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Invito all'esodo

Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Federico Dinucci

Preve fusaroIn alcuni siti che seguo sono state pubblicate recentemente dure critiche a Diego Fusaro (qui e qui). Mi sembra che il punto critico cruciale dietro a queste discussioni sia quello del superamento dell'opposizione di destra e sinistra. Mi riservo di intervenire su questo in futuro. Per il momento, penso che possa essere interessante offrire ai lettori qualche documento sull'origine di alcune delle tesi attualmente in discussione. Uno dei luoghi intellettuali nei quali si sono elaborate queste tesi, negli anni Novanta, è stata la rivista "Koinè", stampata a Pistoia dalla casa editrice CRT. Attorno ad essa si radunarono persone diverse per età e percorsi culturali pregressi, ma tutte accomunate dal fatto di aver attraversato, in un modo o nell'altro, il marxismo e la sua crisi, e dal fatto di cercare nuovi modi di impostare la critica intellettuale dell'esistente. Fra queste persone, le più note erano senz'altro Massimo Bontempelli, Gianfranco LaGrassa, Costanzo Preve. Assieme alla rivista, la casa editrice CRT pubblicò in quegli anni molti testi, scritti dalle persone appena nominate e da vari altri collaboratori della rivista. L'insieme di questi testi costituisce, credo, un robusto fondamento per le tesi sul superamento di destra e sinistra.

I due articoli che vi propongo, in varie puntate, non sono stati pubblicati su "Koinè", ma su "Diorama letterario", la rivista di Marco Tarchi, e volevano essere una presentazione a interlocutori esterni delle tesi fondamentali che gli autori andavano elaborando. Il primo articolo, "Invito all'esodo", è stato pubblicato nel numero 150, Febbraio-Marzo 2002, di "Diorama Letterario". Gli autori sono Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Federico Dinucci. (M.B.)



I.

1. Distacco critico. Con questo articolo intendiamo presentare ai lettori di “Diorama”  alcune delle idee e degli argomenti che stanno alla base della nuova serie della rivista “Koiné” pubblicata dalla CRT di Pistoia.

Il gruppo di persone che si è riunito per tentare l’impresa di costruire una nuova rivista di analisi culturale, politica e filosofica sapeva di assumersi un compito difficile, tanto grande è il numero di tali riviste e tanto piccolo è lo spazio di attenzione che in genere riescono a conquistare. Ci si  è nondimeno imbarcati in questa avventura per un motivo molto semplice: ci sembrava di avere qualcosa di originale da dire, qualcosa che non riuscivamo a trovare nelle riviste, nei libri o nei giornali che leggevamo, e infine qualcosa che valeva la pena fosse detto.

In estrema sintesi, le nostre posizioni sono quelle di chi ritiene necessario un atteggiamento di critica e di distacco rivolto su due fronti: da una parte contro il capitalismo attuale e le sue ideologie, dall’altra contro quelle posizioni teoriche e pratiche, di destra e di sinistra, che nel  900 hanno tentato la critica e il superamento del capitalismo.  Le persone legate alla nuova serie di “Koiné” provengono, tutte o quasi, da esperienze “di sinistra”, e parlare di “distacco critico dal capitalismo” può forse apparire ovvio e banale. Vogliamo comunque ribadire alcuni punti per noi decisivi, perché sono essi a motivare anche il nostro distacco dalla sinistra.

L’attuale società capitalistica si sta muovendo in direzioni che accentuano ogni giorno di più i caratteri di irrazionalità e insensatezza che essa ha sempre avuto e che apparivano mitigati nella fase del welfare state. Negli ultimi decenni è stato distrutto il compromesso sociale che assicurò, nei trent’anni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, tassi di sviluppo senza precedenti, ma soprattutto una politica di redistribuzione dei redditi che innalzò i livelli di consumo e benessere delle masse e permise lo sviluppo di una vasta rete di sicurezze e garanzie sociali (pensioni, scuola, sanità, tendenziale piena occupazione). Oggi, nel tempo del capitalismo sregolato e “globalizzato”, appare dominante la spinta all’aumento delle disuguaglianze sociali e delle fasce di autentica povertà, alla perdita dei diritti, delle sicurezze, delle garanzie conquistate dai ceti inferiori delle società occidentali. La situazione drammatica in cui vivono milioni di esseri umani nel pianeta e l’incapacità o la non volontà da parte dei paesi industrializzati di sviluppare un’azione effettiva di giustizia rispetto ai tanti problemi del mondo generano tensioni che sempre più spesso sfociano in guerre e violenze, alle quali l’Occidente egemonizzato dagli USA non sa rispondere se non con interventi militari che creano le premesse di nuovi problemi e nuove violenze. Uno svuotamento sostanziale della democrazia, ridotta a competizione di immagine fra candidati indistinguibili, e un sovrano disinteresse verso le conseguenze ecologiche del nostro modello di sviluppo completano il quadro. Si tratta di un quadro tanto negativo da farci temere che, a medio o lungo termine, le contraddizioni del nostro mondo possano esplodere in crisi distruttive.

2. Critica della sinistra. Il mondo del capitalismo contemporaneo è dunque un mondo che deve essere criticato e combattuto. Ma per fare questo occorre abbandonare definitivamente e sottoporre anzi alla critica più radicale quelle grandi unità ideali che chiamiamo marxismo, comunismo, sinistra. Non intendiamo dilungarci molto, in questo articolo, su marxismo e comunismo. Da una parte, si tratta di realtà che non ci sembra abbiano oggi molta rilevanza storica, ridotte a bandiere di piccoli gruppi settari incapaci di azione politica incisiva e spesso anche di analisi filosofica e scientifica significativa. Dall’altra, l’analisi storica e teorica di un secolo e mezzo circa di marxismo e comunismo è davvero troppo impegnativa per essere svolta in un breve articolo, ci limitiamo qui ad alcune affermazioni molto schematiche e dogmatiche, scusandocene e rimandando ad altra occasione un’analisi più approfondita.

Per quanto riguarda il marxismo, ci sembra che sia lo stesso programma originario di Marx ad essere inficiato da decisivi errori filosofici, dall’incapacità di pensare l’essere umano in tutta la ricchezza della sua realtà spirituale. Il marxismo non è quindi la nostra concezione del mondo: è piuttosto un patrimonio di saperi che contiene riferimenti conoscitivi e prospettive sociali ancor oggi valide, che devono però essere fondate su una riflessione filosofica e antropologica nella sostanza estranea al marxismo storicamente dato. Per fare un esempio, è nostra opinione che la comprensione di alcuni meccanismi decisivi del capitalismo contemporaneo non possa prescindere dagli strumenti teorici elaborati da Marx nel “Capitale”, mentre riteniamo del tutto carente la fondazione filosofica (il materialismo storico inteso come concezione generale della realtà) che lo stesso Marx dà alle sue analisi scientifiche. Siamo quindi persone che, abbandonando il marxismo, intendono costruire un nuovo modo di opporsi al capitalismo, e intendono portare in questa costruzione alcuni elementi conoscitivi ancora validi del marxismo storico.

Per quanto riguarda il comunismo, il punto centrale della questione non è tanto quello di una valutazione storica di meriti e demeriti delle società di “socialismo reale”. Conosciamo bene i tanti aspetti negativi, e diciamo pure francamente orribili, di queste società. Sappiamo anche che esse hanno avuto indubbi meriti storici, come quello della lotta, costata prezzi altissimi, al nazifascismo. Ma da questo tipo di dibattito, pure importante, non emerge quanto ci preme sottolineare qui. Si tratta del fatto che il “comunismo storico del 900”, comunque si vogliano giudicare i risultati della sua esistenza, ha fallito senza appello su una questione fondamentale: non è mai riuscito a rappresentare una alternativa reale al capitalismo. La realtà storica del socialismo reale è quella di società che hanno riprodotto in sostanza gli aspetti più deleteri del modo capitalistico di produzione, senza riuscire a produrne anche gli aspetti positivi (il benessere, le libertà individuali). Si tratta di un’esperienza storica che non è in grado di dirci nulla sul modo in cui oggi possiamo tentare di combattere il mondo del capitalismo. O meglio, è in grado di mostrarci esclusivamente il fatto che quella via è una via da non percorrere.

Dopo aver esposto in forma rapida e necessariamente dogmatica le nostre idee di fondo su marxismo e comunismo, cerchiamo adesso di dire qualcosa di più sulla “sinistra”. Ci sembra, per iniziare la discussione, che sia necessario distinguere fra il ceto politico di sinistra e il “popolo di sinistra”. Per quanto riguarda il ceto politico della sinistra governativa, il giudizio non può che essere del tutto negativo. La sinistra ha scelto di essere totalmente interna a quel mondo del capitale che noi vorremmo criticare e superare. Ha scelto di sostenere e rendere effettive tutte le misure richieste dall’attuale fase dello sviluppo capitalistico: distruzione del welfare state, perdita dei diritti dei lavoratori, impresa e profitto come necessità assolute alle quali tutta la società umana (e perfino la natura) devono piegarsi. Il ceto politico di sinistra si pone oggi, in maniera chiara, come il mediatore del consenso popolare alle esigenze del capitale, sostituendosi così, in Italia, alla Democrazia Cristiana, che ha svolto questo stesso ruolo negli anni del dopoguerra. Con un corollario: poiché l’attuale capitalismo ha l’esigenza di distruggere le conquiste ottenute dai ceti popolari nei decenni precedenti, e poiché questo non si può fare se non riducendo gli spazi di democrazia, il ceto politico di sinistra appare, da molti punti di vista anche se non da tutti, più antipopolare e più antidemocratico di quanto la DC sia mai stata. Queste nostre posizioni non devono naturalmente essere interpretate come una vicinanza alla destra italiana o europea. La destra europea rappresenta un ceto politico di mestieranti di basso profilo, liberista e quindi antisociale, pronto a sollecitare gli interessi bottegai e corporativi dei ceti medi, al di fuori di qualsiasi coerente progetto globale. È persino ridicolo che in Italia sia comparso come rappresentante dei ceti medi e professionali un grande monopolista, dotato di immense ricchezze costruite non certo con una professione, ma di torbida origine, quale Berlusconi. Questa destra, tuttavia, con tutto il suo squallore, non ha tracce di fascismo: chi afferma il contrario, anche riguardo a Fini, o cerca pretesti qualsiasi per colpire un avversario, o, se crede realmente in ciò che afferma, è penosamente privo di ogni cultura storica. La nostra democrazia è già stata svuotata da tempo, e col contributo della sinistra, dei suoi contenuti essenziali. La destra italiana non rappresenta un particolare pericolo se non nel senso di procedere con maggiore speditezza verso un’accentuazione di tendenze poliziesche e illegalmente repressive; si tratta di tendenze non assimilabili, comunque, al fascismo, e in ogni caso inscritte nelle dinamiche profonde del mondo capitalistico attuale e quindi non legate a uno specifico schieramento politico.

Destra e sinistra appaiono, con chiarezza evidente a chi non abbia scelto la cecità, come la mano destra e la mano sinistra del capitale, che continua con una quello che ha iniziato l’altra. Così, se il primo governo Berlusconi non riesce a fare la riforma delle pensioni per le proteste di piazza, ci penseranno a farla i governi appoggiati dalla sinistra, magari a rate e con lo sconto del 5%, per renderla più accettabile. Se la sinistra al governo introduce il lavoro interinale, il lavoro in affitto e attacca in varie forme e modi i diritti che i lavoratori si erano conquistati in decenni di lotte, la destra prosegue l’opera proponendo modifiche all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.  Se la sinistra porta avanti, con le sue riforme, una privatizzazione strisciante della scuola pubblica, la destra non toccherà in nulla, se non su questioni secondarie, l’opera di Luigi Berlinguer, pur tanto criticato dalla destra quando era Ministro della Pubblica Istruzione, Se, con la sinistra al governo, i giovani che protestano contro la globalizzazione vengono caricati dalla polizia e brutalmente picchiati (Napoli marzo 2001), la destra al governo prenderà in mano il testimone con le cariche della polizia durante il G8, i pestaggi nelle caserme, la morte di Carlo Giuliani. Destra e sinistra mostrano poi esplicitamente, in nome dello spirito “bipartisan”, la loro identità di vedute sulla politica estera, dalla guerra alla Jugoslavia al sostegno all’intervento americano in  Afghanistan.

Senza uscire dall’illusione che la destra rappresenti un pericolo speciale per la democrazia, pericolo rispetto al quale l’insieme della sinistra possa, pur con tutti i suoi gravi limiti, fungere da scudo, non si può contribuire ad arrestare la degradazione della nostra civiltà sociale. Pensare che la sinistra governativa mostri “limiti”, “ritardi” o “errori” , dai quali sia possibile correggerla, rappresenta la stessa (sospetta) ingenuità di chi pensava che le evidenti storture e gli autentici crimini dell’URSS e dei paesi di socialismo reale fossero “errori” emendabili grazie a discussioni razionali. Adesso è ormai chiaro a tutti che i pretesi “errori” del socialismo reale erano invece logiche manifestazioni dell’autentica natura sociale di quei regimi. Allo stesso modo gli “errori” e i “limiti” della sinistra governativa non sono accidentali ma manifestano il suo essere intrinsecamente, come d’altronde la destra, uno strumento di svuotamento della democrazia al servizio del totalitarismo neoliberista.

3. Contro il capitalismo, fuori da destra e sinistra. Il limite gravissimo di tutte quelle forze minoritarie che in Europa manifestano una opposizione al totalitarismo neoliberista rimanendo nel solco della tradizione della sinistra sta nel non cogliere la pur solare evidenza di questo punto. In Italia, Rifondazione comunista, dopo aver sostenuto per oltre due anni senza alcun costrutto il governo Prodi, è passata bensì meritoriamente all’opposizione, ed ha bensì avuto la dignità costituzionale e morale di combattere intransigentemente la guerra balcanica (per cui non sarebbe né generoso né razionale metterla sullo stesso piano dei comunisti italiani di Cossutta e dei verdi, che rivelarono allora tutta la loro cialtroneria e la perfetta inutilità della loro esistenza), ma non ha mai cessato di cercare convergenze con la sinistra governativa, considerandola a tutti gli effetti, a differenza della destra, politicamente praticabile. Questo limite profondo, questa incapacità di vedere la realtà anche da parte di un partito come Rifondazione, che conserva lucidità su molte questioni, si radica in un modo di essere da ceto politico che tratta il proprio partito, in quanto base identitaria e materiale del proprio ruolo sociale, come un’azienda che deve fatturare voti e accumulare spazi di presenza nell’ambito dei poteri istituzionali. Questo modo di essere porta infatti a temere più di ogni altra cosa l’emarginazione dalle istituzioni e l’isolamento dalle forze che ne controllano l’accesso, e non consente perciò di accettare la verità che tutte indistintamente quelle forze sono politicamente impraticabili da chi voglia difendere un minimo di civiltà sociale.

Il nostro giudizio sul ceto politico della sinistra governativa è dunque del tutto negativo: non si può sperare di ricostruire una iniziativa storica anticapitalistica senza rompere definitivamente con esso. Il ceto politico della sinistra governativa è per noi un nemico al pari di quello della destra. Apprezziamo invece la capacità di un partito come Rifondazione di scegliere il terreno dell’opposizione al capitalismo globalizzato. Di Rifondazione critichiamo l’incapacità di vedere come la conseguenza logica di tale opposizione non possa essere che la rottura intransigente con il ceto politico della sinistra governativa.

Ma se questo è il giudizio da dare sul ceto politico di sinistra, che dire del “popolo di sinistra” ? Il fatto che l’insieme del mondo della sinistra, della “società civile di sinistra”, comprese alcune sue frange apparentemente radicali, finisca poi sempre per appoggiare un ceto politico che è, in modo evidente, espressione degli imperativi del capitale, dovrebbe già inoculare un certo sospetto. La nostra tesi è che la cultura e l’ideologia del “popolo di sinistra” sono oggi fra i principali ostacoli alla ricostruzione di una iniziativa storica anticapitalistica. Per fare solo qualche esempio, l’insistenza, tipica di questa cultura, sulla coppia destra/sinistra impedisce di vedere come destra e sinistra siano oggi solo cordate contrapposte di specialisti della mediazione e del consenso, in lotta per ottenere il ben remunerato privilegio di divenire gli esecutori delle direttive delle oligarchie finanziarie internazionali. L’insistenza sulla coppia fascismo/antifascismo impedisce di vedere come oggi stermini e orrori non siano prodotti di una barbarie fascista che non si scorge all’orizzonte, ma siano effetto del normale e quotidiano funzionamento del capitale. I motivi profondi che rendono il popolo di sinistra così incapace di una analisi spassionata della realtà, così restio a vedere come il ceto politico cui dà il suo voto pratichi una politica distruttiva nei confronti di quelli che furono gli ideali della sinistra, meriterebbero un articolo a sé. Qui vogliamo solo precisare che sarebbe ingeneroso non riconoscere il fatto che in questo “popolo di sinistra”  vi sono comunque persone animate da sincera passione anticapitalistica, persone che sanno cogliere molti degli aspetti aberranti del nostro mondo e sanno anche criticare aspetti particolari del ceto politico di sinistra. A queste persone bisogna però dire, con la massima sincerità, che il loro anticapitalismo resterà minato da contraddizioni insanabili e non potrà diventare un fondamento condiviso finché non romperanno i ponti col mondo della sinistra (con la politica, la cultura e l’ideologia della sinistra) e non affronteranno le fatiche e i rischi di un esodo innanzitutto culturale e morale. L’esodo, il distacco interiore dal mondo dei riferimenti simbolici che l’attuale società offre, compresa l’opposizione ormai illusoria di destra e sinistra, è solo il primo passo da compiere per ricostruire la possibilità di un pensiero autenticamente critico, e in prospettiva di un’azione politica anticapitalistica che dovrà necessariamente raccogliere in una sintesi nuova quanto di umanamente valido e culturalmente vitale è oggi disperso nelle culture di sinistra, di centro e di destra.

 

II.
 
1. La “sussunzione reale” dell’essere umano.La nostra analisi critica non può però fermarsi qui. La critica ai ceti politici di destra e di sinistra che attualmente si contendono il potere, l’invito a rompere i legami con destra e sinistra sono posizioni che giudichiamo assolutamente necessarie, ma non ancora sufficienti. L’analisi critica che abbiamo svolto nelle pagine precedenti non coglie infatti un aspetto profondo e decisivo del capitalismo contemporaneo. Si tratta del fatto che la logica del capitale è ormai penetrata in profondità nella costituzione stessa degli individui. Il capitalismo, inteso come modo di produzione, è un sistema di relazioni sociali che nella sua progressione storica tende a imporsi come l’elemento dominante dell’organizzazione sociale, il punto focale di ogni attività, il presupposto non discusso di ogni azione. Il profitto tende a diventare il fine rispetto al quale l’intera vita sociale e la stessa natura appaiono come mezzi. Per usare il linguaggio marxiano, il capitale come plusvalore che si valorizza “sussume a sé” natura e società. Ora, il marxismo storico ha avuto sufficientemente chiaro l’andamento di questo processo nei confronti del lavoro produttivo. Le analisi di Marx e dei migliori fra i suoi epigoni sulla “sussunzione reale” del lavoro al capitale restano nella sostanza corrette. Il fenomeno divenuto decisivo in questi ultimi decenni sembra a noi costituito dall’estendersi di questa “sussunzione” al di fuori del rapporto di lavoro: all’intera società, alla natura, al modo di essere personale degli esseri umani. Se questo è vero, è chiaro allora che al di fuori di una resistenza d’insieme a tutte queste forme nelle quali il capitale “sussume a sé”, piega alle proprie finalità, l’intero mondo, non si dà alcun orizzonte anticapitalistico. Occorre cioè comprendere che il capitalismo si autoriproduce non soltanto attraverso la politica economica delle sue imprese, e neppure soltanto attraverso la divisione sociale e tecnica del lavoro che innesca, bensì anche, in maniera essenziale, attraverso l’operare apparentemente autonomo di elementi antropologici e di forze ambientali su cui ha impresso in profondità il suo sigillo. Il capitalismo non è una “gabbia d’acciaio” che imprigioni individui lasciati sussistere tali e quali, e che si tratterebbe solo di liberare. Il capitalismo è una logica complessiva dei rapporti sociali che, appunto perché complessiva, agisce in profondità sulle dinamiche personali degli esseri umani, plasmando psicologie e rapporti umani. Nello stesso tempo questa azione profonda non è mai completa e assoluta perché, a differenza di quanto credono Marx e i marxisti, l’essere umano non è l’insieme dei rapporti sociali: l’introiezione della logica del capitale nelle psicologie degli individui presuppone comunque una soggettività, una scelta, e perciò stesso non può mai escludere del tutto la possibilità della scelta opposta, e quindi della resistenza. Soltanto l’attivazione di questo tipo di resistenza apre uno spazio, difficilissimo ma non illusorio, di anticapitalismo. L’anticapitalismo non può quindi esistere se non sulla base di un modo di essere personale capace di resistere in qualche forma, sia pur limitata, a quelle logiche che impongono una psicologia degli individui basata sulla competizione, sulla riduzione dei rapporti personali alla forma del “contratto”, sull’isolamento degli individui che non sanno più comunicare se non nei termini della “contrapposizione commisurante” (per usare un linguaggio heideggeriano). Queste logiche dei rapporti personali sono appunto quelle che traducono in termini di motivazioni individuali l’impersonale dinamica sistemica dell’accumulazione senza fine di plusvalore. Allo stesso modo, l’anticapitalismo deve saper combattere contro quelle ideologie spontanee che trasformano, in modo irriflesso, le necessità del capitale in assiomi del senso comune. 

2. Ideologie spontanee nel capitalismo. Facciamo qualche esempio di cosa sia oggi il “senso comune del capitalismo”. Il capitalismo, in quanto dominato da una logica di crescita quantitativa, non ha né può avere limiti; tende, e non può non farlo, a sfruttare ogni ambito della vita sottomettendolo all’imperativo della valorizzazione. Non può quindi ammettere che culture, morali, religioni tradizionali sottraggano qualche aspetto della vita umana alla mercificazione, e deve quindi dissolvere tutti quegli aspetti delle culture tradizionali che potrebbero appunto porre dei limiti alla sua espansione quantitativa.

Ma tali limiti non vengono solo dalle culture a base religiosa o comunque di tipo autoritario e gerarchico. Tali limiti vengono anche posti all’interno della tradizione, tipica della filosofia occidentale, di una razionalità dialogica che non impone autoritariamente una norma all’altro, ma chiede la disponibilità ad una ricerca comune (sul bene e sul male, sul giusto e l’ingiusto) e all’assunzione di responsabilità rispetto alle conclusioni cui tale ricerca arriva. Entro tale tradizione è stata elaborata razionalmente una visione del mondo che contrasta in tutto e per tutto con l’idea che sia un bene per l’essere umano la dominanza totale di una logica di espansione illimitata della merce, qual è quella del capitalismo contemporaneo. E’ chiaro allora che il dominio materiale e ideale del capitalismo deve portare alla critica di tale tradizione culturale. Per essere più precisi, deve portare a una temperie culturale nella quale i principi basilari di tale tradizione appaiano sbagliati, assurdi, incomprensibili. Il meccanismo ideologico per l’annullamento dei valori della tradizione filosofica dell’Occidente è quello della riduzione della razionalità a razionalità strumentale, in modo che alla ragione viene sottratta ogni possibilità di indagine normativa sui fini delle azioni umane, sul giusto e l’ingiusto, ed essa è così confinata all’esame dei mezzi migliori per raggiungere fini arbitrariamente scelti. Si tratta della razionalità teorizzata da Weber e analizzata dalla Scuola di Francoforte. Una ragione che non può più occuparsi dei fini delle azioni umane, che non può più riferirsi a norme universali elaborate in un dialogo ordinato nell’orizzonte di una verità umana mai compiutamente raggiunta ma tuttavia capace di indirizzare la ricerca, è una ragione che non può più opporre nessun ostacolo al dilagare della mercificazione universale.

Se questa è la torsione che la realtà contemporanea impone alla ragione, possiamo ora analizzare il tipo di storture impresse al mondo dei desideri e della pulsionalità. E’ evidente come le pulsioni e i desideri umani siano deviati, nel mondo contemporaneo, verso l’avere piuttosto che verso l’essere (per usare la celebre formula di E.Fromm) e come, allo stesso tempo, essi siano amplificati oltre ogni misura. Si tratta qui naturalmente del fatto che la massa di valore continuamente crescente, creata nel processo produttivo, deve poi essere realizzata sul mercato, per non bloccare il processo di accumulazione. Le merci devono trovare acquirenti. Gli individui devono quindi essere indotti ad abbandonare ogni restrizione alla continua acquisizione di beni, e devono essere indotti a vivere le proprie pulsioni e i propri desideri solo come desideri di merci (materiali e immateriali) da acquisire sul mercato, e mai, per esempio, come desideri di relazioni umane più profonde, di comunicazioni più autentiche, di riflessioni intellettuali orientate alla verità.

Cosa risulta dalla somma di queste considerazioni? Risulta che l’essere umano come viene formato dai meccanismi automatici del capitalismo contemporaneo è un essere umano che ha rinunciato all’idea di una ragione che si sforza di arrivare a verità morali universali, e che quindi crede a una pluralità di morali fra le quali ciascuno sceglie secondo il proprio arbitrio; che ritiene ogni passione o desiderio moralmente indifferente, accettando l’idea che essi siano regolati in sostanza dal mercato; che può anche avere valori e ideali, purché sia chiaro che si tratta di scelte arbitrarie sulle quali non è possibile un dialogo razionale. Un individuo che tenderà a regolare i propri rapporti umani nella forma di contrattazioni, che risulterà molto razionale e molto abile nelle situazioni in cui l’abilità richiesta è quella necessaria ad adattarsi alle richieste del meccanismo sociale e a sfruttare le occasioni di carriera personale che esso permette. Questo individuo tollerante, ironico, che vive le proprie emozioni come evenienze staccate dal resto della propria personalità e da ogni riflessione razionale, e la propria razionalità come semplice ricerca dei mezzi migliori per fini arbitrari, è esattamente, ci sembra, il tipo umano dominante nelle nostre società occidentali, e la sua visione del mondo è quel relativismo culturale politicamente corretto che ci appare la vera ideologia del capitalismo contemporaneo. È chiaro che non c’è a questo livello nessuna distinzione fra destra e sinistra: questo tipo umano può essere indifferentemente un elettore di Berlusconi o di D’Alema, di Casini o di Rutelli. È proprio questa profonda unità antropologica la base dell’indistinzione politica fra destra e sinistra: è perché esprimono gli stessi tipi umani che destra e sinistra esprimono anche, in sostanza, le stesse politiche.

Dovrebbe ora risultare chiaro come per noi la teoria anticapitalistica abbia bisogno urgente, per non rimanere fasulla, di venire articolata ben al di là di una raffigurazione riduttiva del modo di produzione. Non c’è neppure una reale teoria del modo di produzione capitalistico senza far luce su come la sua dinamica autoriproduttiva determini particolari strutture di essere personale e ne tragga impulso. Occorre capire, per fare ancora un esempio, che chi riduce la realtà umana alla sola dimensione della prassi empirica, e ne ignora la profondità metafisica, il cui riconoscimento gli sembra magari roba da new age, compie un’astrazione mentale che ricalca e fa apparire necessaria la corrispondente astrazione reale quotidianamente operata dal modo di produzione capitalistico: è il funzionamento di tale modo di produzione, infatti, che nel sussumere l’uomo nel suo ciclo di produzione e di consumo, lo fa essere sola prassi empirica, e lo rende cieco ad ogni altro lato ontologico.

 

3. Tecnica e ambiente. Tutto ciò ci conduce ad un’altra questione nodale. Si è fin qui parlato del modo di essere personale degli individui come elemento antropologico realmente sussunto sotto il capitale in funzione della sua autoriproduzione. Ma si è anche accennato come in una situazione perfettamente analoga si trovi anche un altro elemento, quello cioè dell’ambiente dell’uomo. Anche se non è facile a capirsi, e non è questo il luogo in cui spiegarlo adeguatamente, l’ambiente dell’uomo non è ormai più la natura, ma è la tecnica. Certo, tutte le radici della vita umana stanno ancora nella natura, ma questa natura non è più la natura originariamente autoregolantesi, bensì è una natura regolata dalla tecnica, e condizionatrice dell’uomo soltanto attraverso le maniere in cui è a sua volta condizionata dalla tecnica, che col suo operare riduce le pratiche sociali a mero servizio obbligato delle sue funzioni. Queste funzioni costituiscono i soli binari su cui è fatto scorrere il mondo, e rappresentano perciò un ambiente necessitante. Chi oggi comprende correttamente come la tecnica sia il vero ambiente dell’uomo, e sia necessitante, commette però di solito il duplice errore di considerarla autonomamente autoriproduttiva, come se il suo incessante sviluppo non nascesse che da se stesso, e di concepire la sua necessità in maniera antropologicamente assoluta, come se non potessero più esistere in linea di principio soggetti e progetti, ormai sostituiti completamente e irreversibilmente da ruoli e funzioni. Il primo errore oscura il fatto che la tecnica è entrata nella fase attuale di sviluppo, velocissimo e senza più alcun controllo da parte di altre istanze sociali, soltanto da quando è diventata strumento di produzione del plusvalore, e fa così scomparire il capitalismo dietro la tecnica. Il secondo errore assolutizza la realtà storica e sociale facendone il criterio ultimo di giudizio, per cui ciò che è oggi sconfitto sul piano storico e sociale appare anche umanamente superato: un po’ come se, per farci capire con un esempio banalizzante, la considerazione economica e statistica che un certo paese sopravvive con i proventi delle attività mafiose fosse intesa nel senso che nessuno in assoluto dei suoi abitanti possa essere estraneo alla mafia, e che non abbia alcun valore essere estraneo alla mafia.

Questo tipo di cultura antiumanistica (della quale un ottimo esempio è il recente volume “Psiche e Techne” di U. Galimberti) è per noi una ideologia nemica, al pari di quella della sinistra. Essa, infatti, riducendo la realtà dell’uomo al condizionamento tecnico, negandone la dimensione etica, e sciogliendo la disumanità del capitalismo nell’ambiente della tecnica, fa apparire come necessario e inevitabile il modo in cui il capitalismo opera e appare nella pratica, e quindi contribuisce a renderne impensabile il superamento. Diciamo dunque con forza: siamo contro il capitalismo, e quindi siamo contro l’antiumanesimo della tecnica. Siamo dalla parte, con G. Anders, di quell’uomo che la tecnica ha reso antiquato. Le meraviglie del progresso scientifico (nel senso e nella direzione che la scienza ha nel mondo contemporaneo), e soprattutto di quello tecnologico, non ci incantano: il progresso scientifico non vale nulla, se non è accompagnato dalla giustizia e dal rispetto per gli esseri umani. Se potessimo, fermeremmo del tutto l’avanzamento scientifico nel campo dell’ingegneria genetica, perché sappiamo fin troppo bene che i suoi risultati, indotti dal capitalismo (non esiste in questo mondo una ricerca scientifica pura e disinteressata), rischiano di porre l’intera economia mondiale sotto il dominio ed il ricatto di pochi grandi centri di potere, di mettere nelle mani dei potenti armi biologiche da incubo, di alterare in modi imprevedibili e irreversibili i meccanismi della vita. Chi considera l’uomo legittimamente manipolabile dalla tecnica, adducendo come ragione che non esiste un’essenza immutabile dell’umano, e che l’umano è sempre stato una costruzione, è un nostro nemico, perché è un amico del capitalismo, quand’anche si consideri anticapitalista: è il capitalismo, infatti, che non riconosce alcun limite invalicabile alla manipolazione dell’umano. Per noi, invece, esistono limiti eticamente e ontologicamente inviolabili anche quando sono socialmente e storicamente valicati: la loro invalicabilità ontologica, in tali casi, non è mero fumo, ma, in quanto radicata nei principi di soggettività e di riconoscimento, costitutivi della dimensione umana e perciò mai eliminabili in assoluto, è sorgente di resistenza effettiva, pur se del tutto minoritaria, prospettazione di speranza, promessa di un’altra storia.

In una situazione nella quale non compaiono all’orizzonte possibilità di cambiamenti autentici, far vivere questa speranza implica per noi un lavoro che è essenzialmente culturale e morale. La nostra proposta è quella di una rottura profonda con la totalità dei ceti politici che si contendono il potere nei paesi occidentali, e insieme con l’intero mondo dei riferimenti intellettuali e delle realtà simboliche della sinistra e della destra. Ma soprattutto si tratta per noi di criticare e rifiutare le ideologie profonde del mondo contemporaneo, l’insieme di visioni della realtà, di “precomprensioni del mondo” (per usare ancora una volta il linguaggio heideggeriano) che contribuiscono a quella “sussunzione reale” della persona umana e della natura al capitale, della quale abbiamo parlato. E’ questo, lo ripetiamo, l’esodo interiore al quale alludiamo nel titolo. Si tratta di un lavoro lungo, che può apparire lontano dai pressanti problemi dell’oggi. Ma si tratta di un lavoro necessario per mantenere viva la speranza che le prossime crisi alle quali il nostro mondo andrà incontro, le crisi alle quali ci porterà la natura folle e distruttiva del nostro modo di produrre, consumare, vivere, non siano solo negazione di valori e di civiltà ma viva in esse il seme di un futuro più umano.

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