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Orrore e dittatura secondo Viviane Forrester

Sebastiano Isaia

Il peggio, del resto, non è sempre la morte,
ma la vita massacrata nei vivi» (Viviane Forrester).

enhanced-22720-1411069238-10Nel suo saggio Una strana dittatura (Ponte alle grazie) del 2000 la scrittrice Viviane Forrester denunciava l’emergere di «un regime politico nuovo, non dichiarato, di carattere internazionale e addirittura planetario; un regime che si è insediato sotto gli occhi di tutti ma senza che nessuno se ne accorgesse, non clandestinamente ma insidiosamente, poiché la su ideologia rifiuta il principio stesso della politica e la sua potenza non sa che farsene del potere e delle sue istituzioni. […] Per questo regime, non si tratta di organizzare una società, di stabilire in questo senso forme di potere, ma di mettere in opera un’idea fissa, potremmo dire maniacale: l’ossessione di aprire la strada al gioco senza ostacoli del profitto, al gusto di accumulare, alle nevrosi del lucro, pronto a tutte le devastazioni, bramoso di accaparrarsi l’insieme del territorio o meglio dello spazio nella sua interezza, non limitato alle sue configurazioni geografiche».

Si tratta di una vera e propria dittatura che «imperversa sotto il termine, preso a prestito, di “globalizzazione”». Come si fa a smascherare una dittatura senza dittatore, una entità anonima che non aspira a prendere il potere semplicemente perché ha già il potere assoluto sulla società e sui politici che dovrebbero smussarne gli “eccessi”?

Chi ha letto il mio post del 2 ottobre dedicato alla natura totalitaria del regime sociale capitalistico nell’epoca della sussunzione planetaria del pianeta al Capitale (quest’ultimo concepito in primo luogo come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento), non mancherà di cogliere una certa assonanza di concetti tra le tesi là esposte e le argomentazioni della scrittrice francese, morta nel luglio del 2013.

Ma si tratta in parte di un’apparenza, nel senso che la Forrester esprime in termini che io giudico ideologici il processo sociale che ho cercato di mettere sotto i riflettori della critica (mia e del lettore) in quel post, cosa che per la verità mi sforzo di fare in tutti i miei scritti, cercando di bersagliare l’obiettivo (la società capitalistica tout court) da prospettive sempre diverse.

In effetti, il «regime politico nuovo» che la scrittrice noglobal assimila a una «ineffabile dittatura» altro non è che «l’ultraliberismo globale», un «sistema ideologico che si dimostra incapace di controllare ciò che suscita, di dominare ciò che scatena». Anche in questi passi echeggiano, appunto in modo capovolto, le mie  tesi  anticapitalistiche: non controlliamo né dominiamo la Potenza sociale cui pure diamo corpo ogni giorno con il nostro lavoro e con le nostre attività e relazioni sociali.

Piccola precisazione: scrivo “mie tesi” non per affettare un’originalità di pensiero che ovviamente so di non avere, ma per non nascondere mie più che probabili insulsaggini dietro la barba di qualche famoso e autorevole (ancorché privo di charme*) personaggio.

Dobbiamo svegliarci e reagire, scriveva ormai quindici anni fa la Forrester (che ho scoperto solo ieri): «Resistere è in primo luogo rifiutare. La priorità delle priorità: rifiutare l’orrore economico, uscire dalla trappola e, partendo di qui, avanzare». Come non essere d’accordo? Ma per reagire in modo efficace alla strapotenza del Moloch e avanzare nella giusta direzione, o quantomeno attrezzarsi adeguatamente per farlo appena possibile, dobbiamo capire con che realtà abbiamo a che fare. Quando si scrive, ad esempio, che il nostro nemico è «questa dittatura ultraliberista che dà al profitto la priorità sul complesso umano», a mio avviso chi la pensa in quel modo testimonia il fatto di non aver ancora compreso con che tipo di bestia l’umanità deve fare i conti dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno. Non si tratta di una dittatura ideologica: non importa se liberista, ultraliberista, turbocapitalista, oppure di altro – e solo apparentemente opposto – segno: statalista, protezionista e quant’altro; si tratta piuttosto di una dittatura che va declinata in termini squisitamente sociali, e che poi trova nella cosiddetta “sovrastruttura” politico-istituzionale una sua più o meno adeguata e puntuale espressione, un suo più o meno efficace strumento di lotta e di controllo sociale. Tanto è vero che la stessa scrittrice deve ammettere che la democrazia e la proclamazione dei diritti umani non hanno impedito il colonialismo, l’imperialismo e la “globalizzazione” che ha posto l’intera umanità sotto il maligno segno del Profitto.

«In assenza di etica, non ci sono limiti», si legge nel saggio qui in oggetto. Le cose, purtroppo, non stanno così. Ciò che fa difetto al vigente regime sociale non è l’etica, ma l’umanità. È l’assenza di rapporti sociali autenticamente umani che nega in radice l’autentica libertà, il potere degli individui di padroneggiare il mondo che essi costruiscono tutti i giorni. Come ho scritto altre volte mutuando indegnamente il grande Dostoevskij, se l’uomo non esiste tutto il peggio non solo è possibile, ma è nell’ordine “naturale” delle cose, compreso lo sterminio degli individui scientificamente pianificato e attuato: vedi ad esempio le due guerre mondiali del XX secolo, basate a quel che ne so su enormi interessi radicati nell’eticissima economia reale.

Come aveva capito l’economia politica nella sua fase di giovanile spregiudicatezza, la brama di profitto del Capitale non conosce limiti, se non nello stesso processo che crea la ricchezza sociale nella sua attuale forma capitalistica (questa è invece un’acquisizione marxiana): di qui, tra l’altro, le periodiche sofferenze e contraddizioni che si registrano nel processo di accumulazione del capitale, che inceppano il meccanismo economico dando luogo alle crisi. E di qui quelle «smanie periodiche, le stagioni di generale illusione, di speculazione selvaggia e credito fittizio» che si trovano già nelle pagine marxiane degli anni Cinquanta del XIX secolo.

Ma è proprio l’essenza del meccanismo capitalistico che la scrittrice non riuscì a comprendere, come dimostrano i passi che seguono, tratti dal suo saggio di maggior successo scritto nel 1996 (l’Orrore economico Ponte alle grazie, 2010): «Il lavoro è la colonna portante dell’economia e della società: questa la grande verità di tutti i tempi, che ha assunto le dimensioni della Grande Truffa. Le ricchezze non hanno più origine nella produzione, bensì nei giochi speculativi, che hanno perso qualunque legame con gli investimenti produttivi. I mercati virtuali non hanno bisogno del lavoro: questa è la prospettiva dello “sviluppo” nelle grandi società democratiche dell’Occidente. Uno sviluppo che però ha ben poco di democratico, giacché salvaguarda il profitto e scarica l’orrore economico sulle masse dei diseredati, ai quali impedisce di stare alle regole che pure impone. Perché per meritarsi di vivere, bisogna lavorare, e il lavoro non c’è. E ce ne sarà sempre meno». Ora, se si ragiona in termini astratti, ossia astorici, di lavoro e di economia; se, cioè, si prescinde dalla natura capitalistica del lavoro (salariato) e dell’economia cosiddetta reale non si arriverà mai a comprendere, ad esempio, le vere cause che resero possibile l’espandersi dell’economia cosiddetta virtuale (la finanza impazzita, come la chiamava Susan Strange) nei Paesi capitalisticamente avanzati alla fine del lungo ciclo di sviluppo economico internazionale seguito alla Seconda guerra mondiale. Salvo introdurre, capovolgendo i termini reali del processo sociale e fare dell’effetto una causa scatenante, il Deus ex machina della “controrivoluzione liberista” modello Thatcher e Reagan, che difatti diventò ben presto il cavallo di battaglia dei keynesiani d’ogni tendenza. E ripetere stancamente il mantra della «crescita esponenziale delle sperequazioni economico-sociali», come ha fatto l’altro ieri il solito Thomas Piketty presentando alla Camera dei Deputati il suo celebratissimo Capitale del XXI secolo. Il giorno prima «l’economista più rock dai tempi di John Maynard Keynes» (Il Foglio) aveva mietuto consensi  e applausi alla Bocconi, «chiesa accademica del neo-liberismo». Non sarà che quelli del Wall Street Journal, bollandolo come cripto-bolscevico, hanno preso una gran cantonata? Si fa per scherzare. Ritorniamo a cose più serie.

Ancora una citazione tratta da La strana dittatura: «La “soluzione” non sta nella proposta di un altro modello, di un kit di sostituzione, nella promessa di una società nuovissima, pulitissima, garantita chiavi in mano; ormai sappiamo quanto valgono i modelli…». È evidente che qui l’autrice allude con qualche amara ironia ai modelli sociali sedicenti alternativi un tempo chiamati «socialismi reali». Il Moloch ringrazia lo stalinismo internazionale (il quale purtroppo sopravvive ancora oggi sotto mentite spoglie) per aver reso repellente le parole stesse che rinviano all’idea di una comunità basata sulla piena soddisfazione dei molteplici bisogni di individui associatisi liberamente fra loro. E Michele Masneri ieri poteva scrivere sul Foglio, a commento della – a quanto pare poco brillante – performance romana di Piketty, «Il capitalismo è il peggiore sistema sociale ad eccezione di tutti gli altri». Come dargli torto, se si prende sul serio il “socialismo” che si predicava e praticava a Mosca e a Pechino?

Nell’Orrore economico Viviane Forrester racconta la derisione con la quale gran parte degli intellettuali occidentali accoglieva le sue denunce anticapitalistiche: «”Ma lo sa che il muro di Berlino è caduto? Davvero le piaceva l’Unione Sovietica? E Stalin?”». La tentazione di rifugiarsi in un cupo e impotente mutismo è stato forte: «Quante parole sono imbevute del fascino del desueto: “profitto”, certo, ma anche “proletariato”, “capitalismo”, “sfruttamento”, o ancora quelle “classi” ormai così impermeabili a qualsiasi tipo di “lotta”. Far ricorso a questi arcaismi sarebbe prova di eroismo. E invece il contenuto reclama queste parole messe all’indice e senza le quali ciò che esse definiscono ritorna a galla senza fine. Privo di questi vocaboli, come può il linguaggio render conto della storia che ne è piena, e che continua a trasportarli? Solo perché un’iniziativa totalitaria e mostruosa ne faceva uso e propaganda, ci devono essere proibiti d’autorità, meccanicamente? Lo stalinismo avrà dunque sradicato tutto? Gli permetteremo di determinare questo mutismo, queste oblazioni che, a partire dalla lingua, mutilano anche il pensiero?».  Certo che no! Quantomeno, cercheremo di reagire all’astuzia del Dominio.

Da ben prima che il famigerato Muro di Berlino cadesse sulle dure teste dei “comunisti” occidentali ho cercato di combattere il maligno lascito dello stalinismo, in primo luogo attraverso la denuncia del carattere capitalistico/imperialistico del regime russo cosiddetto sovietico (analogo discorso e mutatis mutandis vale naturalmente per la Cina di Mao). Il mio mantra preferito: il “socialismo reale” come un capitolo particolarmente mostruoso del Libro Nero del Capitalismo. Naturalmente nemmeno io ho da offrire al mondo che vive nell’orrore capitalistico un modello sociale nuovissimo e garantito chiavi in mano; ma quando penso alle alternative possibili a quell’orrore non posso prescindere dalla convinzione che ho maturato intorno all’esperienza sovietica, dalla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre in poi, che si è appunto manifestata come stalinismo. Ma, questo, è il mio modo di approcciare il problema, e non pretendo che sia l’unico possibile né il più fecondo.

In un’intervista rilasciata a Repubblica molti anni fa, la scrittrice in lotta contro «il pensiero unico» rivendicava nel modo che segue il suo impegno politico: «Scrivere e pensare sono sempre azioni politiche. Scrivere è un’azione sovversiva, pensare è un’azione sovversiva, non a caso i regimi totalitari non tollerano la gente che pensa». Se la mia “declinazione” del concetto di regime totalitario è corretta (il dominio sociale del Capitale è totalitario in un’accezione che deve necessariamente risultare incomprensibile al pensiero politico-giuridico borghese), molte persone che vivono di eterne lotte antifasciste farebbero bene a interrogarsi sulla fondatezza del loro impegno “anticapitalista”.

* Per Luigi Mascheroni (Il Giornale) «Thomas Piketty, superstar del dibattito economico al tempo della crisi, non ha la barba di Marx, ma molto più charme». Non c’è dubbio. D’altra parte, barba o non barba, charme o non charme sempre di «merda economica» si tratta quando parliamo di Capitalismo e di teorie che cercano di carpirne i segreti.

Probabilmente il pensiero “economico” marxiano non può essere considerato l’ultima parola in fatto di comprensione dell’economia capitalistica. Non credo di possedere i requisiti adeguati per dire parole definitive a questo proposito. Sono però sempre più convinto che il comunista di Treviri rimanga il miglior punto di partenza per chi intenda analizzare criticamente il processo economico-sociale dei nostri tempi, per comprenderne le essenziali “leggi di movimento”. Finora nessun economista moderno è stato capace di incrinare questa forte – spero non ideologica – convinzione, che col trascorrere del tempo si è anzi rafforzata, soprattutto attraverso la lettura – e rilettura: mai fidarsi delle prime impressioni – degli economisti più importanti del XX secolo: in primis Keynes (che piace di più ai sinistrorsi, per via della sua propensione interventista che rincuora gli statalisti) e Schumpeter (più gradito ai destrorsi, a causa della sua «distruzione creatrice», che strizza l’occhio al darwinismo sociale). Non parliamo poi dei loro epigoni più o meno ortodossi del XXI secolo, l’epoca appunto del Capitale di Thomas Piketty, il quale «non ha la barba di Marx, ma molto più charme». Vuol dire che me ne farò una ragione!

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