione sociale, e fanno egualmente convergere gli interessi divergenti delle classi in una riproduzione antagonistica del sistema, non svolgono più il loro ruolo.

Se: «Il processo di produzione capitalistico, considerato nella sua continuità, o come riproduzione, non produce solamente merci, né solamente plusvalore; esso produce ed eternizza il rapporto sociale tra capitalista e salariato» (Marx, Il Capitale), allora la ristrutturazione, come struttura mondiale dello sfruttamento funzionante fin dall'inizio degli anni 1990, è consistita nel superamento di tutto ciò che poteva ostacolare la fluidità della sua riproduzione, eliminando tutti i punti di cristallizzazione. L'impossibilità di continuare a sfruttare e a governare come prima è sempre storicamente specificata. Attualmente, per la classe capitalista, questa specificità storica è la connessione, nel processo di valorizzazione, di tutte le istanze del modo di produzione e di tutte le determinazioni funzionali (produttiva, commerciale, finanziaria) del capitale come valore in processo. Vi può essere ancora ristrutturazione, ma per ora non esiste alcuna funzionalità del capitale o istanza del modo di produzione che possano essere i vettori di una tale ristrutturazione. La classe capitalista dovrebbe disfare la trama della totalità: il capitale finanziario e il capitale produttivo, lo Stato e la riproduzione della forza-lavoro, le aree nazionali e la mondializzazione, le produzioni ideologiche e i rapporti tra classe/individuo/Stato/rapporti di produzione come vissuto di queste relazioni. Per il momento, l'aspetto centrale del “momento attuale” si caratterizza per l'esacerbarsi, allorché non fanno più sistema, di tutte le determinazioni della fase di accumulazione che è entrata in crisi.

Alla fine del XIX secolo, la cartellizzazione e la fuga in avanti nell'accumulazione della sezione I (i beni di produzione) rappresentò la reazione del modo di produzione capitalistico allo squilibrio tra le sezioni della produzione, che aveva portato alle caduta del saggio di profitto e alla “grande depressione”; all'inizio degli anni '30, Hoover precede Roosvelt; agli inizi degli anni '70, le politiche di “rilancio keynesiano” precedono Thatcher, Reagan e il “piano di rigore” dei socialisti francesi del 1983; all'alba del decennio 2010, la pressione sul valore della forza-lavoro per accrescere il saggio di profitto e la deflazione attraverso il debito aumentano. Ogni volta, durante la prima fase della crisi, la reazione spontanea è quella di accentuare gli elementi che hanno condotto alla catastrofe. A quel punto, è il corso della lotta di classe, nelle sue forme storicamente specifiche in ragione della natura del rapporto di sfruttamento, ad entrare in crisi, e a determinare il seguito. Non c'è alcuna teleologia del modo di produzione capitalistico.

Nel quadro della crisi del modo di valorizzazione del capitale su scala mondiale, la classe capitalista è costretta a ricomporsi, a rivalutare le relazioni tra le sue diverse frazioni, a porre in essere nuovi compromessi con gli strati sociali dell'inquadramento, a definire le sue gerarchie interne e nazionali. Non si tratterà di un ri-centramento economico nazionale, ma di un'accentuazione dello zoning della valorizzazione del capitale e della mise en abyme di questo zoning, ciò che significa ad un tempo un'accentuazione della segmentazione e della precarizzazione della classe operaia, ma anche una moltiplicazione delle zone intermedie e centrali nelle periferie così come delle loro interrelazioni, mentre una pauperizzazione della classe operaia nelle zone centrali aprirà la via ad una più grande diffusione di questo zoning, sotto il nome di “reindustrializzazione” o “rilocalizzazione”. Attualmente, le “reti sociali” organizzano questa pauperizzazione come una forma polverizzata e dedicata a certi consumi, di un reddito minimo garantito, che è sempre stato un sistema di abbassamento del valore della forza-lavoro impiegata (cfr. la nota 15 sull'acquisto globale della forza-lavoro). Dopo essere stata la condizione e la forma stessa della ristrutturazione negli anni 1980, la finanziarizzazione del capitale produttivo18 è divenuta un ostacolo alla valorizzazione del capitale19. Non è la prima volta nella storia di questo modo di produzione che la classe capitalista deve ricomporsi e reinventare tutte le sue forme di dominazione e di sfruttamento. Ciò che importa oggi è che, da Los Angeles a Shangai, passando per Francoforte, Atene e Il Cairo, «quelli che stanno in alto non possono più vivere e governare come prima»; ma soprattutto, sono le caratteristiche attuali della «impossibilità, per quelli che stanno in basso, di vivere come prima» ad essere determinanti.


E “quelli che stanno in basso”?


Ciò che, da un lato, per “quelli che stanno in alto”, è l'impossibilità di continuare a sfruttare e a governare come prima, dall'altro lato, per la classe sfruttata, per “quelli che stanno in basso”, nella loro infinita diversità, è la rimessa in questione della propria esistenza di classe dentro questa impossibilità di vivere come prima. Nella sua contraddizione al capitale, è la propria esistenza come classe che quest'ultima si trova ad affrontare, è la propria lotta necessaria in quanto classe a diventare una contraddizione per se stessa. Dal lato del proletariato, con la scomparsa dell'identità operaia, la situazione comune agli sfruttati non è più nient'altro che la loro separazione. La tensione all'unità esiste nello scontro con le separazioni; ma allora essa è identica alla produzione dell'appartenenza di classe come una costrizione esteriore. La crisi attuale è una crisi del rapporto salariale, tanto come capacità di valorizzazione del capitale, quanto come capacità di riproduzione della classe operaia in quanto tale.

Nessuna identità operaia confermata all'interno della riproduzione del capitale, nessuna unità di classe come presupposto della rivoluzione – la definizione stessa del modo di produzione capitalistico uscito dalla ristrutturazione degli anni 1970, l'assoluta fluidità, significa che questa ristrutturazione è, sulle sue proprie basi, senza fine, e che essa esiste come molteplicità di contraddizioni e di lotte.

L'attacco e la distruzione di ciò che poteva ancora apparire come caratteristico di un nucleo stabile della classe operaia è un processo continuo, anche se questo “nucleo stabile” non è più il principio che struttura la riproduzione della forza-lavoro, ma una semplice particolarità nella segmentazione generale di questa stessa forza-lavoro, di cui la precarietà e la minaccia permanente della disoccupazione (la minaccia di diventare dei semplici soprannumerari) è il principio generale. Allorché, in Francia, nell'autunno 2010, una frazione della classe operaia rivive in maniera ideale il mito dell'identità e dell'unità degli operai, la lotta contro la riforma delle pensioni sintetizza una molteplicità di lotte locali, che hanno principalmente in comune il fatto di mettere in movimento delle frazioni operaie stabili, minacciate o eliminate dalla chiusura o dalla ristrutturazione della loro impresa o del loro settore. L'identità operaia è rivissuta in maniera ideale poiché non è più tale il contenuto generale del rapporto attuale al capitale; ma questo “ideale” non è fortuito, esso si nutre di lotte locali e trova un comune denominatore adeguato nel tema stesso della pensione, simbolo della dignità operaia20.

Dal canto loro, disoccupati e precari non sono più da molto tempo un accidente delle lotte operaie, un semplice scandalo di fronte al lavoro salariato. La disoccupazione non è più quell'“accanto” dell'impiego, da esso nettamente separato; la segmentazione della forza-lavoro, la flessibilità, l'outsourcing, la mobilità, il part-time, la formazione, gli stages, il lavoro nero, hanno reso fluide tutte le separazioni. Se si passa da un'analisi della disoccupazione in termini di stock, ad una in termini di flusso, una conclusione si impone: i disoccupati lavorano. La loro situazione attuale nel rapporto di sfruttamento è quella di una particolarità che, nella lotta, tende a farsi valere come definitoria dell'attuale rapporto di sfruttamento.

È questo un aspetto centrale della ristrutturazione in quanto abolizione di tutti i punti di cristallizzazione del doppio mulino della riproduzione del capitale: il processo di riproduzione della forza-lavoro nel suo spossessamento di fronte al capitale, da un lato; la riproduzione, dall'altro lato, delle condizioni oggettive del lavoro, come capitale, di fronte al lavoro in quanto soggettività. Ciascuno di questi processi può essere più o meno fluido. La fine della dicotomia tra lavoro e disoccupazione è un momento essenziale di questa fluidità – la quale pone la contraddizione tra le classi al livello della loro riproduzione –; significa egualmente, per la determinazione della lotta di classe, la scomparsa dell'identità operaia tale quale poteva essere confermata all'interno della riproduzione del capitale. Con la lotta dei disoccupati, si impone quasi come un'evidenza che la lotta del proletariato non contiene più alcuna conferma di sé; ciò non si deve alla disoccupazione in quanto tale, ma alla sua inscrizione attuale nel rapporto di sfruttamento.

La posta in gioco delle lotte dei disoccupati e dei precari è di ricomporre la contraddizione – che è lo sfruttamento – a partire dalla disoccupazione e di ridefinire, sulla base di essa, ciò che è il lavoro salariato. Nella loro esistenza attuale (differente da ciò che poteva essere negli anni 1930), le lotte dei disoccupati e dei precari, ponendo la disoccupazione e la precarietà al cuore stesso del lavoro salariato, pongono la questione centrale della lotta rivoluzionaria – ovvero come una classe, agendo strettamente in quanto classe, può abolire le classi – come una questione pratica, come corso e posta in gioco della lotta di classe.

La lotta dei disoccupati e dei precari ha questo contenuto fondamentale: l'impiego salariato nella sua forma classica è sprofondato, la situazione di disoccupato che vi era legata è sprofondata con esso. Nelle lotte dei disoccupati e precari del periodo attuale è la ridefinizione della disoccupazione, la formulazione sociale della sua identità, ad essere il punto di partenza della riformulazione dell'impiego salariato. È un rovesciamento storico: fino all'alba degli anni 1980, è la definizione dell'impiego salariato a definire la disoccupazione. La posta in gioco della lotta dei disoccupati e dei precari, quale che sia la sua ampiezza e la sua capacità di raggiungere i propri obiettivi, è la ricomposizione della classe attorno ai disoccupati – ciò che ne fa un mostro sociale, ciò che concretizza nel proletariato la contraddizione costitutiva dell'accumulazione capitalistica tra, da un alto, la necessità di misurare ogni cosa in tempo di lavoro e di porre lo sfruttamento del lavoro come questione di vita o di morte e, dall'altro, l'inessenzializzazione del lavoro vivo immediato in rapporto a ciò che il capitale concentra in sé a sotto forma di forze sociali. Questa contraddizione inerente all'accumulazione capitalistica, e che fa del capitale una contraddizione in processo, prende allora la forma ben particolare della definizione della classe di fronte al capitale. Tutta la logica della riproduzione capitalistica sta nel movimento inverso: riportare la disoccupazione alla sua definizione in relazione al lavoro salariato, in relazione all'impiego.

D'altra parte, sappiamo che il capitale come contraddizione in processo è la costruzione di due contraddizioni, e se vi è un punto in cui la congiunzione di queste due contraddizioni è tutt'altro che un lungo fiume tranquillo, è proprio quando si tratta di disoccupazione e di precarietà.

L'ascesa del lavoro femminile nel corso degli ultimi trent'anni è essenziale all'instaurazione di questa porosità tra disoccupazione, impiego e una precarietà che diventa dominante. Nelle sue caratteristiche attuali (le donne hanno sempre lavorato), lo sviluppo del lavoro femminile segue la distruzione dell'identità operaia, lo sviluppo della precarietà e della flessibilità, di cui le donne sono le prime vittime. Il lavoro part-time è caratteristico, prima di tutto, del lavoro femminile; da qui l'importanza della presenza delle donne e della loro azione, per esempio, nella lotta dei disoccupati dell'inverno 1997-98 in Francia, il cui segnale fu dato dalla manifestazione di donne di sabato 15 novembre 1997. Ma se la lotta è comune, la contraddizione tra uomini e donne è ovunque presente, tanto nel corso della lotta, nelle forme di attività e nei ruoli impartiti agli uni e alle altre, quanto, fondamentalmente, nelle situazioni che non sono identiche e negli obiettivi che non sono per forza comuni.

«Ciò che si può osservare – scrive Margaret Maruani – in modo decisamente pronunciato, è la resistenza dei meccanismi di discriminazione, della divisione sessuale del lavoro e, egualmente, l'apparizione di nuove forme d'ineguaglianza. Sebbene la crisi dell'impiego non abbia, come in altri periodi, espulso le donne dal mondo del lavoro, sebbene esse non siano state rimandate al focolare, tale crisi ha accentuato la loro vulnerabilità alle intemperie del mercato del lavoro. Cosicché si assiste al ricrearsi, e non solamente al perpetuarsi, di differenze tra uomini e donne, che vanno totalmente controcorrente rispetto all'irresistibile scalata dell'attività femminile. La femminilizzazione del mercato del lavoro non si è accompagnata ad un rimescolamento del mondo del lavoro. Le professioni femminilizzate hanno continuato a femminilizzarsi, i mestieri maschili sono rimasti dei “lavori da uomini”, dei bastioni inattaccabili. [...] La concentrazione delle donne in un numero assai limitato di settori resta uno dei tratti dominanti della struttura dell'impiego.» (Margaret Maruani, Emploi des femmes: un tableau contrasté, in AC: Données et arguments, t. 2, p. 106, Ed. Syllepse). Ma, queste differenze tra uomini e donne, ben lungi dall'andare controcorrente rispetto alla «irresistibile scalata dell'attività femminile», ne sono la ragione principale.

Se la nozione di esercito di riserva è divenuta caduca per parlare dell'impiego femminile, tuttavia il part-time essenzialmente femminile fa parte della “tolleranza sociale” e, spontaneamente, questa tolleranza è presente nel movimento dei disoccupati. Ci sono delle situazioni a cui nessuno può sfuggire, e se la disoccupazione è generale, essa è anche selettiva; quella delle donne è oltretutto più a buon mercato. Nell'Unione Europea, un disoccupato su due riceve delle indennità, mentre questo è il caso soltanto per una disoccupata su tre.

In virtù della presenza massiva delle donne nelle lotte dei disoccupati e dei precari, è l'inversione storica della definizione reciproca tra disoccupazione e impiego salariato, a essere in gioco nella lotta. Ma se questo rovesciamento storico di cui parlavamo all'inizio di questi paragrafi sulle lotte dei disoccupati e dei precari, dipende dalla capacità del proletariato di riconoscere il torto “particolare” inflitto alle donne come la propria situazione generale, questo riconoscimento non va da sé, ma nasce dal carattere sempre già intrecciato delle contraddizioni di classe e di genere e dallo scontro dei loro protagonisti.

Come per i disoccupati e i precari, nel caso dei sans-papier, è sempre in una particolarità che la situazione generale esiste come segmentazione che rafforza la particolarità in cui esiste. Ovunque nel mondo, la contraddizione interna di tutti i movimenti di sans-papier consiste nel lottare contro la clandestinità, nel voler essere dei “proletari normali”, allorché la loro stessa esistenza equivale alla sparizione del “proletario normale”. Ma la “perversione” della precarizzazione generalizzata consiste nel rafforzare la segmentazione all'interno della generalità stessa. L'esistenza dei “senza documenti” esprime allora questa generalità nella particolarità della propria situazione: la mancanza giuridica di documenti. Le gerarchie sono conservate. Così come rivendicare di non essere più un clandestino non può più equivalere alla rivendicazione di essere un “proletario ordinario”, allo stesso modo, nell'esistenza stessa del clandestino, è il “proletario ordinario” a essere in via di estinzione, ma a tal fine il clandestino deve rimanere tale21.

Egualmente, la forte femminilizzazione dei movimenti migratori su scala mondiale, e della clandestinità che sovente li accompagna, non è che una caratteristica supplementare del fenomeno che non cambia nulla nella sua natura e in quella delle lotte, del loro significato e del loro terreno. La segmentazione della forza-lavoro, indissociabile dal rapporto uomini/donne e dall'assegnazione delle donne al loro ruolo di riproduzione della forza-lavoro, è divenuta una segmentazione mondiale. «I dati indicano una tendenza alla polarizzazione non solamente degli introiti salariali, ma anche della qualità dell'impiego. La presa in esame degli impieghi creati più di recente, è centrale per la mia analisi della capacità dei settori emergenti nel produrre ad un tempo degli impieghi altamente qualificati e degli impieghi di bassissima qualità, come portato del capitalismo avanzato. [...] L'organizzazione settoriale, i tipi di impiego e l'organizzazione del mercato del lavoro rafforzano la tendenza alla polarizzazione. Questo modello spiega, in parte, la domanda di lavoratori a basso salario nelle imprese dei settori economici avanzati e nell'assistenza alle professioni altamente qualificate. Le città globali costituiscono il crocevia in cui si incontrano numerose di queste nuove tendenze dell'organizzazione, e in cui si trova precisamente una concentrazione sproporzionata di impieghi di tipo superiore ed inferiore. [...] Il genere gioca un ruolo strategico nell'emergenza e nel funzionamento di certi processi di ristrutturazione. [...] Il ruolo strategico del genere nelle città è evidente, tanto nella sfera della produzione quanto in quella della riproduzione sociale dei settori avanzati dell'economia urbana. [...] Nella sfera della riproduzione sociale, il genere diviene strategico per la manodopera professionale altamente qualificata, e ciò per due ragioni. Innanzitutto la sparizione della lavoratrice domestica che era la “sposa” di queste famiglie – tenuto conto delle lunghe giornate di lavoro da fornire, e inoltre in ragione delle nuove esigenze professionali. Si può osservare, nelle città globali, una proliferazione di ciò che si potrebbe chiamare “unione professionale senza sposa”, nel preciso momento in cui queste unioni devono presentare un modo di vita al passo col progresso. Propongo di riconcettualizzare queste unioni come facenti parte dell’infrastruttura strategica delle città globali, e le lavoratrici domestiche a basso salario come lavoratrici di interesse strategico per questa infrastruttura. [...] Le donne migranti e minorizzate costituiscono una fonte di manodopera privilegiata per questo tipo di lavoro domestico, all’intersezione chiave tra le condizioni di vita dei paesi del Sud globale e le città globali del Nord e del Sud. In altri termini, essere una donna migrante o minorizzata contribuisce a tagliare il legame tra il fatto di occupare una funzione importante nell’economia capitalista mondiale e la possibilità di diventare una forza, come fu il caso nella storia delle economie industrializzate.» (Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore, Milano 2002).

Questo fenomeno della femminilizzazione crescente delle migrazioni internazionali, studiato da Sassen nel quadro delle “città globali”, è maggioritario per ciò che riguarda i flussi provenienti dall'America latina, a partire dagli anni 1990: più del 60% di donne per le migrazioni boliviane, colombiane e peruviane verso la Spagna e fino al 70% per le migrazioni dominicane verso la Spagna e brasiliane verso il Portogallo. Ciò che Sassen analizza per delle categorie sociali particolari nelle “città globali”, è un movimento massivo e generale.

«La “crisi del care” nei paesi europei – risultante dalla crescita del tasso di partecipazione delle donne alla forza-lavoro, dall'invecchiamento della popolazione legato alla caduta del tasso di natalità, e associato ad un allungamento della speranza di vita e alla “nuclearizzazione” montante della famiglia – è stata parzialmente risolta grazie alla manodopera straniera, in particolare grazie alle donne dell' America latina22. [...] Le immigrate forniscono così il contributo necessario, affinché le donne e gli uomini delle classi medie europee possano far parte della forza-lavoro remunerata. Il loro contributo implica da una parte le mansioni di riproduzione sociale quali la cura dei bambini, il lavoro domestico e altre ancora, legate alla famiglia; dall'altra, la cura degli anziani23. Per queste ragioni, le donne immigrate trovano più facilmente un impiego rispetto agli uomini, con remunerazioni relativamente basse per i paesi di destinazione, ma sufficientemente elevate da sollecitare l'emigrazione. [...] La costituzione di famiglie transnazionali implica non solamente un'evoluzione significativa delle relazioni tra i sessi, ma fa egualmente parte di un “nuovo ordine del genere” associato alla mondializzazione. I ruoli delle donne subiscono cambiamenti contraddittori. Da una parte, c'è un inversione dei ruoli, simbolizzata dalla decisione delle donne di emigrare prima degli uomini, o dal loro nuovo ruolo nella cura della famiglia, attraverso l'invio di denaro. Questi due fatti rappresentano per le donne un accrescimento della loro autonomia individuale e finanziaria, che può contribuire a “disfare il genere”. Per altri versi, la maternità transnazionale implica anche una continuità nei ruoli tradizionali della donna. [...] le attenzioni prestate dalle donne emigrate ai loro bambini non cessano allorché queste ultime sono fisicamente assenti24.» (Lourdes Beneria, Travail rémunéré, non rémunéré et mondialisation de la reproduction, in Le sexe de la mondialisation, op. cit. pp. 77-78).

La clandestinità è come intrinseca a questi impieghi femminili. «La divisione sessuale ed etnica del lavoro su scala internazionale assegna le donne a degli impieghi precari, in settori d'attività socialmente svalorizzati: servizi, hotel e ristorazione, salute, piccolo commercio e industria (assemblaggio tessile). La maggior parte partecipa di fatto ad un trasferimento internazionale di lavoro di riproduzione sociale [il corsivo è nostro, ndr]. Quanto alla loro presenza nelle attività legate alla commercializzazione del sesso, essa è legata tra l'altro alla mobilità degli uomini – turisti di ogni genere, o ancora militari, para-militari o pacificatori militarizzati. Tutte queste attività non sono generalmente riconosciute come lavoro e sono rese invisibili, oppure si situano fuori dal quadro regolamentato. Le definizioni, in Francia ed in altri paesi vicini, fanno d'altronde riferimento ai termini “aiuto” o “assistenza” e non al lavoro: domestic helper, Haushaltshilfe, assistante maternelle o aide-ménagère, assistenza o collaborazione familiare.» (Mirjiana Morokvasic, Le genre est au coeur des migrations, ibid., pag 106-107). Questa assenza di un reclutamento negli impieghi legali si accompagna sovente all'informalizzazione e alla tolleranza di fatto degli ingressi. In Germania, ad esempio, si sviluppa un “modello circolatorio” (Mirjana Morokvasic) nel quale sono coinvolte le donne dell'Est. In Italia e in Spagna, le regolarizzazioni successive permettono di assorbire periodicamente la masse delle lavoratrici accumulate: su 600.000 persone regolarizzate all'alba degli anni 2000 in Italia, 300.000 erano impiegate nei servizi domestici25.

Da un lato, questa emigrazione femminile oggi massiva si effettua sulla base dei rapporti di genere stabiliti, che essa conforta tanto tra i datori di lavoro che tra le assunte, e le migranti non mettono in questione i rapporti tra uomini e donne. La maggior parte delle migrazioni femminili obbedisce a delle norme sessuate e a rapporti di dominazione delle donne da parte degli uomini. Al di là del lavoro domestico, le infermiere originarie del Kerala massivamente presenti nei paesi del Golfo, finanziano in questo modo la propria dote, le commercianti tunisine in Italia investono il denaro guadagnato nella dote delle proprie figlie, le moldave che lavorano in Russia in ogni sorta di impiego, lo fanno per essere delle “brave madri”. Numerose donne, lavoratrici domestiche, provenienti dall’Europa dell’Est, organizzano la propria migrazione sotto forma di rotazione autogestita: raramente in più di cinque per gruppo, alternano dei periodi di lavoro in Germania ad altri periodi più lunghi in Polonia; il sistema si basa sulla solidarietà e sulla reciprocità tra le partecipanti. In tal modo, lavorando ai focolari tedeschi o belgi, restano disponibili e presenti in seno alle loro famiglie. La rotazione è scandita dagli obblighi familiari in Polonia. Similarmente, le commercianti tunisine si organizzano per evitare soggiorni prolungati a Napoli e si servono degli uomini come prestanome per le loro imprese commerciali, una maniera per non entrare in conflitto con la posizione mascolina.

Ciononostante, dall'altro lato, anche se in maniera marginale, le donne migranti si appoggiano su questi rapporti di genere nel proprio interesse. Per la dipendente filippina, sposarsi con un giapponese è l’alternativa al ritorno nelle Filippine; l’infermiera del Kerala, finanziando da sola la propria dote, inizia ad affrancarsi da suo padre e dai suoi fratelli: si è “guadagnata” un marito; la commerciante tunisina investe nella dote di sua figlia ma anche nella sua educazione, e il marito non è che un prestanome in una rete del commercio a norie sempre più femminilizzata nella regione euro-mediterranea.

Questa utilizzazione introduce delle segmentazioni nuove e delle contraddizioni tra le immigrate e le sans-papier. A partire da un’inchiesta effettuata negli Stati Uniti, Morokvasic sostiene che: «A dispetto delle ineguaglianze sessuate inerenti al mercato del lavoro, le donne “guadagnano” nella propria emigrazione, a misura di quel che perdono gli uomini in termini di statuto sociale nel nuovo contesto. [...] Anche quando le donne non arrivano ad inserirsi nel mercato del lavoro, esse sono nondimeno “vincenti”, poiché godono di un accesso alle istituzioni e alle risorse che esse non avrebbero avuto nei paesi d'origine. [...] Le ricerche sulle migrazioni di ritorno confermano che le donne sono più restie al ritorno nel paese d'origine rispetto agli uomini. Le donne sarebbero meglio integrate e più inclini a stabilirsi nel paese di destinazione, mentre gli uomini cercherebbero di fuggirlo per ritrovare i valori e le norme che sono loro favorevoli, e che gli fanno difetto nella situazione migratoria, in un ambiente giudicato ostile.» (ibid. pp. 107-108).

L’informalità e il ricorso al lavoro clandestino, e sovente femminile, nelle grandi città dei paesi sviluppati (New York, Londra, Parigi o Berlino) deprezzano un gran numero di attività per le quali esiste una domanda effettiva crescente e che dovrebbero, di conseguenza, trovarsi in una situazione favorevole. Gli immigrati e le donne alle quali è facile imporre bassi salari o scarse entrate, assorbono i costi di questa informalità. Ma gli effetti sono differenti sulle donne e sugli uomini. Saskia Sassen sottolinea che nelle “città globali”, questa informalità che fa del tutto parte delle attività globali più avanzate, «reintroduce la comunità e la casa come importanti spazi economici. [...] Viceversa, il fordismo e la produzione di massa avevano posto il lavoro remunerato a distanza dalle donne e dalle case. [...] Le donne immigrate guadagnano un’autonomia personale ed una indipendenza relativamente più grandi, tanto più gli uomini perdono terreno. [...] Sono loro, nella famiglia, a ricorrere ai servizi pubblici. Questo consente loro una possibilità di essere integrate nella società in senso lato e di essere le mediatrici tra la famiglia e lo Stato.» (Saskia Sassen, Sociologia della globalizzazione).

La partecipazione sempre più importante e talvolta maggioritaria delle donne ai movimenti migratori internazionali, fa in modo che lo sfruttamento della manodopera immigrata (e sovente clandestina nei settori dell’impiego femminile) non possa più essere abbordata fuori dal suo intreccio con i rapporti di genere. In effetti, le donne non vanno ad aggiungersi quantitativamente ai lavoratori immigrati e/o clandestini come elementi neutri che fanno numero, è nella specificità della loro definizione di donne che esse partecipano a questi movimenti internazionali. Sembra che il posto delle donne nei movimenti migratori mondiali ponga in maniera congiunta i rapporti di genere e i rapporti di classe. In maniera congiunta ma non indifferenziata o identica. Per le donne, i rapporti di genere sono intrecciati alle modalità del loro sfruttamento. Il loro inserimento nell’economia mondiale attraverso le migrazioni è sempre sessuato, ma questa sessuazione è non solo il loro rapporto al capitale, ma diventa anche qualcosa che è messo in movimento nel loro rapporto a tutti agli uomini e in primo luogo ai lavoratori migranti maschi. Mentre, per gli uomini, le migrazioni internazionali non rinviano ad altro che ad una situazione economica, per le donne sono i rapporti di genere che informano la loro situazione economica. Non si tratta di dire semplicemente che, per le donne, le migrazioni internazionali aggiungono qualche cosa o che avrebbero un significato supplementare, ma che la sessuazione di queste migrazioni è una dinamica generale del loro svolgimento. La lotta dei lavoratori immigrati e, ancor più, dei clandestini è attraversata dalla contraddizione tra uomini e donne, che ne diviene una caratteristica essenziale se non definitoria.

Andando oltre la lotta in quanto disoccupati, precari, immigrati/e clandestini o meno, nelle periferie delle metropoli capitaliste, in Francia nel 2005, in Inghilterra nel 2011, in Algeria alla minima occasione, e un po’ ovunque e quotidianamente nel mondo, una popolazione eccedente di soprannumerari (gestita attraverso il razzismo, la polizia, la prigione, l’emigrazione e le guerre locali), attraverso la sommossa, non rivendica nulla e attacca la propria condizione in tutto ciò che la rende tale, la definisce e la mantiene. Quando, come è avvenuto in Grecia nel 2008, le sommosse si estendono e perdurano, esse definiscono come proprio bersaglio e – globalmente – come loro posta in gioco, la riproduzione dei rapporti sociali, ma raggiungono questo livello solo identificando, nelle loro pratiche, questa riproduzione con la coercizione. Vivendo quotidianamente questa riproduzione come separata e aleatoria rispetto alla produzione stessa, per gli attori di queste sommosse, essere una classe è l’ostacolo che la propria lotta in quanto classe deve superare e abolire; ma essi pongono questo ostacolo, formalizzano questa contraddizione e lì si fermano. Nel corso delle sommosse greche del 2008, fu solo così – separata dalla produzione, autonomizzata nelle forme istituzionali della riproduzione dei rapporti sociali e in quelle dello scambio – che l'appartenenza di classe fu prodotta, compresa e combattuta come una costrizione esteriore. La rimessa in causa, da parte del proletariato, della sua propria esistenza come classe, non poté esistere che in virtù di un'azione rimasta separata a livello della riproduzione. Anche qui, la generalità della situazione attaccata è rimasta prigioniera della particolarità degli attori coinvolti nella lotta26.

Similmente, nel corso delle rivolte dette “delle banlieues”, il contenuto generale che esse assunsero non si è imposto se non in una forma particolare che, ben lungi dall'essere un semplice involucro, era la sua stessa possibilità di esistenza. Si può vedere il contenuto generale in maniera astratta: la situazione di questa forza-lavoro non sarebbe che una forma transitoria e annunciatrice, in attesa che le conquiste sociali del mondo del lavoro siano eliminate dal processo di deregulation. Una sorta di terreno di sperimentazione degli statuti interamente precarizzati, che saranno in seguito generalizzati in toto o in parte, ed estesi all'insieme dei salariati. In una tale visione, la generalità della frazione della classe operaia che si è rivoltata è astratta, ovvero posta in un'identità nonmediata dalla sua particolarità. Per tre ragioni. Innanzitutto, la precarizzazione non viene compresa come segmentazione, nella sua generalità non è particolarizzata. Inoltre questa generalità, in quanto generalizzazione, è una semplice estensione quantitativa che non viene compresa come rottura storica, ristrutturazione del rapporto tra il lavoro e il capitale, che coinvolge in questo figure storiche differenti del proletariato. Infine, a partire da queste due prime incomprensioni, la precarietà non viene compresa come “generale” in quanto struttura l'insieme del rapporto di compravendita tra il lavoro e il capitale (compresi i segmenti “protetti”), ma per il fatto che essa eliminerebbe puramente e semplicemente ciò che è altro da sé – e qui sono ancora la rottura storica e la segmentazione a dileguarsi.

Così, questo contenuto diventa generale solo se espresso da una frazione e attraverso i conflitti che l'esistenza stessa di questa frazione implica all'interno della classe operaia. La generalità non è quantitativa, e non è neppure nascosta sotto la ganga delle apparenze, ma include le discontinuità e le rotture storiche: essa si produce. Anche se la frazione “stabile” della classe operaia non possiede più in se stessa la propria ragion d'essere, ma è soltanto un segmento della decomposizione della forza-lavoro, essa può vedere in questi rivoltosi un fattore della propria destabilizzazione. Si può temere che ciò non sarà scevro di conflitti, anche “razzializzati”.

C'è da scommettere che ogni azione di grande ampiezza contenente la rimessa in causa e l'attacco, da parte del proletariato, di tutto ciò che lo definisce, comincerà come azione di una frazione della classe che – quale che sia questa frazione – non potrà avere luogo senza conflitti all'interno del proletariato. Il proletariato è una classe di questo modo di produzione, ha in esso la sua esistenza; l'abolizione del capitale sarà l'abolizione del proletariato da parte del proletariato stesso; dobbiamo dunque ammettere che l’autotrasformazione del proletariato nell'abolizione del capitale, possa essere un conflitto all'interno del proletariato stesso. Il proletariato si scontra con la sua propria condizione (ciò che è e non vuole più essere) poiché l’intero suo essere gli sta di fronte nel capitale; ma ciò significa che finché – per quanto in forma parcellare o atipica – il capitale si riproduce, esso riproduce questo essere, riproduce insieme a se stesso i proletari, e in una situazione rivoluzionaria ciò non potrà avvenire senza conflitti interni. Sarebbe pericolosamente irenico non concepire che, nelle periferie e altrove, il rifiuto di tutto ciò che oggi costituisce lo sfruttamento, possa darci dei conflitti dalle tinte assurde e barbare tra questo stesso rifiuto e ciò che continua ad esistere e ad essere vissuto come l’“essere un lavoratore”. Nel caso della Francia – ma non è un'eccezione – da vent'anni a questa parte, la disoccupazione di lunga durata, l’emarginazione legata alla perdita dell'impiego, la reclusione in case popolari degradate, la compressione dei salari, il fallimento scolastico dei bambini, avvicinano le condizioni degli appartenenti a quello che fu il nocciolo duro della classe operaia, a quelle dei gruppi dai quali essi potevano sentirsi distanti, o immaginarsi meglio armati.

L'affermazione di essere un lavoratore non esprime più nulla oltre al capitale, ma solamente l'incubo di essere precipitati di nuovo nel mondo al quale si intendeva sfuggire, cioè una maniera di restaurare un'identità, di scongiurare il declassamento. Non c’è “razzismo ordinario” che non sia, allora, un modo di marcare la distanza che non si vorrebbe vedere abolita, con quelli che sono ancora “un po’ meno”.

Fin dentro la loro organizzazione materiale, il processo di lavoro e le condizioni di riproduzione della forza-lavoro, atomizzano gli operai e li mettono in concorrenza tra loro: responsabilizzazione individuale sulla qualità e sui ritardi; lontananza fisica dai luoghi di lavoro; frammentazione degli orari; valutazione personale e rapporto con il diretto superiore; file di attesa ai centri per l'impiego; liste di attesa agli uffici per le case popolari... L'atomizzazione è tale, e la perdita dell'identità operaia confermata all'interno e attraverso la riproduzione del capitale così inesorabile, che solo lo Stato e la Nazione, le comunità più astratte – e proprio perché sono le più astratte – possono essere fantasticate come comunità di questa individualizzazione (come altrove la religione, nella misura in cui le comunità tradizionali vanno in pezzi). Questa identità si forgia nella delimitazione e nella differenza rispetto agli esclusi dalla vita nazionale, immigrati o anche disoccupati “nazionali” ai quali si rimprovereranno i “vantaggi” concessi dalle “élites mondializzate”. Qui tutto si mescola: l'identità nazionale e il vecchio orgoglio del lavoro. L'identità nazionale rivendicata, è prima di tutto il disprezzo verso gli “esclusi”, fondato sulla convinzione di non esserlo.

“Essere un lavoratore” implica allora una delimitazione tra “noi” e gli “altri”, che si inscrive in un movimento interno al rapporto tra lavoro, welfare e servizi pubblici (abitazioni, scuole, ospedali, poste, etc.): è la rivendicazione di uno Stato “che funzioni”. Il criterio di delimitazione è l'ordine che surdetermina il “buon funzionamento” dell'accesso al lavoro, al welfare, ai servizi pubblici. Questo ordine è la legittimità esclusiva del lavoratore salariato minacciato dai “disoccupati di professione” (sono sempre gli altri), dal “clandestino”, dallo “spacciatore”, da “colui che vive di sussidi”, da tutti coloro la cui identità particolare può essere immaginariamente l'origine di un “vantaggio”, di una “eccezione” alla regola comune. La delimitazione non ha nulla di naturale, essa costruisce i suoi termini, è plastica, e passa oggi tra questo ordine e ciò che lo minaccia, la cui figura paradigmatica è rappresentata dal “giovane arabo” o dalla “banda di neri” e – nella stessa maniera in cui il nazismo inventò gli “ebrei” – da tutti coloro il cui comportamento è assimilato a questo paradigma. Come sempre, il gruppo “razziale” (poiché è di questo che si tratta) è una costruzione interamente storica, informata dai tratti delle circostanze particolari27: il giovane “Gallico” può essere un “Arabo”, e l'Algerino che ha 25 anni di catena di montaggio alle spalle, un “Francese”.

La razzializzazione della lotta di classe è soggiacente alla segmentazione della forza-lavoro; anche altre divisioni possono manifestarsi, e conflitti del genere saranno potenzialmente presenti nello stesso processo di comunizzazione – poiché, in quanto abolizione del capitale, esso è abolizione del proletariato.

Ovunque nel mondo, una popolazione eccedente rispetto alla valorizzazione capitalistica si oppone all'ordine capitalistico mondiale identificato alla sua forma dominante statunitense. Gli interventi americani, della NATO o dell'ONU, sono attività inscritte nella ristrutturazione senza fine: dopo la fine dei nazionalismi, dei populismi e degli altri “sviluppi autocentrati”, nessun quadro nazionale o regionale di accumulazione del capitale deve emergere (tra protezionismo e liberalizzazione, con la Cina, l'India o il Brasile lo scontro è rude). Le forme di intervento sono quelle della disciplina. Se è vero che il principale risultato del capitale è la riproduzione del “faccia a faccia” tra proletariato e capitale, che da questo “faccia a faccia” risulti ipso facto il primo momento dello scambio tra capitale e lavoro (la compravendita della forza-lavoro), ciò non va da sé. Da Gibilterra all'Indonesia, non è un pretesa carenza di sviluppo capitalistico a porre problemi, ma al contrario l'enorme sviluppo specificamente capitalistico che ha avuto luogo negli ultimi 25 anni. La situazione della forza-lavoro è fondamentalmente la stessa che nelle aree sviluppate: la forza-lavoro esiste di fronte al capitale come forza-lavoro sociale globale. Ma allorché, nelle aree sviluppate, si trova globalmente acquistata dal capitale e individualmente utilizzata, non c'è acquisto globale nelle nuove periferie; da qui l'importanza del disciplinamento della forza-lavoro. La disciplina “gestisce” le rotture del terzo momento dello sfruttamento28, essa è necessaria al cospetto di un proletario trasformato in “povero”, di un desiderio/odio per la ricchezza e per gli Stati Uniti, di tendenze velleitarie ma ben reali di rigetto dell'“Occidente” e di secessione. Bisogna simultaneamente schiacciare tutto ciò che potrebbe restaurare uno spazio ed una coesione nazionali (è il ruolo di Israele nel Vicino e Medio Oriente), e mantenere e rafforzare ciò che – attraverso l'islam politico – significa controllo e riproduzione sociale: “l'assistenza sociale” e il controllo della piccola produzione mercantile e delle sue reti.

Per mezzo dell'enorme saccheggio sociale delle economie locali di sussistenza a livello mondiale, è un’estensione dell'accumulazione intensiva a realizzarsi. La mondializzazione non è una macchia d'olio su uno spazio dato, ma una struttura d'accumulazione, la costruzione di uno spazio, come direbbero i geografi: disgiunzione tra la fuga verso “l'alto” della riproduzione della valorizzazione e delle condizioni di accumulazione, e quella verso “il basso” della riproduzione della forza-lavoro e delle condizioni della sua disponibilità e mobilità. Siamo entrati in un mondo capitalistico strano, in cui più i modi di riproduzione della forza-lavoro sembrano allontanarsi dalle “regole teoriche” della sussunzione reale, più il modo di produzione diviene totalmente e ovunque – sotto condizioni, contraddizioni e forme di lotta particolari – specificamente capitalistico. Ma se le cose stanno così, è allora un mondo la cui riproduzione richiede degli interventi militar-polizieschi permanenti.

Allo stesso modo, ovunque nel mondo – ma sempre attraverso contraddizioni e modalità specifiche – l'“asistemicità” della rivendicazione salariale si è imposta29. Il salario non è più un elemento della regolazione d’insieme del capitalismo: c'è disconnessione tra la riproduzione della forza-lavoro e la valorizzazione del capitale; c'è disconnessione tra reddito e consumo, a causa dell'implicazione finanziaria massiva delle entrate salariali (l'indebitamento e i fondi pensione diventano la difesa contro l'esclusione del salario diretto e indiretto dal modo di regolazione); la segmentazione della forza-lavoro diventa funzionale a questo regime dei salari.

Si può aggiungere che nessuna resurrezione delle relazioni salariali tali quali furono nelle aree centrali del capitale, vedrà la luce nello sviluppo del lavoro salariato nei paesi che oggi vengono definiti “emergenti”.

Attualmente, la rivendicazione salariale vede ridefinito il suo carattere centrale nella lotta di classe. Certo, la divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro è sempre definitoria della lotta di classe. Ma, oggi, nella lotta riguardante questa divisione, è paradossalmente ciò che definisce il proletariato, nel suo profondo, come una classe del modo di produzione capitalistico, e nient'altro che questo, che appare praticamente e conflittualmente – nel rapporto stesso con il capitale che lo definisce come classe – il fatto che la sua esistenza diventa per il proletariato il limite della sua propria lotta in quanto classe. Nel corso più triviale della rivendicazione salariale, il proletariato vede la sua esistenza in quanto classe oggettivarsi come qualcosa che gli è esteriore, nella misura in cui è il rapporto capitalistico stesso a porlo, nel suo seno, come un estraneo necessario.

«Negli Stati Uniti, il reddito medio per famiglia ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 15 anni; la diminuzione dei redditi da lavoro costituisce da 10 anni una costante per il 90% dei salariati americani (...) Una coppia con due bambini ha percepito in media, nel 2010, 4120 dollari al mese per il proprio lavoro, cioè il 7,1% in meno del 1999. Quale che sia l'anno preso in esame, la remunerazione media di un salariato americano in dollari, non ha mai superato il livello raggiunto nel 1978. (...) Il 20% meglio retribuito beneficia del 50,2% del totale delle remunerazioni, contro il 49,7% del 2007, allorché i due quinti dei salariati meno remunerati, che ne percepivano già solamente il 12,5% quattro anni fa, ora ne ricevono solo l'11,8%» (Le Monde, 16 settembre 2011).

Sempre negli Stati Uniti, sebbene nel corso di una fase di forte crescita, tra il 2002 e il 2005, «l'1% delle coppie in cima alla scala ha guadagnato 268 miliardi di dollari, mentre il 50% delle coppie che si situano sui gradini più bassi hanno perduto 272 miliardi di reddito» (Saskia Sassen, Mondializzazione e geografia globale del lavoro, in op. cit.)

In Germania, «nel 2001, prima delle riforme di M. Schroeder in favore della flessibilità, le imprese con più di 10 salariati impiegavano 29,7 milioni di persone, contro i 31,5 milioni del 2011. Cioè ci sono due milioni di posti di lavoro in più. Ma nel 2001, si contavano 23,7 milioni di impieghi normali (full-time e a tempo indeterminato) e 5,9 milioni di contratti atipici (part-time, interinali, contratti a tempo determinato). Nel 2011, la Germania non conta più di 23,6 milioni di impieghi “normali”, leggermente meno rispetto a 10 anni prima, e viceversa 7,9 milioni di atipici. Come se tutti gli impieghi creati oltre-Reno da 10 anni fossero, in una maniera o nell'altra, precari. Un quarto della popolazione attiva, dunque, non ha un contratto normale. Le donne sono particolarmente colpite: nel 2010, 2,3 milioni di uomini avevano un contratto atipico (su 16 milioni di attivi), ma le donne in questa situazione erano 5,5 milioni (su 14,8 milioni di attive). Risultato: l’incidenza dei bassi salari nella popolazione aumenta. Nel 2010, il 20,6% dei salariati nelle imprese con più di 10 persone percepivano solo un salario basso, ovvero, secondo la definizione internazionale, una remunerazione inferiore ai 2/3 del salario medio. Erano il 18,7% due anni prima.» (Le Monde, 12 settembre 2012). E non sono gli aumenti “cosmetici” negoziati nel maggiogiugno 2012 nella funzione pubblica e nella metallurgia (che toccano solo il nucleo centrale della classe operaia, sempre più ristretto) a cambiare granché le cose30.

Ciononostante, che sia in Europa occidentale, o nell'ex-Europa dell'Est, negli Stati Uniti, in Cina, in India o in Brasile, tale asistemicità non è uguale a se stessa e non impegna il proletariato in una identica contraddizione col capitale. In Europa occidentale, essa articola il salario diretto al salario differito ed è il segno della ristrutturazione senza fine. Essa raddoppia la segmentazione della forzalavoro e rimanda alla disoccupazione massiva dei giovani. In Europa orientale, essa significa la delocalizzazione di attività produttive, la cui redditività dipende dall'incontro tra una manodopera qualificata e bassi salari. In India, e soprattutto in Cina, la rivendicazione è asistemica nel senso che non fa (ancora?) sistema con l'accumulazione del capitale. In Cina, se i salari aumentano, la loro parte nel valore aggiunto delle imprese diminuisce (dal 53% al 41% tra il 1982 e il 2005) e il consumo interno non rappresenta che il 35% del PIL, dieci punti in meno che nel 2000.

In Cina e in India, non si passerà dalla moltiplicazione di azioni rivendicative multiformi, che toccano tutti gli aspetti della vita e della riproduzione della classe operaia, ad un vasto movimento operaio. Queste azioni rivendicative si rovesciano sovente, e “paradossalmente”, nella distruzione delle condizioni di lavoro. Le grandi concentrazioni operaie in India o in Cina si inscrivono, per il momento, in una segmentazione mondiale della forza-lavoro. Tanto per la loro definizione mondiale quanto per la loro collocazione nazionale, esse non possono essere considerate come il risorgere altrove di ciò che è scomparso in “Occidente”. Era un sistema sociale di esistenza e di riproduzione che definiva l'identità operaia, e che si esprimeva nel movimento operaio; e non la semplice esistenza di caratteristiche materiali quantitative. Tuttavia, il carattere allo stesso tempo asistemico e inevitabile della rivendicazione salariale, situa l'esistenza di tali caratteristiche in una relazione contraddittoria tanto rispetto al capitale nazionale che a quello straniero, davvero particolare. Più in alto, abbiamo presentato a grandi linee la situazione che deve essere superata, affinché la Cina o l'India pervengano a costituirsi per se stesse come mercati interni. Ma i lineamenti di nuovi sviluppi capitalistici sono presenti, così come sono presenti nelle rivolte arabe del 2011, e questi lineamenti definiscono anche delle prospettive, delle correnti eterogenee all'interno del corso della crisi.

Dalla Tunisia alla Siria, lo scontro sociale e politico si è organizzato attorno a due poli opposti: da un lato una classe capitalista costruita come un'oligarchia clientelista che si confonde con gli apparati repressivi dello Stato; dall'altra, un “movimento di piazza” che coinvolge le masse urbane proletarizzate, le concentrazioni operaie, le classi medie marginalizzate, il piccolo contadiname senza prospettive. L'inclinazione naturale della lotta di classe è stata un interclassismo il cui contenuto specifico è la politica: la formazione di una società civile.

La rivendicazione della produzione di una società civile è stata, specificamente, il contenuto politico dell'interclassismo; essa è divenuta il contenuto di tutte le rivolte, la rivendicazione che le ha unificate. Per società civile, intendiamo l'insieme delle istanze, associazioni, organizzazioni, istituzioni, dispositivi di negoziazione e di traduzione dei conflitti, attraverso i quali i rapporti di produzione del modo di produzione capitalistico esistono nella loro storia specifica in un'area nazionale, in quanto rappresentazione e articolazione della loro riproduzione vis-à-vis il potere politico e gli apparati direttamente statali. La suddetta rivendicazione è stata una sorta di etere, in cui si sono bagnate tutte le motivazioni e le rivendicazioni proprie a ciascuna componente delle rivolte, e che ha conferito loro la propria colorazione particolare. Essa non ha dirottato né ingannato nessuno degli attori di queste rivolte, nella misura in cui ha rappresentato il contenuto dell'interclassismo, il quale era incluso, per ciascuna componente, nella sua opposizione particolare alla classe dominante.

Che sia in ragione delle modalità e delle forme dello sfruttamento diretto della forza-lavoro; a causa della creazione di una massa di disoccupati ed esclusi o di un proletariato fluttuante tra sottoimpiego ed economia informale; che sia per la rovina delle classi medie e degli imprenditori indipendenti; che sia, infine, per le forme dirette e violente della dominazione sull’insieme della società, necessarie alla trasformazione di tutte le attività che entrano nella valorizzazione del capitale in attività generatrici di rendita, ogni componente del movimento ha trovato nella ragione particolare che la spingeva sulla scena, la causa dello sviluppo interclassista della propria lotta. Infine, poiché i profitti diventano investimenti quasi esclusivamente indirizzati a queste attività, trascurando «l’economia nazionale» e le infrastrutture; poiché sono consumati come reddito o sono «esportati», questa valorizzazione del capitale attraverso la generazione di rendita, confina la grande maggioranza dei giovani dentro ad attività economiche marginali, informali, senza futuro, il cui teatro è la strada. La strada non è solamente un luogo, ma una forma di lotta adeguata a questo interclassismo politico; non solo perché è il luogo d’attività della massa proletaria urbana dei senza riserve, che forma il più consistente battaglione di queste rivolte, ma anche perché è per mezzo del potere della strada e della presa delle piazze che si esercita il potere politico di queste masse, ovunque si verifichi la stessa polarizzazione tra un classe capitalista rentière profondamente integrata alla valorizzazione del capitale, ed il suo inverso, il suo principale prodotto: un proletariato urbano informale.

I partiti islamisti sono portatori di una risposta politica globale della classe capitalista alla questione della distinzione e dell’articolazione tra i rapporti di produzione, la società civile e lo Stato. Essi non apporteranno alcuna soluzione alla miseria, allo sprofondamento economico, alla disoccupazione; le contraddizioni tra le classi, gli scioperi e le sommesse continueranno. Ma sarà possibile circoscrivere le lotte economiche, sociali e politiche nel loro spazio proprio, fare loro adottare il linguaggio dello Stato e rendere la repressione legittima.

“Votare la religione” non è votare per una persona o per un partito, è votare per una mediazione sociale, ovvero una rappresentazione della riproduzione della società come un tutto che assume la forma dell’universale. Dignità, fiducia, importanza dei valori, onestà, bene pubblico, giustizia, comunità, benevolenza, moralità, mutuo appoggio familiare etc., è cosi che le lotte si sono autocomprese: reclamare lavoro, un condotto per l’acqua o la raccolta dei rifiuti, sono richieste concrete e triviali, ma è «in forme ideologiche che il conflitto viene combattuto». Gli islamisti sono ora il partito dell’ordine, ma il partito dell’ordine uscito dalla “rivoluzione”.

L’ordine è l’ordine morale. L’ordine morale non è un semplice ornamento spirituale dell’opera di restaurazione dello Stato e di ricomposizione della classe dominante; esso ha un contenuto economico e sociale ben materiale, immediato, concreto, e dà alla società civile – in quanto compromesso sociale tra le classi – la sua praticabilità, sottomettendo la metà della popolazione, le donne, all’altra metà, gli uomini.

Si tratta qui della maniera in cui gli effetti della crisi vanno a pesare prevalentemente sulle donne (disoccupazione, precarietà, abbassamento dei salari, aumento del lavoro domestico, distribuzione del credito o tontinaria etc.) e della riproduzione della distinzione di genere nel corso delle lotte, nei quartieri e nelle fabbriche. Il programma di restaurazione di una vita pubblica non corrotta economicamente e moralmente, passa per un accrescimento ed una legittimazione dell’esclusione delle donne; è nella natura della vita pubblica di esistere in opposizione alla vita privata, ed è nella natura di questa opposizione, all’interno dei rapporti sociali capitalistici, di essere una distinzione di genere. L’ordine familiare è il garante e la condizione della moralità della società civile.

La famiglia e la condizione femminile diventano, per tutte le classi sociali, il contenuto del rapporto ideologico adeguato alla posta in gioco delle lotte di classe in corso, in quanto ridefinizione della relazione tra rapporti di produzione/società civile/Stato e ricomposizione della classe dominante, la quale era giunta – nella sua forma e nelle sue modalità d’azione anteriori – a mettere in pericolo lo Stato stesso. L’ordine morale firma, sul volto velato delle donne, l’atto di nascita della società civile come luogo del compromesso in cui si regolano, nella società che lo Stato rappresenta, i conflitti che definiscono i rapporti di produzione31.

Che la tendenza generale – ma non è che una tendenza generale – sia, nella lotta di classe, la produzione dell'appartenenza di classe come una costrizione esteriore, non elimina né la rivendicazione salariale – quale che sia la sua asistemicità – né la “difesa delle conquiste”, né l'apparizione, in alcuni momenti di conflitto, di velleità autogestionarie, là dove le condizioni economiche, tanto a livello dell'articolazione mondiale del processo di produzione immediato, quanto a livello delle modalità del solo processo di lavoro, lo permettono. Possiamo evocare l'Argentina dell'inizio degli anni 2000, ma anche altri casi in Europa, in Asia e altrove in America del Sud, dove i governi detti “populisti” non sopravviverebbero senza l'appoggio, anche turbolento, di un'ampia frazione del proletariato. Ciò non toglie, per noi, la possibilità di affermare, ad esempio, che ciò che è successo di essenziale in Argentina è che tutte le forme di autorganizzazione, di autonomia, di recupero, di assemblee, hanno immediatamente incontrato i propri limiti, nella forma di un'opposizione e di una contraddizione interna che le ha trattate come perpetuazione della società capitalistica. Ci si autorganizza come disoccupati della Mosconi, come operai della Bruckman, come abitanti delle bidonvilles, ma facendo questo, laddove ci si autorganizza, si va ad urtare immediatamente contro ciò che si è, che diventa ciò che nella lotta deve essere superato. L'unificazione è impossibile, senza essere precisamente l'abolizione dell'autorganizzazione, senza che il disoccupato, l'operaio della Zanon, l'occupante di un'abitazione possano smettere di essere disoccupati, operai della Zanon o occupanti di abitazioni. O c'è unificazione – ma allora c'è abolizione di quello che è autorganizzabile; oppure c'è autorganizzazione – ma allora l'unificazione è un sogno che si perde nei conflitti che la diversità delle situazioni implica. Nella difesa dei propri interessi immediati, il proletariato è condotto ad abolirsi poiché la sua attività nella “fabbrica recuperata” non può più rimanere rinchiusa nella “fabbrica recuperata”, né nella giustapposizione, nel coordinamento, nell'unità delle “fabbriche recuperate”, né men che meno in ciò che è autorganizzabile.

Il proletariato non può lottare contro il capitale senza rimettere in causa tutte le determinazioni che lo definiscono nella sua implicazione con il capitale. È ciò che si è visto affiorare nella contraddizione interna dei progetti produttivi (autorganizzazione della classe le cui modalità effettive rovesciano tutte le determinazioni definitorie della classe) e nei conflitti tra strutture autorganizzate.

Infine, da un estremo all'altro del pianeta del capitale, c'è, tra queste «correnti assolutamente differenti», tra questi «interessi di classe e di frazioni di classe assolutamente eterogenei», l'ingresso nella lotta delle classi medie proletarizzate o sul punto di esserlo, o che semplicemente vedono il loro livello di vita terribilmente minacciato, anche senza cambiare di posto nella divisione del lavoro.

Le classi medie si caratterizzano, tra l'altro, per questa minaccia costante della proletarizzazione, e per un lavoro altrettanto costante e accanito di ricostituzione delle gerarchie. Lavoro, fino ad oggi, coronato da successo nella maggior parte dei casi, nella misura in cui le classi medie sono una creazione funzionale inscritta nei rapporti di produzione capitalistici. Tutto ha origine all'interno della contraddizione tra proletariato e capitale, ma dobbiamo considerare il concetto di sfruttamento in tutta la sua estensione e il suo sviluppo: il salariato come rapporto di produzione e rapporto di distribuzione; la distinzione tra lavoro semplice e lavoro complesso (costitutivo del valore, del tempo di lavoro sociale medio) – questi primi due punti permettono di introdurre strutturalmente l'importanza e la pertinenza della gerarchia dei redditi; la dualità della cooperazione (il lavoro salariato implica la concentrazione dei mezzi di produzione di fronte ad esso nella produzione su grande scala); il lavoratore collettivo; la circolazione del valore (D-D'); la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo (che non deve essere sostanzializzata sotto forma di persone); la necessaria riproduzione del rapporto, con tutte le istanze e le attività che vi sono legate. Si tratta di determinazioni intrinseche al rapporto tra proletariato e capitale, che non solo segmentano il proletariato, ma oltretutto si cristallizzano nella produzione delle classi medie: ambivalenza del salario, cooperazione, riproduzione, lavoro complesso (alle quali si possono aggiungere gli ineguali livelli di sviluppo dell'accumulazione capitalistica che vanno a surdeterminare tutto questo). È la cristallizzazione sociale di queste determinazioni, ordinandole in modo particolare, che, a partire da esse, ci dà le classi medie.

Nel cosiddetto movimento degli Indignati, non si può che rimanere colpiti dall'estrema diversità delle origini sociali dei partecipanti, e dalla diversità delle richieste. Rivendicazioni e sogni rafforzano l'evidenza di questa differenziazione. Questa diversità è anche quella tra coloro che si trovano già nella situazione contro cui si lotta, e quelli che con tutta evidenza sanno, senza trovarvisi ancora, che stanno per cadervi. Per ciò che concerne la Grecia, ma la cosa sembra abbastanza generale, i compagni di Blaumachen sottolineano che il movimento, nel momento stesso del suo successo – cioè laddove attira a sé coloro che sono già nella situazione contro la quale esso si leva – si affonda da sé e non sopravvive. Ciò fa pensare al movimento anti-CPE in Francia, subito dopo le sommosse delle banlieues del 2005: un movimento che non poteva andare oltre la propria auto-comprensione come movimento generale contro la precarietà, ma che si affondava da sé nella propria specificità studentesca. Negli Stati Uniti, la differenza tra i movimenti di New York e di Oakland marca questa dinamica e questa cesura – così come in Europa il poco successo riscosso dal passaggio dall'occupazione delle piazze ai comitati di quartiere (con l'eccezione, occasionale, di Barcellona). Il limite essenziale che al momento struttura questi movimenti, è il fatto che la battaglia sulla riproduzione generale della forza-lavoro occulta nei rapporti di distribuzione la determinazione di questi ultimi da parte dei rapporti di produzione. Talvolta questo limite appare come contraddizione interna al movimento e dinamica del medesimo.

Lo slogan avanzato dal movimento newyorchese, “il 99% contro l'1%”, oppone l'insieme della popolazione non a una classe definita all'interno dei rapporti di produzione (in effetti tutta la produzione sarebbe dalla “nostra” parte), ma a una banda (una gang) di prevaricatori. La cifra stessa dice che non si tratta di una “cesura” di classe. Questa cesura non può non far pensare al saintsimonismo della classe degli industriali: tutti coloro che partecipano realmente alla produzione, compresi i banchieri “buoni”. Nel migliore dei casi, ci troviamo di fronte all'opposizione tra ricchi e poveri, che non ha mai definito delle classi, ma che non è senza importanza per la lotta di classe, nella misura in cui la loro definizione e la loro opposizione (lo sfruttamento) implicano il reddito come riproduzione della forza-lavoro ad un polo, e la concentrazione della ricchezza all'altro.

Possiamo qui riprendere un estratto di “Théorie Communiste”, n. 20: «Le classi non sono né sommatorie di individui tenuti insieme da interessi comuni, ritagliate sociologicamente all’interno della totalità sociale, né delle pure attività storiche, come l'Internazionale Situazionista e una parte dell'ultrasinistra, all'inizio degli anni '70, hanno creduto. Bisogna dire questa cosa triviale: il proletariato è la classe dei lavoratori produttivi di plusvalore. Soltanto dopo aver detto questo, si definisce la classe in maniera storica, poiché si è allora posta una contraddizione, cioè lo sfruttamento, e la polarizzazione dei suoi termini. Il proletariato e la classe capitalista sono la polarizzazione sociale in attività contraddittorie della contraddizione costituita dalla caduta tendenziale del saggio di profitto. La contraddizione che risulta, nel modo di produzione capitalistico, dal rapporto tra l'estrazione del plusvalore e la crescita della composizione organica del capitale, si sviluppa come perequazione del saggio di profitto sull'insieme delle attività produttive, e struttura come rapporto contraddittorio tra classi l'insieme della società. In questa polarizzazione, sono le categorie della società del capitale che si dissolvono come proletariato contro il capitale e la classe capitalista.»

Dire che il movimento è interclassista non significa, di conseguenza, squalificarlo, ma innanzitutto riconoscerlo per quel che è; significa in fin dei conti “sfondare una porta aperta”, ma soprattutto essere capaci di riconoscerne i limiti, nominandoli con precisione e in una maniera nonnormativa. È inutile dire «il movimento non è abbastanza così o abbastanza colà», oppure «è troppo questo o troppo quell'altro».

L'interclassismo è semplicemente uno di questi limiti. Nel cosiddetto movimento degli Indignati, come – in circostanze totalmente diverse – nelle “rivolte arabe”, l'interclassismo è il movimento nel quale la classe operaia incontra la propria appartenenza di classe come un limite della sua azione in quanto classe. Giacché, se c'è interclassismo, ciò significa che ci sono anche operai, disoccupati, precari etc. L'interclassismo non è, per i proletari, una mistificazione, ma il punto in cui, in certe condizioni, essi vengono condotti dalle loro lotte. Si tratta di una delle forme della situazione generale attuale della lotta di classe. Ma non bisogna ingannarsi: è attraverso i conflitti interni ad una tale situazione – conflitti interni a questi movimenti – che questa situazione generale può rendere l'appartenenza di classe in quanto costrizione esteriore, la posta in gioco stessa della lotta.

Che, per il proletariato, agire in quanto classe sia il limite della sua azione in quanto classe, è oggi una situazione oggettiva della lotta di classe; che questo limite sia costruito nelle lotte in quanto tali, e divenga l'appartenenza di classe come costrizione esteriore, è una posta in gioco di queste lotte: livello di conflitto con il capitale; conflitti all'interno delle lotte stesse. L'interclassismo è uno di questi conflitti. Questa trasformazione è una determinazione della contraddizione attuale fra le classi, ma essa è ogni volta la specificità di una lotta ad un momento dato e in condizioni date. Non avremo mai un “movimento puramente proletario, libero da ogni mediazione”. Inoltre, la forma e il contenuto politici di questo interclassismo, nella sua auto-comprensione, non devono essere misconosciuti: «Bisogna poi (affinché una rivoluzione abbia luogo) che le classi dirigenti attraversino una crisi di governo che trascini alla vita politica finanche le masse più ritardatarie (l'indice di ogni vera rivoluzione è un rapido aumento al decuplo, o anche al centuplo, del numero di uomini atti alla lotta politica, tra le masse lavoratrici e oppresse, fin là rimaste apatiche.» (Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo).

È vero che ritroviamo, fra gli Indignati, tutti i temi del democratismo radicale, compreso lo slogan “un altro mondo è possibile”, ma un movimento sociale non si definisce unicamente sulla base di ciò che dice di sé. Il momento, il contesto, non sono più gli stessi; i medesimi elementi, differentemente ritagliati e assemblati, hanno allora un altro significato. Il grande cambiamento consiste nel fatto che gli Indignati, contrariamente al democratismo radicale, non esprimono più la formalizzazione di tutti i limiti delle lotte attuali. Nel suo discorso a OWS (Occupy Wall Street), Naomi Klein non si è sbagliata: «il nostro movimento – ha detto, in sostanza – si situava dentro ad un capitalismo prospero, nel 1999, al culmine di un ciclo economico». Il capitalismo doveva allora comportarsi con fair-play poiché rappresentava un orizzonte insuperabile. Il democratismo radicale, in quella fase del ciclo economico, poteva essere non solo la formalizzazione dei limiti delle lotte e la loro ratifica, ma ancor più, il progetto sociale costruito sul corso stesso delle lotte in quanto lotte rivendicative.

Il democratismo radicale era davvero il progetto di compimento delle lotte rivendicative, e in quanto tali esse non potevano averne un altro. L’evoluzione del tempo di lavoro doveva essere portatrice dell’emancipazione nel tempo libero; il reddito universale doveva divenire il passaggio all’attività benefica per l’individuo e per la società, ovvero all’abolizione dello sfruttamento all’interno del quadro del salariato; la rivendicazione salariale veniva considerata condivisione della ricchezza; la mondializzazione e la finanza, divenute primarie rispetto a ciò di cui erano la mondializzazione (il capitale), erano identificate allo sfruttamento.

Gli stessi temi possono essere ripresi oggi, ma – dopo l’inizio della crisi, le sommosse greche, le rivolte delle banlieues in Francia, le rivolte inglesi dell’estate 2011 e, in generale, con l’asistemicità della rivendicazione – assumono tutt’altro significato. Il silenzio degli uni la dice lunga sulla vacuità delle rivendicazioni degli altri. Questi ultimi non formalizzano e non ratificano più i limiti delle lotte. Nel suo discorso e nella sua stessa forma (gli accampamenti autogestiti), quella che si esprime è una dissidenza che ribadisce, a modo suo, l’asistemicità della rivendicazione. Sebbene questa dissidenza non abbia alcun progetto differente da se stessa, in quanto tale essa può appropriarsi tutte le parole d’ordine che erano proprie del democratismo radicale. Ma esse non hanno più lo stesso senso. Laddove le parole d’ordine avevano un segno positivo (democrazia diretta, sviluppo sostenibile, controllo della finanza etc.), ora assumono un significato negativo: «Voi non ci rappresentate più!». Anche quando si sciorinano i più bei discorsi su una rifondazione sociale, le parole proferite dai professionisti della rappresentazione contestataria non fanno che travestire la paura, la disperazione e la rabbia, o… l’impotenza alternativa. Il democratismo radicale formalizzava e ratificava i limiti delle lotte; gli Indignati sono il limite autogestito del loro proprio movimento, ovvero della loro ragion d’essere: il dissanguamento sistematico dell’insieme dei salariati.

Si tratta di politica e di distribuzione. Per questo, non c’è contraddizione tra la ragion d’essere di questo movimento e il discorso che attualmente tiene su se stesso. La crisi attuale, essendo fondamentalmente, nella sua specificità storica (specificità che non è il fenomeno della “vera realtà” della caduta tendenziale del saggio di profitto) crisi del rapporto salariale, mette in moto tutti gli strati e le classi della società che vivono di salario. Dunque è il salario ad essere in questione, poiché è di distribuzione che si tratta, e il salario è il prezzo del lavoro, forma feticistica necessaria del valore della forza-lavoro, allorché – come nel modo di produzione capitalistico – non si lavora due volte (una per il lavoro necessario e l’altra per il pluslavoro). In quanto prezzo del lavoro, il salario richiama l’ingiustizia della distribuzione: è normale32. L’ingiustizia della distribuzione ha un responsabile, che ha fallito nella sua missione: lo Stato.

Sotto il coperchio del “tutti i salariati”, sono quindi «interessi assolutamente differenti», ma non per forza «eterogenei», ad essere mobilitati. Ancor più, perché è dello stesso asse portante della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa fase del capitale ora entrata in crisi, che si tratta. Nel n. 16 di “Théorie Communiste” (p. 101) scrivevamo: «Crescita debole, disoccupazione come momento del rapporto salariale (e non più come suo opposto), modificazione del ruolo e del funzionamento del dominio statunitense, ritorno delle crisi da cicli brevi, regolazione finanziaria della perequazione del saggio di profitto, sono alcune delle caratteristiche del rapporto capitalistico ristrutturato e gli assi attorno ai quali si modulerà la sua crisi. Nel rapporto capitalistico ristrutturato, gli assi portanti della caduta tendenziale del saggio di profitto appaiano al livello della perequazione, al livello della trasformazione del plusvalore in capitale addizionale, al livello della riproduzione (nella prima fase della sussunzione reale, questi assi si definivano sul piano della riproduzione collettiva della forza-lavoro e su quello del processo di lavoro). La contraddizione di questa fase della valorizzazione si situa tra il lavoro immediatamente produttivo e la condizione stessa di questo lavoro: essere una forza-lavoro socializzata, essere il “general intellect”». Ora siamo entrati in questa crisi, che comporta il momento dell'interclassismo della “forza-lavoro socializzata” in tutta la sua ambiguità attuale, come luogo e termine della contraddizione che, nella sua specificità, è portatrice della caduta tendenziale del saggio di profitto. In questo senso, l'interclassismo è una determinazione attualmente inaggirabile della lotta di classe. Il “lavoratore collettivo” non è il nuovo nome del proletariato, ma il suo problema e un momento dinamico della sua lotta.

La lotta sulla distribuzione, sul salario come prezzo del lavoro, è innanzitutto una forma instabile. Nei modi di produzione anteriori al capitale, il plusvalore è concretamente visibile, e ciononostante esso non può essere riconosciuto e definito nella sua essenza che nel modo di produzione capitalistico (processo di valorizzazione del valore), dove è occultato. Il plusvalore non è più allora una forma, allo stesso titolo del profitto o dell’interesse: esso è pluslavoro. Nel modo di produzione capitalistico, il modo specifico di estrazione di questo pluslavoro è un modo di formazione dei redditi (un modo di ripartizione): è la costituzione del profitto, dell’interesse e della rendita. Il loro costituirsi in reddito è una forma trasformata del plusvalore, nella quale i redditi sono legati non al pluslavoro, ma direttamente all’elemento del processo di produzione al quale sono legati. Per quanto concerne il lavoro, esso dà il salario.

Nel modo di produzione capitalistico, la lotta di classe è innanzitutto inscritta nelle forme (salario, profitto-interesse, rendita) del processo di produzione; essa, di primo acchito, non è che uno scontro di forze, all’interno di certi limiti determinati direttamente dal processo di produzione. Occorrono condizioni particolari affinché le forme siano praticamente designate per ciò che sono, cioè come “forme trasformate”. Nella loro generalità interclassista, i movimenti degli Indignati in giro per il mondo – per quel tanto che possono avere di comune – designano simultaneamente il salario come prezzo del lavoro, come forma di ripartizione, e, in virtù della medesima generalità, tutti i redditi – quelli della rendita, del profitto e dell’interesse – come fossero dipendenti dal lavoro. Il salario in quanto prezzo del lavoro designa allora ciò che occulta: il salario come valore della forza-lavoro, come lavoro necessario, e tutti gli altri redditi come forme trasformate di pluslavoro. «Non pagheremo la vostra crisi». Ma questa designazione è ancora ideologica giacché, per questo movimento, la propria stessa esistenza – ovvero le proprie condizioni di esistenza, ovvero le condizioni esistenti, ovvero le condizioni che gli permettono di esistere e con ciò lo definiscono, ovvero ciò che gli permette di effettuare questa designazione – è allo stesso tempo la maschera della specificità del lavoro produttivo.

Con l’interclassismo, tocchiamo con mano il fatto che, affinché il concetto di classe possa essere prodotto, bisogna che anche le suddivisioni di classe lo siano. Quando si parla di salario, la determinazione a partire dai rapporti di produzione è insufficiente; bisogna egualmente determinarlo a partire dai rapporti di distribuzione/consumo, nella misura in cui questi si articolano sui rapporti di produzione. Sebbene il salario in quanto categoria della produzione determini il salario in quanto categoria della distribuzione, le due categorie non coincidono. Esiste una differenza tra la classe operaia per come è definita attraverso la partecipazione al reddito sociale sotto la categoria del salario, e che, come tale, ingloba tutti i lavoratori produttivi e non produttivi necessari al processo di lavoro, e la classe operaia per come è determinata dal salario in quanto categoria della produzione, all’interno del rapporto salario/plusvalore, e che, come tale, non include che il lavoro produttivo. L’interclassismo è anche un gioco di suddivisione della classe operaia dentro l’ambiguità sociale, concreta, del salario. E questo gioco scende in strada, giacché le strutture stesse scendono in strada: in quel momento si chiamano “soggetti”.

Il momento attuale della crisi, la quale si può definire come crisi del rapporto salariale (cfr. Le moment actuel, “Sic” n.1, novembre 2011), si caratterizza innanzitutto come delegittimazione del politico (la crisi del rapporto salariale è crisi delle forme di distribuzione e redistribuzione) che viene stigmatizzato dal movimento in nome di una vera politica, in secondo luogo come chiusura del futuro, concepito come ascesa sociale, e in terzo luogo come generalità dell’attacco a tutti redditi da salario. In ciò, il momento attuale della crisi non soltanto colpisce, tra le altre, le classi medie e le trascina in strada, ma, ancor più, le sue stesse forme fanno temporaneamente delle classi medie le rappresentanti del momento, in un congiunzione conflittuale con i disoccupati e i precari; ciò che conferisce al movimento, ad un tempo, la sua aria chic e il suo aspetto incontrollabile. Il movimento degli Indignati è preso in una morsa: legato al capitale dal risentimento, cerca di far valere la propria fedeltà a tutti i valori della società borghese, che da questo punto di vista viene colta solamente come società civile, interazione tra gli individui il cui risultato sfugge loro; nostalgico dell’ascesa sociale in ragione di taluni vantaggi materiali acquisiti dai suoi attori, e soprattutto in ragione del fatto di detenere un proprio “capitale” culturale, esso sogna di restaurare il capitalismo dei “Trenta Gloriosi”, o anche solo quel capitalismo che gli permetteva, attraverso il credito, di soddisfare i propri progetti di ascesa.

Imbrigliato dalla crisi del rapporto salariale e dal brusco sprofondare della situazione dei suoi attori – che subiscono la pressione della crisi, nella quale i rapporti di distribuzione e il salario in quanto prezzo del lavoro, designano loro malgrado ciò che nascondono – il movimento è obbligato a mentire a se stesso, a barcamenarsi, a durare per il gusto di durare. Esso non può evitare il proprio fallimento, giacché è impossibile mettere gli artigli sui rapporti di produzione senza abbandonare il terreno della distribuzione (che è egualmente quello degli scioperi e delle rivendicazioni operaie). Ma abbandonare questo terreno non è una semplice questione di discorsi teorici o di correttezza delle analisi; ciò non è possibile senza che tutte le contraddizioni che oppongono “quelli che stanno in basso” alla riproduzione dello stato di cose esistente, si congiungano, fondendosi, in una congiuntura che sia una unità di rottura.

Infine, attraversando tutte queste segmentazioni, questi conflitti e contraddizioni differenti, e talvolta anche costituendoli, lo sfruttamento è ovunque un processo di razzializzazione e di etnicizzazione. Quali che siano gli Stati o le regioni considerati, mai la contraddizione tra il proletariato e il capitale si mostra in chiaro, come la contraddizione semplice di due termini esistenti nella purezza del loro concetto. Le forme di apparizione sono essenziali alla definizione di ciò che “appare”.

Poiché lo sfruttamento capitalistico è universale, poiché il capitale può impadronirsi di tutti i modi di produzione o farli esistere accanto a sé, sfruttarne la forza-lavoro o sradicarla dalle sue vecchie condizioni di esistenza, il modo di produzione capitalistico è una costruzione storica che fa coesistere, nel suo momento attuale, i differenti strati della sua storia. La borghesia è rapidamente diventata occidentale e bianca, nella misura in cui è immediatamente cresciuta dentro la sua rivalità con l'Oriente (non si è “occidentali” semplicemente perché si vive a ponente), nella misura in cui ha fatto dell'Europa il centro dell'economia-mondo, asservendo il mondo ad un modello e gerarchizzandolo, nella misura in cui tale modello non ne tollera alcun altro. Ma, così come gli strati storici non diventano automaticamente dei momenti sincronici, non è per questa ragione che il modo di produzione crea senza sosta le razze e le etnie. Per fare ciò, occorre l'intervento di quattro determinazioni essenziali: il suo sviluppo ineguale come legge della sua accumulazione; l'aspetto storico del valore della forza-lavoro; la divisione del lavoro; la personificazione e la soggettivazione dei rapporti sociali. La razzializzazione è la combinazione delle prime tre con la quarta.

Nei rapporti di produzione capitalistici, non abbiamo a che fare con degli “individui concreti”, in quanto immediatamente esistenti come individui singolari nella loro unità, ma solamente con individui che ricoprono certe funzioni determinate, come supporto di queste ultime: “portatori di forza-lavoro”, “rappresentanti” o “funzionari del capitale”, “donne” o “uomini”. La loro individualità è un effetto dei rapporti di produzione, non è qualcosa di preesistente, non è il fatto di un soggetto, così come i rapporti di produzione non sono un “incontro” intersoggettivo. È la personificazione dei rapporti sociali a produrre gli individui come soggetti. Il soggetto è l'individuo prodotto come il centro o l'intersezione di tutte le determinazioni. Il soggetto concentra il tutto in se stesso, a tal punto che si potrebbe dire che sia – come la famosa monade di Leibniz – una “parte totale”. Il soggetto diventa il centro, a partire dal quale sarebbe possibile conoscere e ricostruire l'articolazione di tutte le determinazioni del modo di produzione capitalistico. La personificazione è la congiunzione in un individuo di determinazioni sociali manifestantesi in maniera rovesciata come esistenza di questo individuo in quanto soggetto, cosicché i suoi rapporti diventano la sua attualizzazione come opera sua. Questo rovesciamento, questa personificazione33, è tanto necessario quanto il feticismo, che trasferendo dei rapporti sociali a delle cose, trasferisce queste cose a degli individui, promossi e interpellati allora come soggetti dal feticismo stesso: il lavoro agli operai, i mezzi di produzione ai capitalisti, la terra ai proprietari fondiari.

Gli ineguali livelli dello sviluppo, fino alla loro mise en abyme nel capitalismo attuale, la divisione del lavoro, l'aspetto storico del valore della forza-lavoro, nella loro combinazione si trasferiscono ad un individuo promosso al rango di rappresentazione centrale, di intersezione, le cui determinazioni sociali sono rovesciate in manifestazioni dell’individuo stesso, in espressioni della sua individualità; esse sono personificate. Questi tre fattori sono gli agenti pertinenti dell'invenzione delle distinzioni e della loro variazione o scomparsa (a Marsiglia, un italiano o uno spagnolo non sono altro che simpatici giocatori di bocce). Questo individuo non è “nero”, “fulbe”, “ebreo”, “rom” o “arabo”; è l’intersezione, la promozione della combinazione a soggetto – promozione a figura centrale originaria – a farne un Nero, un Fulbe etc. La razzializzazione non appartiene al concetto stesso di capitale (a differenza della distinzione di genere, che è inerente al lavoro come forza produttiva) ma, posto questo, è una forma di manifestazione necessaria. La trasformazione del rapporto sociale in cosa, ovvero “paradossalmente” in soggetto, è anche una trasformazione di questa cosa in rapporto sociale tra soggetti. In certo modo, il soggetto è l’erede del movimento che lo crea. Questa inversione è la maniera reale in cui i rapporti sociali agiscono, solamente se dissimulati, in quanto volontà e decisioni dei soggetti.

Ma allora ogni costruzione sociale si cancella da sé nel movimento stesso in cui si effettua, nella misura in cui le è inerente il fatto di essere un soggetto «parte totale», che non esiste più come «portatore» o «rappresentante», ma come soggetto costitutivo e costituente. La distinzione di razza e di etnia gioca allora il proprio ruolo secondo le determinazioni che essa stessa prescrive, nell’autonomia del campo d’azione che si crea: un Nero può diventare presidente degli Stati Uniti, e resta un Nero, e un proletario nero non è un proletario bianco. Esistendo per se stessa all’interno del suo campo d’azione, la distinzione può anche essere oggetto di un’attività politica strumentale, come si è visto in Francia ai tempi della grande ondata di scioperi nel settore dell’automobile, negli anni 1983-’84. La distinzione è un’ideologia e, in quanto tale, è efficace come assegnazione e relazione degli individui alle loro condizioni di esistenza e di riproduzione, ovvero alle loro relazioni rispetto ai rapporti di produzione. Non è sufficiente dire che la distinzione di razza crea un’essenzializzazione gerarchica degli individui, che essa è un prodotto del modo di produzione: se non si dice che è nella personificazione dei rapporti sociali come produzione di soggetti che risiede il problema, ci si limita a fare della descrizione il concetto della sua propria spiegazione34.

Ciò che abbiamo detto a proposito delle lotte dei sans-papiers, dei disoccupati e dei precari, dei migranti e dei clandestini, della razzializzazione, è in realtà una condizione generale: ogni volta la generalità della situazione che viene attaccata resta prigioniera della particolarità degli attori in lotta. Nelle bidonvilles sudamericane, i proletari, che non si battono per del denaro ma per ciò che il denaro permette di ottenere (cibo, acqua, abitazioni), non creano legami con le altre frazioni del proletariato; in Cina non c'è convergenza fra le tre grandi categorie delle lotte: i contadini che si oppongono all'accaparramento delle terre, i lavoratori migranti, gli ex-operai delle grandi imprese statali. In Europa occidentale, la tendenza è a dire: «questo non mi riguarda, riguarda solo quelli che sono oppressi, sfruttati, in questa situazione». Quando l’“unità” si manifesta, come in Francia nell'autunno 2010, essa si esprime sotto la forma dello spettro dell'identità operaia.

L'unità del proletariato non è un dato oggettivo sempre soggiacente e in attesa di manifestarsi, o esistente per eucarestia in ogni lotta del proletariato, essa è – in ogni ciclo di lotta – una costruzione storica, e l'ultima in ordine di tempo fu l'identità operaia.

Occorre essere materialisti, o quanto meno pragmatici. Come potrebbe mai darsi una solidarietà riferita a un'identità comune di sfruttati? Non si possono considerare le differenze come soltanto accidentali e puramente formali. Esse sono intrinseche alla definizione stessa dello sfruttamento e, ancor più profondamente, a ciò che definisce il pluslavoro: le classe e i generi. All'interno dei rapporti sociali capitalistici, posso avere la migliore volontà del mondo e la migliore coscienza di classe anti-corporativa, anti-razzista, anti-sessista possibile, ma questo non cambia nulla, se oggettivamente o legalmente, nel quadro del lavoro o della riproduzione sociale, le situazioni nelle quali esisto sono tali da favorirmi.

Non si può fare come se le differenze, le segmentazioni fossero fondate sul nulla, come se non fossero oggettive di fronte ad un'entità superiore: la situazione comune di sfruttati. L'unità della classe mediata dall'identità operaia era una situazione ed una costruzione storica, non un dato di fatto oggettivo. Oggettivamente, il lavoratore bianco e maschio non è una lavoratrice nera, e si capisce che egli non abbia voglia di diventare tale. I due non potevano unirsi (comunque con difficoltà, e invisibilizzando ogni sorta di situazione) che all’interno di una “identità operaia”, ovvero di una forma storica di lotta e di rappresentazione, e non per mezzo di una situazione comune di sfruttati, la quale non è altro che un'astrazione che permette di costruire e comprendere tutte le situazioni storiche.

«Per unirsi, gli operai devono frantumare il rapporto attraverso il quale il capitale li “raggruppa” […]. Non si può desiderare allo stesso tempo l'unità del proletariato e la rivoluzione comunista, cioè questa unità come presupposto della rivoluzione, come sua condizione. Non vi sarà unità che con la comunizzazione, è solo quest'ultima che, attaccando il salariato e lo scambio, unificherà il proletariato; in altri termini, non vi sarà unità del proletariato che nel movimento della sua abolizione. Le agiografie delle lotte rivendicative parlano al vento di “unità”, senza poter precisare in nessun modo la forma concreta che essa riveste, a meno che non si tratti dell'unità formale della politica o delle forme di organizzazione che vanno a pettinare ciò che è diviso e che rimarrà tale fintanto che la classe permane nella lotta rivendicativa. Questa unità è ciò che bisognerebbe sempre aggiungere alle lotte.

Gli operai si fanno classe rivoluzionaria rivoluzionando i rapporti sociali, ovvero tutto ciò che essi sono all'interno delle categorie dello scambio e del salariato. Nelle lotte salariali non si vedranno apparire né le “forze” né un “progetto”, ma l'impossibilità di unificarsi senza attaccare la propria esistenza come classe nella divisione del lavoro e in tutte le divisioni del salariato e dello scambio, senza rimettersi in causa come classe, senza impegnarsi in una prassi rivoluzionaria. […]. Le misure comunizzatrici intraprese in un punto “qualunque” (certamente in modo quasi simultaneo in una moltitudine di luoghi) del pianeta capitalista avranno questo effetto unificatore, oppure saranno schiacciate.» (Théorie Communiste, L’auto-organisation est le premier acte de la révolution, la suite s’effectue contre elle, opuscolo, giugno 2006).

Non si tratta di dire che più la classe è divisa e meglio è, ma che la generalizzazione delle lotte del proletariato non è sinonimo della loro unità, e ancor meno del superamento della contraddizione tra le donne e gli uomini (che peraltro la citazione precedente lascia da parte), ovvero del superamento delle differenze considerate come puramente accidentali e formali. Ciò che è in gioco in queste differenze, in questa segmentazione, nella contraddizione tra le donne egli uomini, nella discontinuità, è la creazione di una distanza con questa unità “sostanziale” della classe, oggettivata nel capitale. Non soltanto l'unità della classe non può costituirsi sulla base del salariato e della lotta rivendicativa, come una precondizione della sua attività rivoluzionaria, ma, ancora, questa attività è attraversata da, ed attraversa essa stessa, la contraddizione di genere.

La rivoluzione come comunizzazione porta a lasciarsi alle spalle il lutto per l’unità della classe in quanto precondizione, ed integra le contraddizioni interne, i conflitti tra i segmenti del proletariato, la contraddizione tra uomini e donne, la razzializzazione dello sfruttamento e la distinzione di genere. La rivoluzione, nella misura in cui è abolizione del proletariato e dei generi, non avverrà senza violenze interne: non si dà più unità come precondizione della rivoluzione. L'unità non si realizzerà, per il proletariato, che nella sua abolizione, ciò che non potrà avvenire senza conflitti interni, in ragione della sua riproduzione sempre implicata con quella del capitale, fino alla sua abolizione. Manca ancora il “potente regista” che precipiterà tutto questo in un’“unità di rottura”, nella quale tutte le contraddizioni che oppongono “quelli che stanno in basso” alla riproduzione dello stato di cose esistente, si congiungano, fondendosi in una congiuntura.


Una “unità di rottura”


Bisogna riconoscere, attualmente, l'esistenza di una molteplicità di contraddizioni, molteplicità che si può egualmente designare come molteplicità delle forme di apparizione attraverso le quali, solamente, la contraddizione esiste nella sua unità (il modo di produzione capitalistico come contraddizione in processo). La contraddizione nella sua unità non è nient'altro che la totalità dei suoi attributi: la sua essenza è la sua stessa esistenza.

Le contraddizioni che oppongono le classi medie, i disoccupati e i precari, le masse di eccedenti delle periferie o delle banlieue, il “cuore stabile” della classe operaia, gli operai occupati ma costantemente sotto minaccia etc., al capitale, alla sua riproduzione, allo sfruttamento, all'austerità, alla miseria etc., non sono identiche fra loro, e ancor meno alla contraddizione tra le donne e gli uomini. Allo stesso modo, la classe capitalista non è un blocco unico e omogeneo, né lo sono le nazioni o gli insiemi regionali che strutturano il corso mondiale della valorizzazione del capitale. Sarebbe, oltretutto, di un semplicismo estremo credere che questi due insiemi di contraddizioni (interne a “quelli che stanno in alto” ed egualmente “a quelli che stanno in basso”) non si interpenetrino, e che il proletario brasiliano sia estraneo al conflitto che il suo capitalismo emergente intrattiene con gli Stati Uniti e i con “vecchi centri del capitale”, e che gli uomini contrapposti alle donne non possano essere egualmente dei proletari contrapposti allo sfruttamento capitalistico.

Poiché la rivoluzione non può più essere identificata con l'affermazione di un proletariato che si riconosce per se stesso in quanto forza rivoluzionaria, all'interno del modo di produzione capitalistico, in opposizione al capitale; poiché essa non è più il movimento di una contraddizione semplice tra proletariato e capitale, che porterebbe con sé – per mezzo della sua semplice enunciazione – la necessità della sua soluzione, considerata come la vittoria di uno dei suoi due termini; poiché (in un movimento comune) la contraddizione tra uomini e donne si gioca sulla loro propria definizione, che è quella del lavoro e della popolazione come principale forza produttiva e come unica fonte del valore e della valorizzazione; per tutte queste ragioni, il concetto di congiuntura è diventato inerente al concetto stesso di rivoluzione in quanto comunizzazione. Il capitale come contraddizione in processo è sempre (e più che mai) l'unità dinamica di queste due contraddizioni dentro il ciclo di lotte attuale. Sono tanto l'una quanto l'altra che, producendo la loro unità e situandosi a questo livello, stanno a significare che il superamento del capitale come contraddizione in processo, è l'abolizione del valore, del lavoro come sola fonte e misura della ricchezza, della popolazione come principale forza produttiva. Inversamente, l'unità del proletariato e l'unicità della sua contraddizione con il capitale, erano inerenti alla rivoluzione in quanto affermazione del proletariato, suo ergersi a classe dominante, attraverso la generalizzazione della propria condizione (prima di abolirla...) e la liberazione delle donne in quanto tali.

Ogni lotta del proletariato o lotta di donne (ciascuna porta in sé l'esistenza dell'altra, senza confondersi con essa) si produce e si sviluppa all'interno delle categorie della riproduzione e dell'autopresupposizione del capitale. Per definizione, che siano lotte di classe o lotte di donne, formalmente indipendenti o intrecciate fra loro, le lotte non possono esistere senza essere “surdeterminate” – è il sogno programmatico che vorrebbe una classe che si smarca dalla sua implicazione reciproca con il capitale e si afferma in quanto tale in una purezza autodeterminata, una classe che sussiste per sé (le donne al seguito). In tale “surdeterminazione”, non ha luogo alcun dirottamento, ma sono l'esistenza e la pratica reale in quanto classe o in quanto genere che vi si ritrovano, giacché se le contraddizioni di classe e di genere costruiscono il capitale come contraddizione in processo, e si costruiscono reciprocamente esse stesse come contraddizione (poiché è dal pluslavoro che provengono l'una e l'altra), ciò significa che le classi e i generi esistono e agiscono all'interno delle categorie definite nella riproduzione del capitale, che le sussume.

Il carattere diffuso, segmentato, frantumato, corporativo dei conflitti, è la necessaria contropartita di una contraddizione tra le classi e di una contraddizione tra i generi, che si situano al livello della riproduzione del capitale. Ma è proprio perché non si tratta di una somma di elementi giustapposti, bensì di una diffusione prodotta a partire da una modalità storica del capitale come contraddizione in processo, che un conflitto particolare, per le sue caratteristiche, per le condizioni nelle quali si svolge, per il periodo nel quale appare – quale che sia la posizione che occupa tra le istanze del modo di produzione – può trovarsi nella condizione di polarizzare l'insieme di questa conflittualità, che fino ad allora appariva come irriducibilmente diversificata e diffusa. Si tratta della congiuntura come unità di rottura.

Abbiamo già detto che, per unirsi, gli operai devono frantumare il rapporto salariale che li “raggruppa” e che nella misura in cui, per essere una classe rivoluzionaria, il proletariato deve unirsi, esso può farlo – oggi – soltanto distruggendo le condizioni della sua propria esistenza come classe. La sola unificazione del proletariato è quella che si realizza nella sua abolizione, il che vuol dire che essa coincide con l'unificazione dell'umanità. Non astrattamente, per mezzo della riconciliazione dell'uomo con la sua essenza oggettivata (separazione di cui il proletario sarebbe la forma compiuta e, in quanto tale, quella che conduce al suo superamento), ma poiché le misure comunizzatrici – sopprimendo le basi della loro riproduzione – si scontrano con tutte le classi e le integrano nel movimento del proletariato, sul punto di dissolversi esso stesso come classe: processo rivoluzionario altamente complesso e ad alto rischio. Processo tanto più complesso, giacché – visto dalla sola prospettiva della contraddizione fra proletariato e capitale – esso non può rendere conto di sé, né questa stessa contraddizione può rendere conto di sé. Come abbiamo già visto: la contraddizione fra proletariato e capitale presuppone quella tra gli uomini e le donne, allo stesso modo che quest'ultima presuppone la prima.

Non si può fare una rivoluzione senza mettere in atto delle misure comuniste: senza sopprimere le sfera pubblica e la sfera privata, senza dissolvere il lavoro salariato, comunizzare l'alimentazione, l'abbigliamento, l'abitazione, senza procurarsi tutte le armi necessarie (armi distruttrici, ma anche le telecomunicazioni, il cibo etc.), senza integrare i senza riserve (compresi quelli che noi stessi avremo reso tali), i disoccupati, i contadini in rovina, gli studenti squattrinati e senza legami. Parlare di una rivoluzione condotta da una “categoria” che rappresenta il 20% della popolazione, e che sta facendo “scioperi” per chiedere allo Stato di soddisfare i suoi “interessi”, è una barzelletta. Ciascuna di queste misure implica un conflitto tra le donne e gli uomini e una risoluzione di questo conflitto non sarà tale, se non attraverso il riconoscimento della sua esistenza come condizione della continuazione del movimento. Ogni approfondimento sociale, ogni estensione, dissolvono i dispositivi di definizione dei generi, danno carne e sangue ai nuovi rapporti, e nello stesso tempo permettono di integrare sempre più i non-proletari alla classe comunizzatrice sul punto di costituirsi e simultaneamente di dissolversi.

La dittatura del movimento sociale di comunizzazione è questo processo globale di integrazione dell'umanità al proletariato. La stretta delimitazione del proletariato in rapporto alle altre classi, la sua lotta contro ogni produzione mercantile, è allo stesso tempo un processo che costringe gli strati della piccola borghesia salariata, della “classe dell'inquadramento sociale”, a raggiungere la classe comunizzatrice; tale processo è dunque definizione, esclusione, e allo stesso tempo smarcamento e apertura, cancellazione delle frontiere e deperimento delle classi e della distinzione di genere. Le misure comuniste sono la realtà del movimento in cui il proletariato si definisce, nella pratica, come movimento di costituzione della comunità umana. Il movimento sociale in Argentina, giacché vi si è confrontato, ha posto la questione del rapporto tra le donne e gli uomini, dei rapporti tra proletari in attività (salariati), disoccupati, esclusi e classi medie. Non vi ha apportato che delle risposte estremamente parziali, di cui la più interessante è senza dubbio l'organizzazione territoriale. In un tale contesto, i detrattori radicali dell'interclassismo e dell'organizzazione specifica in quanto divisione del movimento, e i propagandisti dell'unanimità nazionale e democratica, che includerebbe tra le altre le rivendicazioni delle lotte delle donne, sono i militanti di due tipi differenti di sconfitta. La rivoluzione, che in questo ciclo di lotta non può più essere che comunizzazione, supera il dilemma tra le alleanze di classe leniniste o democratiche, e “il proletariato solo” di Gorter, così come il dilemma tra organizzazione femminile specifica e integrazione indifferenziata nel magma del proletariato in lotta, giacché nell'organizzazione specifica la questione è la scomparsa della specificità.

Nel ciclo di lotte attuale, l'associazione non si realizzerà più se non nella distruzione diretta del rapporto salariale e della distinzione di genere. Poco importa l'evento che catalizzerà questo “salto”. Sarà sempre impossibile determinare il luogo, o piuttosto la molteplicità dei luoghi, in cui saranno prese le prime misure comunizzatrici. Questo “vicolo cieco” non è il riconoscimento di un'impossibilità della conoscenza, esso è conosciuto in quanto tale nel concetto di congiuntura, e quest'ultimo designa la forma concreta inerente alla rivoluzione come comunizzazione. Non si può giustapporre una visione che rimane quella del “vecchio movimento operaio” del XIX secolo e di buona parte del XX, e un contenuto della rivoluzione che rimette in causa la concezione stessa della contraddizione che presiedeva alla pratica politica e rivendicativa della classe operaia, la quale doveva generalizzare la sua situazione in quanto liberazione del lavoro e risolvere la “questione femminile”. Non soltanto la contraddizione era esaustiva nella sua semplicità e omogeneità, ma per di più era unilaterale.

Il capitale come contraddizione in processo è sufficiente a definire lo sfruttamento e la distinzione di genere, ovvero la contraddizione tra il proletariato e il capitale e quella tra le donne e gli uomini, che consustanzialmente la costruiscono; è sufficiente, inoltre, a definire la possibilità (o anche la necessità...) della rivoluzione. Ciononostante, essa viene compresa come situazione rivoluzionaria, e più precisamente come situazione di rottura rivoluzionaria, solo nel momento in cui viene concepita come l'insieme delle sue forme di apparizione, ovvero come l'insieme delle sue condizioni di esistenza – che sono la sua esistenza.

Questa contraddizione diventa una rottura solo attraverso un'accumulazione di circostanze e di correnti, tale che queste ultime si “fondono” in un'unità di rottura, allorché riuniscono l'immensa maggioranza del proletariato e delle classi medie in un attacco contro un modo di produzione che le classi dirigenti non sono in grado di difendere. Ciò non definisce questa rottura come pacifica, ma le classi dirigenti – in questo istante supremo – sono dilaniate, senza soluzioni, senza politica, senza ideologia, senza personale di ricambio, prese nella loro concorrenza interna: i lineamenti di una ristrutturazione, sempre presenti nel corso di una crisi, non fanno sistema. La rivoluzione è una lotta su tutti questi fronti, che possono prendere ciascuno, volta per volta, il carattere di fronte centrale o dominante.

Ovviamente, il processo contraddittorio fondamentale è attivo in tutte queste contraddizioni, ma sarebbe assurdo e idealistico (sintomo di una concezione hegeliana della Storia con la S maiuscola) pretendere che queste contraddizioni e la loro fusione ne siano soltanto il puro fenomeno. Le contraddizioni sono inerenti a differenti livelli del modo di produzione, e anche quelle che dipendono direttamente dai rapporti di produzione, non sono semplici accidenti di una forma pura che sarebbe “il capitale come contraddizione in processo”: nemmeno lo sfruttamento, che è sempre – non solamente di fatto, ma per natura – un processo circostanziato, particolare, differenziato. Tutte queste contraddizioni, se si fondono per formare un'unità, una congiuntura rivoluzionaria, non svaniscono come puri fenomeni nell'unità interna di un processo contraddittorio semplice. L'unità che vanno a formare in questa fusione è la rottura rivoluzionaria, ed esse la costituiscono a partire da ciò che sono in proprio, a partire dalla loro propria efficacia. Costituendo tale unità, esse ricostituiscono e portano a compimento l'unità fondamentale che le anima, ma facendo questo indicano anche la natura di questa contraddizione: inseparabile dalla società tutta intera, inseparabile dalle sue condizioni formali d'esistenza. Essa stessa è interiormente affettata dalle sue condizioni d'esistenza, ovvero – ancor più immediatamente – dalle condizioni esistenti. Essere interiormente affettata, significa, per l'unità, essere una struttura gerarchizzata (e non un insieme nel quale un principio unico si diffonde in maniera uniforme, restando sempre uguale a se stesso: la natura in Egitto, la politica in Grecia, il diritto a Roma, la religione nel Medioevo, l'economia nei Tempi moderni), con un'istanza determinante – che talvolta è anche dominante35 – delle istanze dominanti designate dalla precedente, delle permutazioni gerarchicheetc. È nella gerarchia, nel carattere determinante e/o dominante di tale o tal altro livello del modo di produzione, nella designazione delle dominanti, che l'unità esiste.

Un tale approccio alla congiuntura rivoluzionaria come unità di rottura potrebbe avere tutte le apparenze di un “pluralismo”, di un “empirismo”, di una “teoria dei fattori”, nella misura in cui si evocano queste circostanze multiple ed eccezionali che si fondono in una rivoluzione. Allorché ci dedichiamo alla loro enumerazione, non ci dedichiamo alla semplice descrizione di una situazione data, ad un enumerazione empirica di elementi diversi ed eccezionali, questa enumerazione ha un senso teorico. Questo senso è quello della definizione di una congiuntura, il “momento attuale”, per riprendere l'espressione di Lenin nelle Lettere da lontano. Questa enumerazione non fa che liberare la materia prima specifica, che perde il suo statuto di insieme di elementi giustapposti come materia prima, costituendosi come congiuntura. Questi elementi non esistono essi stessi in quanto tali, ovvero come elementi giustapposti e materia prima, se non come forme di manifestazione della loro unità determinata nei rapporti di produzione, unità di cui sono essi stessi le condizioni di esistenza.

«Non si può dunque porsi la questione di come la forma si aggiunga all'essenza, giacché essa non è che l'apparire di questa stessa essenza in se stessa, la riflessione propria immanente ad essa.» (Hegel, Scienza della logica, La dottrina dell'essenza)

Tuttavia le apparenze e l'essenza non coincidono, poiché è nella natura stessa della struttura del tutto di essere i suoi effetti (è nella natura delle leggi del capitale, di essere concorrenza tra capitali; del valore, di essere prezzo; del plusvalore, di essere profitto etc.). «La verità è sempre paradossale di fronte al giudizio dell'esperienza quotidiana, la quale coglie solamente l'apparenza ingannatrice delle cose.» (Marx, Salario, prezzo e profitto). Questo tipo di affermazione è ricorrente nell'opera di Marx. La relazione tra apparenza e concetto non si limita ad una differenza tra diversità e generalità o astrazione, ma tra mistificazione e comprensione. Il concetto, dice Marx nell'Introduzione del 1857, viene elaborata «a partire dall'intuizione e dalla rappresentazione», ma «la totalità concreta in quanto totalità del pensiero, in quanto rappresentazione mentale del concreto, è un prodotto del pensare, del comprendere». L'essenza non corrisponde immediatamente alla sua apparenza, la quale manifesta soltanto l'opposizione disordinata di termini le cui relazioni appaiono contingenti. Ma l'essenza non si trova che in questo disordine.

Esiste una superficie della società capitalista, ma è una superficie senza profondità. L'essenza non è altrove che su questa superficie ma non gli corrisponde, poiché gli effetti della struttura del tutto (il modo di produzione) possono essere l'esistenza stessa della struttura solo a condizione di esserne l'inversione attraverso ii suoi effetti. Qui incontriamo la realtà dell'ideologia.

L'essenza non è né una cosa reale (realmente esistente e particolarizzata), né una semplice parola, è una relazione costitutiva. Il plusvalore non è un'idea, o un'astrazione, sotto la quale possono essere ordinate le differenze specifiche e corollariamente una realtà alloggiata in questi oggetti specifici (rendita, profitto, interesse). Esso non è nemmeno un universale astratto della realtà prima delle forme specifiche. L'essenza non è ciò che esiste idealmente in ogni forma specifica, o ciò che servirebbe, dall'esterno, a classificare queste forme specifiche: l'ideologia sarebbe allora un riflesso deformato di questa essenza. Ciò che essenziale, sono le relazioni (che includono l'illusione oggettiva ed efficace). Relazioni attive che queste forme specifiche stabiliscono fra di loro, sono queste relazioni a definire ciò che esse hanno in comune: l'essenza. Queste relazioni hanno una nascita: non solamente l'essenza è contraddittoria ma, ancora, essa è una genetica. È il solo contenuto effettivo (reale) dell'essenza. Essa non si sostituisce agli esseri diversi, finendo per riassorbirli in un unità esteriore o negandoli in ciò che sarebbe la loro “vera verità interna”.

Le contraddizioni si spostano, si condensano, è lo statuto stesso del momento attuale. È l'esistenza, la sola esistenza, del processo contraddittorio in generale e non la sua manifestazione nelle circostanze, o peggio la sua realizzazione. Nelle lotte e in una situazione rivoluzionaria, questo processo è tale o tal altra delle contraddizioni particolari e attuali. Si riflette e si agisce nel presente sul presente, sulla necessità da compiere, sui mezzi e le vie della sua produzione.

Una congiuntura è costituita da contraddizioni multiple ed ineguali, e se è possibile ritornare al capitale come contraddizione in processo in quanto unità dinamica della contraddizione tra le classi e della contraddizione tra i generi, ovvero ad un processo contraddittorio semplice come determinazione fondamentale di queste molteplicità e di queste asimmetrie, non si può comunque ridurre la molteplicità alla semplicità come ad un'origine che produce le altre contraddizioni come suoi fenomeni. In effetti, questo processo contraddittorio semplice esiste per se stesso ancora e sempre nella molteplicità, senza la quale non esisterebbe per se stesso. Non si può ridurre la complessità, la molteplicità alla semplicità e all'unità nella stessa maniera in cui si riduce qualcosa ad un'origine, o come si riducono delle apparenze ad una verità (siamo qui all'opposto dello sviluppo hegeliano: non c'è unità originaria semplice). La congiuntura ha sempre una dominante attraverso cui la sua molteplicità e complessità trovano un'unità. Nel corso della lotta – a seconda dei risultati momentanei e superabili che si manifestano, a seconda degli aspetti che cambiano i rapporti di forza, i punti o i “i traguardi” in cui si sclerotizza la comunizzazione – questa dominante cambia, e le contraddizioni si scambiano di posto nella totalità. È qui allora, su ciò che può essere momentaneamente il punto nodale, che bisogna colpire per continuare a smembrare l'ordine esistente. Ma se le dominanti si permutano (politica, economia, ideologia, polarizzazione delle contraddizioni su tale o tal altra lotta di questa o quella frazione del proletariato), giammai la congiuntura è un pluralismo di determinazioni che si addizionano, indifferenti fra loro.

Le forme contingenti non sono il puro fenomeno di una contraddizione essenziale. Quest'ultima non è l'essenza di cui le forme e i diversi livelli del tutto sociale che essa determina sarebbero i fenomeni; ne sarebbero i fenomeni a tal punti che, praticamente, il processo contraddittorio essenziale potrebbe esistere senza di essi, potrebbe esistere prima o dopo di essi (mito di un inizio concettuale reale). Le contingenze sono essenziali per l'esistenza stessa della contraddizione essenziale, esse ne costituiscono realmente le condizioni d'esistenza. Le forme di apparizione, la contingenza (che in realtà non è più tale, giacché la contraddizione non è affatto indifferente all'esistenza delle sue “forme”) non sono il puro fenomeno della struttura, esse ne sono la condizione d'esistenza. Questo condizionamento d'esistenza delle contraddizioni – le une attraverso le altre – non ricade nella circolarità, non annulla la totalità come struttura dotata di una dominante, né diviene un eclettismo facile e additivo, ma ancor meno un inter-costruzione indifferenziata.

Questo condizionamento è, all'interno stesso della realtà delle condizioni d'esistenza di ogni contraddizione, la manifestazione di questa struttura a dominante (è la grande differenza con la totalità hegeliana) che fa l'unità del tutto. Bisogna considerare ogni contraddizione come una riflessione delle condizioni d'esistenza della contraddizione (nel suo senso essenziale) all'interno di questa stessa. In questo modo, diviene possibile parlare di condizioni senza cadere nell'empirismo o nell'irrazionalità dell’“è così” e del “caso”, le condizioni sono l'esistenza reale (concreta, attuale) delle contraddizioni che costituiscono il tutto poiché è fondamentalmente la contraddizione nel suo senso essenziale che gli assegna questo ruolo, non come fenomeno puro accanto alla medesima, senza il quale essa potrebbe comunque esistere, ma come una delle sue stesse condizioni d'esistenza. Al di là della causalità determinista e univoca, al di là dell'espressività integrale del tutto in ciascuna delle sue parti o dei suoi effetti, la questione è quella dell'efficacia di una struttura sui suoi elementi, alla quale Marx risponde ben sovente con le sue “civetterie” hegeliane (una maniera di fare appello ad una soluzione inadeguata pur tenendola a distanza36). Esiste egualmente la risposta metaforica: «In tutte le formazioni sociali, è una produzione determinata ad assegnare a tutte le altre il loro rango e la loro importanza: i rapporti essenziali giocano un ruolo determinante rispetto alle altre. Si ottiene così un chiarimento generale che modifica tutti i colori e la tonalità particolari; detto altrimenti, l'etere determina il peso specifico di ciascuna delle forme d'esistenza.» (Marx, Introduzione del 1857)

La fissità della gerarchia fra le istanze del modo di produzione capitalistico costruisce un'esistenza lineare del tempo, un legame di causalità che unisce gli eventi in maniera successiva all'interno di una temporalità puramente quantitativa: è il dato, è ciò che c'è. La congiuntura è la crisi che questa temporalità dell'autopresupposizione del capitale porta con se, momento di rottura contro il continuum della temporalità omogenea e quantitativa, rovesciamento della gerarchia delle istanze e della determinazione economica, discontinuità del processo storico: congiuntura.

«È l'“economicismo” (il meccanicismo), e non la vera tradizione marxista, a porre una volta per tutte la gerarchia delle istanze, a fissare per ciascuna la sua essenza e il suo ruolo, a definire il senso univoco dei loro rapporti; è l'economicismo a identificare una volta per tutte i ruoli e gli attori, non comprendendo che la necessità del processo consiste nello scambio dei ruoli “secondo le circostanze”; è l'economicismo che identifica in anticipo e in eterno la contraddizione-determinante-in-ultima-istanza con il ruolo di contraddizione dominante, assimilandone in eterno questo o quell'“aspetto” (forze produttive, economia, pratica) con il ruolo principale, e tale altro “aspetto” (i rapporti di produzione, la politica, l'ideologia, la teoria...) con il ruolo secondario, allorché la determinazione in ultima istanza – l'economia – si esercita, in realtà, nella storia attraverso le permutazioni del ruolo primario tra l'economia, la politica, la teoria etc.» (Althusser, Contraddizione e surdeterminazione, in Per Marx). La variazione è l'esistenza dell'invariante.

La congiuntura è prima di tutto un cambiamento di temporalità, un'uscita dal ripetitivo, la porta stretta, presto richiusa, dalla quale può arrivare un altro mondo. La congiuntura è la pratica cosciente del fatto che questo si gioca nell'attuale, è tanto l'eredità del passato che la costruzione del futuro, essa è un presente, il momento dell'“al presente”. Ciò che di più forte fu intravisto nel maggio '68, più che un mondo senza capitale, senza denaro, senza autorità, è un qualcosa che non si conosce se non in forma compiacente e grottesca – poiché separato e senza importanza – nell'amicizia e nell'amore. Ciascuno dei nostri gesti, ciascuno dei nostri pensieri, delle nostre azioni aveva un senso per gli altri, erano delle azioni reali. La ripetizione era sparita, ci costruivamo perpetuamente nella relazione con gli altri; il sentimento intimo che nulla ci sfuggiva. Era azione, ciò che facevamo era totalmente significativo poiché istantaneamente efficace e non solamente in un senso politico, ma individuale – era l'efficacia realista a non essere più efficace. Non eravamo più frazionati, come individui eravamo le nostre azioni verso gli altri esistenti come altri “me stesso” irriducibili. Abbiamo furtivamente visto, da un altrove, il mondo capitalista e tutte le forme di alienazione, come quegli astronauti che dalla Luna hanno visto la Terra e che, in seguito, sono tutti presi da una strana sindrome d'inattualità.

Abbiamo cercato di dimostrare che non si può abbordare concretamente e intraprendere la comprensione di una rottura rivoluzionaria a partire da una certa idea astratta e abbastanza rassicurante di uno schema dialettico contraddittorio epurato, semplice, che si risolverebbe per il solo fatto della sua esistenza: la “bella” contraddizione in processo. Questo processo non è mai semplice, è sempre specificato dalle forme e dalle circostanze storiche concrete nelle quali – per definizione – si esercita. L'eccezione è sempre la regola, mai il fondamento economico gioca allo stato puro. Si può perfino arrivare a dire, con Marx: «Allora si apre un'epoca di rivoluzione sociale. Il cambiamento della base economica sconvolge più o meno rapidamente l'enorme sovrastruttura. Allorché si considera un tale rovesciamento, bisogna sempre distinguere tra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche di produzione – che è possibile constatare con la precisione delle scienze naturali – e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in breve, le forme ideologiche attraverso le quali gli uomini prendono coscienza di questo conflitto e le combattono fino in fondo (corsivo nostro, ndr).» (Marx, Introduzione del 1859).

Ben strane queste «forme ideologiche attraverso le quali gli uomini prendono coscienza di questo conflitto (una rivoluzione) e lo combattono fino in fondo».

Dopo aver esposto le grandi articolazioni di ciò che diventeranno i libri II e III del Capitale, Marx conclude così una lettera a Engels datata 30 aprile 1868: «In conclusione, arriviamo alle forme di manifestazione (corsivo nell'originale) che servono da punto di partenza nella concezione volgare: la rendita che viene dalla terra; il profitto (interesse) dal capitale; il salario dal lavoro (la famosa “formula trinitaria” – il feticismo specifico del capitale – esposto alla fine del Libro III, ndr). [...] In conclusione, questi tre elementi (salario, rendita, profitto (interesse) costituiscono le fonti dei redditi delle tre classi dei proprietari fondiari, dei capitalisti e dei lavoratori salariati, abbiamo la lotta di classe come conclusione in cui si risolve il movimento e l'analisi di tutta questa merda».

È un fatto rimarchevole che Marx passi alle classi e alla lotta di classe a partire dalle forme di manifestazione, dopo aver consacrato migliaia di pagine a mostrare che esse non erano l'essenza, ilconcreto di pensiero, del modo di produzione capitalistico. È perché le forme di manifestazione non sono dei fenomeni che potrebbero essere scartati per trovare l'essenza della verità di ciò che è e quella delle pratiche giuste37. Così possiamo avanzare ancora nella comprensione di queste «forme ideologiche attraverso le quali gli uomini prendono coscienza del conflitto e lo combattono fino in fondo».

L'ideologia è il modo in cui gli uomini (e le donne...) vivono i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza, posti come oggettivi di fronti ad essi in quanto soggetti; in questo senso essa non è un riflesso deformato nella coscienza della realtà, ma un insieme di soluzioni pratiche che si risolvono nella sua giustificazione, e nel ratificare questa separazione della realtà in oggetto e soggetto.

La realtà appare da se stessa come ciò che è presupposto e come ciò che presuppone, ovvero come mondo, come oggetto, di fronte all'attività che, di fronte al mondo, definisce il soggetto. Il difetto principale di tutti i materialismi criticati da Marx nella prima delle Tesi su Feuerbach non è solamente un errore teorico, ma l' espressione della vita di tutti i giorni38. Come abbiamo detto precedentemente, l 'essenza non è altrove che su questa superficie, ma non le corrisponde, poiché gli effetti della struttura del tutto (il modo di produzione) non possono essere l'esistenza stessa della struttura se non a condizione di esserne l'inversione attraverso i suoi effetti. È la realtà dell'ideologia. In breve, l'ideologia è la vita quotidiana.

Questa definizione dell'ideologia integra ciò che abitualmente si concepisce nel senso delle ideologie come problematiche intellettuali. Anche in questo senso, l'ideologia non è una fallacia, una maschera, un insieme di idee false. Sappiamo bene che, in questo senso, l'ideologia è dipendente dall'essere sociale, ma questa dipendenza implica la sua autonomizzazione, ed è la paradossale potenza delle idee. La teoria dell'ideologia non è una teoria della “coscienza di classe”, ma una teoria di classe della coscienza. La divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale attraversa tutte le società di classe e tutti gli individui; se l'ideologia esiste sempre nelle forme dell'astrazione e dell'universale, è in ragione di questa divisione – che pone il lavoro intellettuale dalla parte della classe dominante – la quale dona a ciò che questo lavoro produce la forma dell'universale che riveste ogni dominazione di classe. La paradossale potenza delle idee e della loro universalità, questa inversione delle rappresentazioni e dei loro fondamenti, è parallela all'inversione reale che presiede all'organizzazione della produzione, lo sfruttamento della classe dei produttori determina il fatto che la produzione della vita materiale sia realmente rovesciata – all'interno di se stessa – nella stessa produzione della vita materiale. Se è esatto dire che «non è la coscienza che determina l'essere, ma l'essere che determina la coscienza», non è meno vero che è l'essere a “far credere” che sia la coscienza. Le rappresentazioni borghesi sono delle ideologie, delle ideologie del tutto funzionali, e divengono delle istituzioni anch'esse del tutto reali. La giustizia, il diritto, la libertà, l'eguaglianza sono delle ideologie, ma pesantemente materiali quando ci si ritrova davanti ad un tribunale, in prigione o in una cabina elettorale. La borghesia, dice il Manifesto, ha modellato un mondo a propria immagine, ma allora l'immagine è la cosa: la produzione d'ideologia è parte costituente della produzione e delle condizioni della vita materiale. Le rappresentazioni non sono un doppio più o meno inadeguato della realtà, ma delle istanze attive di questa realtà che ne assicurano la riproduzione e ne permettono la trasformazione.

L'ideologia circola dappertutto nella società, essa non è appannaggio di qualche attività specializzata, “di alta gamma”. Il rapporto della classe sfruttata al processo di produzione è esso stesso di natura ideologica, non potendo tale rapporto essere identico a quello della classe dominante, e sembrerebbe, a prima vista, di avere a che fare con due ideologie. Di primo acchito, è la verità. Questa seconda ideologia è “critica”, anche sovversiva, ma solamente nella misura in cui è il linguaggio della rivendicazione, della critica e dell'affermazione di questa classe nello specchio che le porge la classe dominante. L'ideologia è sempre ideologia della classe dominante poiché l'interesse particolare della classe dominante è il solo interesse particolare che è in grado si prodursi oggettivamente come universale.

Che gli individui assumano o insorgano contro i compiti prescritti dalle diverse istanze del modo di produzione, questo rapporto è un'esperienza che non è un oggetto di conoscenza, ma piuttosto un riconoscimento che, come ogni esperienza, è dell'ordine dell'evidenza. Le rappresentazioni ideologiche sono efficaci poiché restituiscono agli individui un'immagine verosimile e una spiegazione credibile di ciò che sono e di ciò che vivono, e sono costitutive della realtà delle loro lotte.

Che ne è allora della pratica rivoluzionaria come comunizzazione? Essa è produzione del nuovo, non come sviluppo o vittoria di un termine preesistente della contraddizione, o come ristabilimento di un'unità anteriore (negazione della negazione), ma come negazione determinata del vecchio, e soppressione – in questa negazione – del soggetto che nega. Se, in questo momento ultimo, il rapporto di implicazione reciproca contraddittorio tra il proletariato e il capitale e la contraddizione uomini/donne restano determinanti (nella loro esistenza congiunta del capitale come contraddizione in processo), in queste circostanze ben particolari (quelle della congiuntura), esse designano l'ideologia come luogo della contraddizione dominante.

Nel suo movimento, in forme che essa assume ed abbandona, la lotta rivoluzionaria si auto-critica. Poiché questa lotta è scissa fino all'ultimo tra un movimento oggettivo che non è un'illusione – le contraddizioni del modo di produzione capitalistico – e, dall'altra, in questa oggettività, la pratica della sua abolizione che lo de-oggettiva, essa rimane strutturalmente ideologica. Essa vive della separazione dell'oggetto e del soggetto. Poiché la dissoluzione dell'oggettività costituisce un soggetto in quanto tale, e che si considera tale, l'ideologia (invenzione, libertà, progetto e proiezione) è inerente alla sua definizione e alla sua azione39.

Non avendo alcuna base oggettiva sviluppata precedentemente, il comunismo è una produzione presa nella contraddizione di un rapporto contraddittorio oggettivo il cui superamento deve prodursi, dunque, in quanto formalizzazione cosciente e volontaria di un progetto, giacché il processo della rivoluzione ricusa senza sosta il suo stato presente in quanto proprio compimento. Progetto ideologico, giacché ricusa il suo fondamento oggettivo nel suo stato presente in quanto sua ragion d'essere, esso pone il futuro, il dover-essere, come comprensione del presente e come pratica nel momento attuale.

Nel corso della rivoluzione comunista, tutte le configurazioni sociali (le forme che facevano la società) si mettono a precipitare nel vuoto, e anche delle situazioni anteriori, delle contraddizioni che si credevano superate – provenienti da modi di produzione anteriori al modo di produzione capitalistico – risorgono. Ci possiamo augurare, attualmente, che nel corso della crisi – in ragione delle caratteristiche del ciclo di lotta e della specifica natura storica di questa crisi – sopravvengano delle pratiche costituenti una congiuntura rivoluzionaria.

La congiuntura è la trasgressione interna delle leggi di riproduzione del modo di produzione, poiché le leggi che reggono lo sviluppo del modo di produzione capitalistico non hanno finalità che dal punto di vista degli attori interni a queste leggi40. Le leggi che portano il capitalismo alla sua perdita non producono un ideale di cui si attende la venuta con fatalismo; tale finalità è un'organizzazione immanente della lotta di classe, che le lotte del proletariato possono decifrare praticamente. Questo deciframento è un'organizzazione pratica delle lotte secondo i bersagli e le poste in gioco della cristallizzazione semovente delle dominanti, della loro relazione e autonomia faccia a faccia con la determinazione dei rapporti di produzione, è una congiuntura rivoluzionaria.

Scrivevamo più in alto: «In una congiuntura c'è dell'aleatorietà, dell'incontro, delle cose dell'ordine dell'evento: uno scioglimento che si produce e si riconosce nell'accidentale di questa o quella pratica. Così, una congiuntura si presenta come ciò che succede nella misura in cui “ciò che succede” forma la condizione particolare di non sapere “ciò che può succedere”, essa è il momento in cui può esercitarsi la potenza di fare di “ciò che è” qualcosa di più di ciò che contiene, di creare al di fuori della concatenazione meccanica della causalità o della teleologia del finalismo». Questa potenza è progetto, è ideologia.

Nell'oggettività del processo rivoluzionario, il comunismo è progetto41, è la forma ideologica del conflitto, per mezzo della quale esso viene combattuto fino in fondo.


Appendice


Attenzione, quando si parla di congiuntura, l'appendice può essere l'essenziale


Presentiamo, qui di seguito, un testo/volantino diffuso ad Atene dopo la manifestazione del 19 novembre 2011 e un breve commento.

Senza di te, non c'è ingranaggio che si muova

«Nella situazione attuale, la gente non scenderà in piazza finché non avrà paura. E quando vi scenderà, lo farà improvvisamente, tutta riunita in un sol colpo... In quel momento gli si metterà di fronte il Partito Comunista per fermarla.» Questo pronostico incredibilmente esatto fu pronunciato da un vecchio trotzkista nel corso di una discussione in un caffè. In questo testo ci sforzeremo di comprendere il significato, per lo sviluppo della lotta di classe in Grecia, dell'aperto posizionamento del Partito Comunista Greco (KKE) come polizia42 – l'importante evento del 20 ottobre – e qual'è il suo rapporto con l'evolvere della crisi.

Cominceremo la nostra analisi tentando una lettura critica della posizione di fondo di tutti quelli che qualificano l'orientamento del PC come un “tradimento della classe operaia” e che, difendendo tale posizione, deplorano il fatto che “ci stiamo battendo fra di noi”. Questo punto di vista sembra ignorare o dimenticare qual'è il ruolo del KKE nella lotta di classe in Grecia. Ma in realtà non si tratta di una disattenzione. E non si tratta nemmeno di un'omissione o di un sintomo di disprezzo. Ciò che tale concezione non recepisce è determinato per essenza da ciò che essa vede, dalla struttura del suo sguardo, dal nocciolo stesso del suo contenuto. Ciò che intravvede è la rivoluzione come trionfo della classe operaia, la trasformazione della società capitalista in società di operai, insomma la rivoluzione tale quale la concepisce lo stesso KKE (con se stesso al posto dei padroni). Questo è il motivo per cui la suddetta critica accusa il KKE di “tradimento”, nella ricerca di un obiettivo comune. Essa crede che perfino che che KKE abbia “tradito” l'obiettivo comune della “libera” società operaia mettendo in avanti la costituzione della forma politica di uno Stato operaio alle spese dell'autogestione operaia dellaproduzione. È in tal senso che si comprendono le proteste di questo tipo di critica di fronte all'utilizzo, da parte del KKE, dello slogan: “Senza di te non c'è ingranaggio che si muova - Operaio, tu puoi fare a meno del padrone.”

Ma per quanto di primo acchito possa sembrare paradossale, in questo slogan si trova la sostanza degli eventi del 20 ottobre. Il contenuto di questo slogan esprime il punto di vista del KKE (e non solamente il suo, non bisogna dimenticare) nello scontro che si è prodotto storicamente, nel periodo attuale, tra le pratiche della lotta di classe. Se si legge attentamente lo slogan in questione, si vede che la parola “operaio” dona la chiave di lettura per la comprensione del contenuto della rivoluzione secondo il KKE (e non solo). Questa rivoluzione non abolisce l'operaio in quanto operaio, né il proletario in quanto proletario, essa non abolisce “l'ingranaggio”, ovvero non abolisce la produzione del valore. Al contrario, essa chiama l'operaio a battersi ( o a mettersi in fila come una pecora dietro al pastore, come nel caso del KKE) per continuare a essere operaio, cioè per continuare a “far girare l'ingranaggio”. L'espressione utopica “senza padroni” significa “di propria iniziativa”, dunque tenendosi dei padroni che sarebbero anche loro operai (e che si direbbero “padroni di se stessi”) o trovandosi come padrone il “partito operaio”. Dietro la pratica opportunista del KKE, che si appropria di uno slogan “degli anarchici”, si trova la sostanza della conservazione del lavoro come attività separata dagli uomini dopo la rivoluzione, con tutto ciò che ne consegue.

L'atteggiamento del KKE, che è consistito nel difendere -in questo momento critico per il capitale e lo Stato -il Parlamento e la polizia contro gli attacchi di una frazione del proletariato, è perfettamente compatibile con tale slogan. Ancor più in ragione del fatto che questi attacchi contro lo Stato e la proprietà divengono possibili solo quando sono sostenuti dalla gran parte del proletariato, come è risultato evidente il 19 ottobre. La difesa del lavoro non si può fare in un vuoto storico, non esiste una forma a-storica di lavoro (come lasciano invece intendere slogan come “Vogliamo il lavoro, non la disoccupazione”, etc). Si tratta necessariamente della difesa del lavoro tale qual'è nel presente storico. Di conseguenza, la rivoluzione secondo il KKE sarà la ristrutturazione del lavoro sulla base delle sue attuali determinazioni storiche (cosi come fecero i bolscevichi quando presero il potere in Russia nel corso della rivoluzione proletaria del 1917, e ciò che cercarono di fare i sindacalisti della CNT quando assunsero il controllo delle fabbriche dopo l'insurrezione proletaria del 1936). Se tiriamo le somme sulla strategia del KKE – cioè rivendicare per sé un ruolo sempre più importante per la riproduzione della classe operaia, dunque rinforzarsi in quanto meccanismo della riproduzione dei rapporti capitalistici, operando in parallelo con lo Stato o talvolta come “ingranaggio” della macchina statale – allora risulta evidente che, in un contesto di repressione sempre più rilevante come forma di riproduzione del proletariato, il KKE deve giocare il ruolo di polizia.

E quelli che hanno attaccato il KKE? Come spiegare, seguendo questo ragionamento, che una parte di quelli che hanno attaccato la frazione rossa della polizia, che sbarrava loro il percorso verso la frazione in tenuta kaki, condividono in gran parte la concezione del KKE sulla rivoluzione? Hanno forse ragione coloro che deplorano semplicemente il fatto di disputarsi con il KKE il controllo di via Amalias e – per estensione – la direzione politica del movimento? Questo punto di vista è in parte fondato, ma l'errore si trova già contenuto nella questione (chi deve prendere la direzione del movimento?). La sostanza degli avvenimenti del 20 ottobre si nasconde sotto la superficie di questo affrontamento politico. La risposta alla questione del perché questo affrontamento si produce, di qual'è il suo reale contenuto e del perché esso giunga a costituire un problema centrale della lotta di classe43in diversi paesi non può essere risolta se non si lascia perdere la polarizzazione sinistra/anarchici (che è una polarizzazione delle rivoluzioni passate, e si sa che «la tradizione di tutte le generazioni pesa come un incubo sul cervello dei viventi»). Per uscirne bisogna diffondersi un poco sul contenuto del campo “anarchico”, o black bloc, o come si vuole chiamarlo (ma la difficoltà di dargli una definizione stabile indica già qualche cosa). Tutti sanno che, tra “quelli che fanno gli scontri”, la parte organicamente appartenente alla struttura dei gruppi dell'“anarchismo militante” è già molto ristretta, e sempre più ristretta a misura che la crisi si approfondisce. Egualmente, è noto che tra quelli che si battono si possono trovare già dei lavoratori, il più delle volte senza che i loro sindacati ne denuncino le pratiche (ad es. la Federazione dei Lavoratori delle Collettività Locali), dei disoccupati e anche dei piccolo-borghesi in balia di una accelerata proletarizzazione (ad es. i proprietari di taxi). La “gente” che, in una maniera o un altra, provoca le sommesse del periodo attuale NON FA PARTE, nella stragrande maggioranza dei casi, degli anarchici organizzati, e l'influenza di questi ultimi su di essa è minima e in costante diminuzione. Si tratta piuttosto di un'amalgama di giovani proletari (e non più solo giovani, a misura che la crisi si aggrava) che hanno impieghi precari o sono disoccupati, di liceali e altri studenti. Le pratiche di costoro, che sono d'abitudine delle sommosse senza rivendicazioni o inserite nel quadro di lotte rivendicative, esprimono l'impasse attuale della rivendicazione, l'assenza di futuro prodotta da questa crisi in quanto crisi salariale e dunque crisi di riproduzione del proletariato. Queste persone NON SONO dei “rivoluzionari” che si battono perché hanno “coscienza di classe”. Costoro sono i vettori di pratiche che si producono in ragione dell'esclusione proletaria dal lavoro, della violenta degradazione delle condizioni della classe media, del folle corso della crisi del capitalismo ristrutturato, ed egualmente a causa del tentativo capitalista di farvi fronte con un nuovo round di attacchi che giunge perfino a rimettere in causa l'esistenza stessa del salario. Le pratiche di queste persone sono talmente senza prospettive, se viste sotto la luce della ricerca di una strategia per la vittoria della classe operaia e della realizzazione di una società operaia. Ma è precisamente lo scacco patito da queste pratiche che prefigura il loro superamento nella lotta di classe, un superamento che non significherà il loro imporsi di fronte ad altre pratiche, ma che sarà prodotto nella coesistenza conflittuale con le pratiche rivendicative. Questo superamento potrà prodursi solamente ad uno stadio in cui lo scontro non sarà più solamente la riproduzione della dinamica delle sommosse senza rivendicazioni, ma anche la messa in opera di misure precise e concrete. Questo scontro si produce oggettivamente, e le scelte di qualunque individuo sono surdeterminate dall'avanzata catastrofica della crisi. Non si tratta di uno scontro fra gli anarchici e il KKE davanti al Parlamento, questa non è che l'apparenza, ed una tale comprensione non serve ad altro che agli interessi politici specifici degli anarchici politicamente organizzati e del KKE con i suoi piccoli compagni di strada. Ci saranno di certo, tra le due fazioni dello “scontro davanti al Parlamento”, dei tentativi di estorcere un plusvalore politico, e può darsi che a breve termine tali tentativi riusciranno (da entrambe le parti, ancora una volta). Tutti questi tentativi consisteranno nel proporsi come la fazione che si cura maggiormente dell'“unità della classe”, ed entrambe utilizzeranno quasi gli stessi termini per le loro reciproche accuse. Ma il corso della crisi si intensifica, e nel giro di poco tempo gli avvenimenti del 20 ottobre sembreranno un giochetto inoffensivo fatto di pietre, di due o tre molotov e di qualche bastone ornato dal drappo rosso.

L'affrontamento, che si è manifestato in termini di feticismo politico come un affrontamento tra anarchici e KKE davanti al Parlamento, si produce come scontro interno tra pratiche del proletariato nel corso di tutto il ciclo di lotte attuale, iniziato con la ristrutturazione degli anni '80 ('90 per la Grecia).

Esso costituisce la sostanza di questo ciclo di lotte, e ora, con la crisi, tutte le contraddizioni che esso ha generato si condensano e si incrociano. Questo scontro si è prodotto come risultato dell'accumulazione di capitale, ovvero della lotta di classe, e non è il portato di “strategie”, di “tradimenti”, di “coscienza di classe” o di altre costruzioni ideologiche. I due campi, che si formano a grande velocità nella condensazione del tempo storico, hanno contorni mobili; e ciò che oggi, attraverso il superamento dei propri limiti, sembra prefigurare la rivoluzione apparirà diviso domani, allorché le sue contraddizioni interne – apparentemente poco importanti oggi – finiranno per esplodere. L'approfondimento della crisi porterà le pratiche al di là della “fase della rivolta”, nella quale in tutta evidenza ci troviamo oggi. I rivoltosi di domani (un domani che non è forse molto lontano) saranno costretti a prendere misure per continuare a lottare che saranno allo stesso tempo delle misure di sopravvivenza: misure comuniste che toccheranno il cuore della produzione di plusvalore e che saranno anche la costruzione di nuovi rapporti sociali. Nel campo che contesterà l'esistenza stessa del valore andranno, ad esempio, ad esplodere le contraddizioni del militarismo e del sessismo, che accompagnano inevitabilmente le sommosse. Conflitti interni stanno per arrivare, nuove divisioni sono ineluttabili.

Noi ci troviamo nel turbine, non c'è più nulla che possa spingerci fuori. Ogni tentativo di cogliere la struttura dei rapporti della nostra epoca, ogni tentativo di affrancarci da una concezione politica della rivoluzione, di una concezione che, essendo politica, appartiene al mondo trascorso delle rivoluzioni passate, non mancherà di contribuire alla critica di questo mondo – di un mondo che in ogni caso sta tremando e che, come insieme di rapporti sociali, è minacciato di distruzione totale dalla rivoluzione che viene. (Agenti del caos)


Qualche parola di commento


Quando i compagni greci presentano così ciò che è successo alla manifestazione del 19 novembre 2011 ad Atene, ci permettono un approccio in situazione a ciò che chiamiamo congiuntura.

Essi presentano una situazione che permette di parlare di programmatismo, di identità operaia, di unità della classe, di asistemicità della rivendicazione salariale, di misure comuniste, di cicli di lotta, e il tutto in maniera evenemenziale.

Questa presentazione individua il movimento di esplosione di contraddizioni multiple, la loro congiunzione in un “momento attuale” di interessi opposti ed eterogenei, i quali si producono, si precisano e si superano nel reciproco scontrarsi, in poche parole è l'essenza stessa di ciò che potrebbe essere una congiuntura, ad essere condensato in queste tre pagine e messo a tema come tale. Sotto l'effetto della crisi e della “soglia da varcare” della lotta di classe, la contraddizione tra proletariato e capitale – tale quale la si comprende immediatamente all'opera – non è più questa contraddizione semplice ed omogenea che era teoricamente il nostro oggetto, essa è divenuta l'insieme delle sue determinazioni, di tutte le sue forme di apparizione, comprese quelle politiche, ideologiche, giuridiche, che non sono dei puri fenomeni, delle manifestazioni, ma proprio ciò senza cui essa non esisterebbe. Tutte le classi e soprattutto tutte le funzioni e le dinamiche, fin qui date come assorbite in una contraddizione semplice tra proletariato e capitale, sono ora messe in rilievo di fronte a se stesse e fra di loro. Questa eterogeneità degli “attori” e dei progetti, di questi conflitti, sono le condizioni stesse dell'esistenza della contraddizione. Sembra che perfino la definizione economica della crisi e della situazione non sia determinante se non nella misura in cui si designa essa stessa come scontro politico, come eterogeneità e conflitti nella lotta tra proletariato e capitale, e all'interno del proletariato stesso. Questa determinazione economica impone la sua efficacia nel corso storico come politica e come ideologia.

In queste poche pagine abbiamo all'opera l'esposizione e la comprensione di una congiuntura. Con un un po' di spirito, ma senza alcuna ironia, si potrebbe dire che è tanto bella quanto il Lenin in quella manciata di mesi che precedono Ottobre.

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1 Il “regista” evocato qui da Lenin è la Grande Guerra.

2 Rivendicare l'uguaglianza e l'assenza di differenza, in nome e attraverso l'azione di un gruppo che si è definito come particolare (Joan W. Scott, La Citoyenne paradoxale, Ed. Albin Michel; titolo originale: Only paradoxes to offer, Harvard University Press, 1996).

3 Aristotele distingue nell'Essere, la “potenza” che costituisce il suo principio essenziale, e “l'atto” che è la manifestazione presente di questo principio (tra i due interviene la “forma”). La maggior parte delle teorie attuali del modo di produzione capitalistico e della lotta delle classi sono aristoteliche, ossia idealiste. Il concetto, che è un “concreto del pensiero”, è per esse una parte concreta del reale che si scompone in questa materia nucleare concettuale (un ossimoro) e la ganga, l'involucro delle circostanze. Come in tutti gli idealismi il processo del pensiero e il concreto sono assimilati e perfino confusi.

4 «Le condizioni sotto le quali gli individui, finché non è ancora apparsa la contraddizione, hanno relazioni tra loro, sono condizioni che appartengono alla loro individualità, non qualche cosa di esterno ad essi, condizioni sotto le quali soltanto questi individui determinati, esistenti in situazioni determinate, possono produrre la loro vita materiale e ciò che vi è connesso; esse sono quindi le condizioni della loro manifestazione personale e da questa sono prodotte. La determinata condizione nella quale essi producono corrisponde dunque, finché non è ancora apparsa la contraddizione, alla loro limitazione reale, alla loro esistenza unilaterale, la cui unilateralità si manifesta soltanto quando appare la contraddizione e quindi esiste solo per le generazioni posteriori. Allora questa condizione appare come un intralcio casuale, e allora si attribuisce anche all’epoca precedente la coscienza che essa è un intralcio.» (Marx, L'ideologia tedesca)

5 Lasciamo da parte una questione spinosa (forse perché mal posta): di diritto (concettualmente), nessuna delle due contraddizioni ha il primato sull'altra; di fatto (storicamente), la contraddizione tra gli uomini e le donne riceve dalla lotta di classe, in ogni periodo rivoluzionario, il suo biglietto d'entrata. Tale questione potrebbe essere soltanto indotta dal paradigma programmatico che ha costretto tanto la storiografia operaia e militante quanto quella universitaria.

6 Attraverso la caduta del saggio del profitto, lo sfruttamento è un processo costantemente in contraddizione con la propria riproduzione: il movimento costituito dallo sfruttamento è una contraddizione per i rapporti sociali di produzione di cui è ilcontenuto e il movimento. È il modo stesso attraverso il quale il lavoro esiste socialmente, la valorizzazione, a costituire la contraddizione tra il proletariato e il capitale. Definito attraverso lo sfruttamento, il proletariato è in contraddizione con l'esistenza sociale necessaria del suo lavoro come capitale, vale a dire come valore autonomizzato che rimane tale soltanto valorizzandosi: la caduta del saggio di profitto è una contraddizione tra le classi. Il proletariato è costantemente in contraddizione con la sua propria definizione in quanto classe: la necessità della sua riproduzione è qualche cosa che trova di fronte a sé, rappresentato dal capitale, per il quale esso è costantemente necessario e sempre di troppo: è la caduta tendenziale del saggio di profitto, la contraddizione tra pluslavoro e lavoro necessario (che diventa contraddizione del lavoro necessario).

Lo sfruttamento è questo strano gioco dove a vincere è sempre lo stesso (in quanto lo sfruttamento è sussunzione); allo stesso tempo, e per la stessa ragione, è un gioco in contraddizione con la sua stessa regola e una tensione all'abolizione di questa regola. È l'oggetto in quanto totalità, il modo di produzione capitalistico, a essere in contraddizione con se stesso nella contraddizione dei suoi elementi, perché questa contraddizione con l'altro è per ciascun elemento una contraddizione con se stesso, nella misura in cui l'altro è il suo altro. In questa contraddizione che è lo sfruttamento, è allora il suo aspetto non simmetrico che ci dà il superamento. Quando diciamo che lo sfruttamento è una contraddizione per se stessa, noi definiamo la situazione e l'attività rivoluzionaria del proletariato.

7 Agire in quanto classe significa attualmente, da una parte non avere per orizzonte che il capitale e le categorie della sua riproduzione, dall'altra, e per la stessa ragione, essere in contraddizione con la propria riproduzione di classe, rimetterla in causa. Chiamiamo “scarto” le situazioni e le pratiche che esprimono questa dualità.

8 Le moment actuel (Sic n. 1) ; La théorie de l’écart (TC n. 20) ; la Réponse aux américaines (TC n. 24).

9 «Ma questo è chiaro: che il Medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. Viceversa: il modo e la maniera di guadagnarsi la vita, spiega perché la parte principale [il corsivo è nostro, ndr] era rappresentata là dalla politica, qua dal cattolicesimo.» (Marx, Il Capitale, Libro I)

10 Questo può riguardare la famiglia come la città e la campagna.

11 Si pensi al lungo sciopero delle cassiere di supermercato sugli orari per potersi occupare della loro famiglia, ma anche, in un altro registro, alle lotte sull'aborto e la contraccezione: «C'è un'obiezione più fondamentale all'idea che la sessualità e la procreazione siano naturalmente legate e che occorra uno sforzo umano per dissociarle. Questa obiezione è che si presuppone che la sessualità umana sia naturalmente eterosessuale e naturalmente di un tipo connesso alla fecondazione. Ora, proprio al contrario, serve uno sforzo umano, uno sforzo culturale affinché le possibilità sessuali degli esseri umani siano canalizzate in un tipo di sessualità che produce eventualmente la fecondazione e la riproduzione.» (Christine Delphy, L'ennemi principal)

12 «Tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; […] quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società.» (Marx, L'ideologia Tedesca)

13 Si pensi alla presa delle Tuilleries il 10 agosto 1792 o alla Comune di Parigi nel 1871.

14 Se è possibile riprendere dalla Scuola della Regolazione il termine “fordismo”, occorre evitarne la trappola metodologica: la trasformazione di un principio di intelligibilità del periodo costruito ex post in principio reale posto ex ante, sulla base del quale il fordismo sarebbe un piano che si è realizzato, e non una trovata messa all'opera nel corso della lotta delle classi – non solo alle sue origini ma reiteratamente. La “coerenza del regime di accumulazione” non si limita così a essere uno strumento d'interpretazione dei concatenamenti economici e della lotta delle classi, ma si vede conferire una realtà intrinseca. La ristrutturazione cosiddetta fordista si è imposta in seguito alla disfatta operaia nella guerra, alla resistenza e all'immediato dopoguerra, e i meccanismi di formazione dei salari sono il risultato di una dinamica conflittuale. Così come viene enunciato dai regolazionisti, il “compromesso fordista” si presenta come una regolazione che presiede a un modello di crescita capitalistica, la “regolazione” appare come primigenia e non come un risultato a posteriori del conflitto tra le classi. Ciò significa che gli autori di questo testo non utilizzano il temine “regolazione” nell'accezione dei regolazionisti.

15 La classe dei capitalisti acquista – con l'intermediazione dello Stato o di organismo paritari, e in misura crescente di organismi privati che si fanno carico di questa funzione – una certa quota di forza-lavoro per il suo utilizzo globale, e ne completa il valore secondo l'uso che ne fa il singolo capitalista. Il salario diventa non il pagamento di una forzalavoro individuale a partire da se stessa, ma una quota parte del valore generale della forza-lavoro disponibile. La forzalavoro risulta allora presupposta come proprietà del capitale, non soltanto formalmente (il lavoratore è sempre appartenuto a tutta la classe dei capitalisti, prima di vendersi a questo o a quel capitale), ma realmente, in quanto il capitale paga per la sua riproduzione individuale a prescindere dal suo consumo immediato, che per ciascuna forzalavoro è accidentale. Il capitale non è diventato improvvisamente filantropico, in ogni lavoratore esso riproduce qualche cosa che gli appartiene: la forza produttiva generale del lavoro divenuta esteriore e indipendente rispetto a ciascun lavoratore e persino alla loro somma. Inversamente, la forza-lavoro direttamente in attività, consumata produttivamente, vede il suo lavoro necessario ritornarle in forma di frazione individuale, definita non dai bisogni esclusivi della sua riproduzione, ma in quanto frazione della forza-lavoro generale (che rappresenta la totalità del lavoro necessario), frazione del lavoro necessario globale. Tende a esserci perequazione tra redditi da lavoro e redditi da inattività.

16 In ambito artistico, l'espressione “mise en abyme” indica una tecnica che consiste nell'inerire in un'opera una sua copia miniaturizzata, ripetendo in questo modo la sequenza apparentemente all'infinito. [ndt]

17 Definiamo nello specifico lo stadio attuale della crisi del rapporto salariale. «Ma questa crisi strutturale (del rapporto salariale) prepara una crisi della creazione monetaria (crisi del modo di produzione capitalistico avente le forme specifiche della fase di accumulazione caratterizzata dalla finanziarizzazione della valorizzazione e dalle modificazioni a livello monetario iniziate nel 1971); crisi monetaria che, nella crisi del rapporto salariale all'interno della quale si inscrive, conserva e supera quest'ultima trasformandosi in crisi del valore: crisi dell'attività umana in quanto commensurabile. Crisi della creazione monetaria e crisi del rapporto salariale si costruiscono reciprocamente l'una nell'altra. Nel modo di produzione capitalistico, il valore non è la forma sociale generalizzata dei prodotti nello scambio, se non in quanto è valore in processo, in quanto non si perde mai grazie allo scambio con la forza-lavoro. La crisi della creazione monetaria, crisi della moneta come forma autonomizzata del valore, non è soltanto una crisi della circolazione, una crisi degli scambi, ma una crisi dello scambio di merci in quanto queste sono capitale, cioè sono portatrici di plusvalore, di tempo di lavoro eccedente [pluslavoro]. Una crisi della creazione monetaria che si manifesta storicamente come crisi del rapporto salariale, o una crisi del rapporto salariale che si manifesta come crisi monetaria, è una crisi del valore in quanto capitale o del capitale in quanto valore, vale a dire, in sintesi, una crisi del valore in processo: la sola possibile crisi del valore. Questa congiunzione non era inscritta da tutta l'eternità nel concetto di capitale, ma si realizza come crisi di una fase specifica del modo di produzione capitalistico. L'unità, come crisi del valore, della crisi della creazione monetaria integrante la crisi del rapporto salariale, designa allora, in quanto crisi del valore, il capitale come contraddizione in processo quale suo contenuto storico concreto. […] Essere una contraddizione in processo è per il capitale la sua stessa dinamica, ma questa dinamica diventa, colta nelle caratteristiche immediate di questa crisi, la contraddizione del gioco che abolisce la sua regola.» (Le moment actuel, in «SIC», n.1, gennaio 2012).

18 Non si tratta qui , in alcun modo, del “parassitismo” del capitale finanziario sul capitale produttivo. Cfr. Too Much Monkey Business, in «Théorie Communiste», n. 22, febbraio 2009.

19 Contraddizione, nel capitalismo finanziarizzato, tra l'aumento del saggio di profitto e quello del saggio di accumulazione. Cfr. Too Much Monkey Business, ibid., p. 117.

20 Cfr. Louis Martin, Je lutte des classes. Le mouvement contre la réforme des retraites en France, automne 2010, Ed. Senonevero, 2012.

21 Su questa dialettica di generalità e particolarità nella lotta dei sans-papier, cfr. Roland Simon, Le Démocratisme radical, Ed. Senonevero, pp. 169-207. L'analisi si riferisce al movimento dell'inverno 1996-97.

22 L'Autrice indica in nota che nove donne ecuadoriane su dieci immigrate in Spagna, sono occupate nel lavoro domestico, e aggiunge che «la percentuale è ancora più alta tra coloro che non hanno i documenti in regola». Questo è interessante, anche se il margine per quell'“ancora più” è davvero minimo.

23 In Machete, un film rimarchevole sull'emigrazione messicana negli Stati Uniti, un miliziano che sta pattugliando la frontiera, in uno sprazzo di lucidità, si domanda chi, a quel prezzo, si occuperà della sua vecchia madre se elimina tutti i clandestini.

24 Inoltre, l'Autrice rileva che allorché delle madri lasciano i propri figli dietro di sé, sono essenzialmente altre donne della famiglia a farsene carico. Nelle Filippine, grande paese fornitore di manodopera femminile sulla base di un sistema istituzionalizzato dallo Stato, «l'ideologia della domesticità delle donne resta intatta» (Gioconda Herrera, Etudes sur les migrations des femmes équatoriennes).

25 In Spagna o in Italia, l'impiego delle donne straniere come domestiche non riguarda soltanto le classi medie, ma anche una parte della classe operaia.

26 Cfr Théo Cosme, Les Emeutes en Grèce, Ed. Senonevero, 2010.

27 Si pensi agli armeni e agli azerbaigiani, che si uccidono tra loro a casa propria e a Mosca diventano “caucasici”.

28 Lo sfruttamento è costituito da tre momenti: l’opposizione tra la forza-lavoro e il capitale, la sussunzione del lavoro sotto il capitale, la trasformazione del plusvalore in capitale addizionale. Qui è il terzo momento che prendiamo soprattutto in considerazione. La trasformazione del plusvalore in capitale addizionale non è mai scontata: a causa della concorrenza, certo, al livello più superficiale, e anche a causa del fatto che questa trasformazione implica l’incontro del capitale-merce con il denaro, in quanto capitale o mezzo di circolazione (è la possibilità generale della crisi); ma soprattutto perché essa implica la trasformazione soggiacente del plusvalore in profitto, dunque il rapporto del plusvalore al capitale totale investito e, nel rinnovarsi dei cicli di produzione, l’aumento della composizione organica. La caduta tendenziale del saggio di profitto è invariabilmente l’angoscia che si trova al cuore dell’autopresupposizione del capitale o, in poche parole, del carattere mai scontato della trasformazione del plusvalore in capitale addizionale, e dunque del rinnovarsi del processo.

29 Nei nostri testi anteriori, abbiamo utilizzato il termine “illegittimità”; se gli preferiamo ora “asistemicità”, è per evitare la connotazione morale del primo termine, o semplicemente l’interpretazione strana, ma possibile, in base alla quale i proletari “non dovrebbero” rivendicare. Tuttavia la parola “illegittimità” rinvia anche a qualche cosa di reale: la costruzione e la condanna, talvolta ideologicamente efficace, della rivendicazione salariale da parte della classe dei capitalisti.

30 Si veda Sedasy, En passant: dualisme, dernières nouvelles, sul blog Restructuration sans fin. In linea generale, questo blog presenta, quasi in tempo reale, degli eccellenti commenti teorici riguardanti l’attualità sociale ed economica.

31 Abbiamo ripreso qui, con qualche modifica, alcune righe del testo Du kochari, du jasmin et de la Charia, pubblicato su questo stesso numero della rivista.

32 È normale che in quanto “prezzo del lavoro” il salario richiami l’ingiustizia della distribuzione, poiché, come tale, esso cessa di essere la sola sorgente del valore, per diventare un reddito connesso a uno dei fattori della produzione, posto accanto al capitale e alla terra, che a loro volta sono connessi ad un reddito.

33 Sarebbe forse convenuto utilizzare il termine “naturalizzazione” al posto di “personificazione”: ma preferiamo riservarlo alla produzione della categoria “donna”.

34 Sul nesso razza-genere, si veda, su questo numero della rivista, il testo Notes sur le black feminism.

35 Che l'economia in quanto istanza determinante sia egualmente, dentro l'autopresupposizione del modo di produzione, istanza dominante, dipende dalle modalità di estrazione del pluslavoro all'interno del modo di produzione dato (cfr. Karl Marx, Manoscritti del 1861-1863; vedi nota 9 [Tale Quale, sopra]).

36 «Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore (Hegel, contro la tendenza tedesca di quell’epoca a trattarlo come un “cane morto”, ndr), e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare.» (Marx, Poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale, 1873)

37 «Le categorie dell’economia politica sono forme intellettuali che posseggono una verità oggettiva in quanto riflettono dei rapporti sociali reali.» (Marx, Il Capitale, Libro I)

38 «Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell'oggetto o dell'intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente.»

39 Conviene essere comunque molto vigili quanto allo statuto accordato a questa distinzione fra soggetto e oggetto; nessuno dei due trae la propria esistenza da se stesso, e nemmeno dalla loro reciprocità. In effetti, la lotta del proletariato e anche la rivoluzione, non sono l’irruzione di una soggettività (più o meno libera, più o meno determinata), ma un momento del rapporto del modo di produzione capitalistico con se stesso e all’interno di se stesso; coloro che vedono in questo un approccio oggettivistico, dimenticano solamente che il proletariato è una classe del modo di produzione capitalistico e che quest’ultimo è lotta delle classi. Non si può isolare la questione del rapporto fra la situazione oggettiva e la soggettività dall’auto-contraddizione del modo di produzione capitalistico. Il soggetto e l’oggetto di cui parliamo sono dei momenti di questa auto-contraddizione, che nella sua unità passa attraverso queste due fasi (l’unità degli opposti promossi alla stato di autonomia).

40 È in quanto pratica del proletariato, che il gioco abolisce la sua regola: «Quando diciamo che lo sfruttamento è una contraddizione per se stessa, stiamo definendo la situazione e l’attività rivoluzionaria del proletariato». (Le moment actuel, in «SIC», n.1)

41 La presentazione che viene fatta in questa sede del progetto in quanto ideologia necessaria nel corso della rivoluzione, è un ritorno – ricalibrato e sviluppato – sulla critica del “progetto rivoluzionario” delineata in Théorie Communiste n.20, pp. 63-66.

42 Non è solo l’interdizione dell’accesso a via Amalias a caratterizzare la pratica del KKE come poliziesca. Numerosi documenti provano che il KKE ha protetto i muri di plexiglass eretti dalla polizia in via Assilissis Sofias ed il palazzo del Parlamento in maniera molto particolare e con obiettivi precisi, ovvero senza che ci fosse nessuna “popolazione non combattente” del KKE dietro al servizio d’ordine.

43 Talmente centrale da aver fatto passare in secondo piano l’assassinio di un manifestante da parte della polizia. La polizia di Stato ha usato una tale quantità di lacrimogeni da riuscire a uccidere uno di quelli che difendevano la classe operaia facendo la guardia davanti al Parlamento. In molti paesi, in particolar modo nelle zone più sviluppate del capitale (l’Italia e gli Stati Uniti ne sono gli ultimi esempi) lo scontro si manifesta nella forma bipolare delle rivolte, da un lato, e delle occupazioni e delle manifestazioni “pacifiche”, dall’altro.
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