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Tav, l’accelerazione della democrazia che può far deragliare Mario Monti

Nique la Police

Qualche giorno fa su La provincia di Varese un lettore scriveva alla redazione per esprimere il proprio parere sulla Tav. Scriveva che i manifestanti notav gli sembravano quegli abitanti delle zone rurali inglesi che si opponevano alla realizzazione della prima ferrovia inglese che partiva da Manchester. Ricordava il lettore che nonostante le proteste, anzi le rivolte, degli abitanti di un territorio  allora notoriamente ribelle il progresso alla fine fece il suo corso. Certo, bisognerebbe far notare al nostro lettore come, nella zona di Manchester, il progresso avesse una certa dimestichezza con l’uso dei fucili di Sua maestà britannica. Pochi anni prima infatti in quelle zone era avvenuto il massacro di Peterloo, 15 manifestanti uccisi dall’esercito inglese ad un raduno di 60.000 persone, durante una manifestazione che chiedeva una reale rappresentanza democratica in parlamento. L’opposizione alla ferrovia di Manchester dell’epoca godeva quindi di una fresca memoria popolare sull’efficacia della repressione. E sono fattori che contano quando il progresso si impone.

Ma c’è un elemento decisivo nell’imporsi di una rete ferroviaria matura prima in Inghilterra poi, quasi contemporaneamente, nel resto del continente. Nonostante le rivolte nelle campagne, che in Inghilterra si nutrivano della memoria viva delle storiche sommosse per il pane e contro le enclosures, la ferrovia offriva un’accelerazione positiva dei rapporti sociali non solo l’imposizione di quelli economici. Che questa accelerazione dell’esperienza, economica come relazionale, fosse poi considerata un bene comune da tutelare lo vediamo, a parte gli Usa, dalla sostanziale nazionalizzazione delle ferrovie che subirono infine tutti i paesi capitalistici.

Quando Mario Monti nella conferenza stampa sulle decisioni del governo sulla Tav ha detto “la nuova linea andrà da Milano a Parigi in quattro ore” ha fatto quindi marketing con uno scopo comunicativo ben preciso.

 Si è rivolto all’ audience generalista convinto di vendere l’accelerazione dell’esperienza e delle relazioni sociali nello stesso modo, repressione compresa, con la quale è stata venduta durante la rivoluzione industriale. Dal punto di vista simbolico c’è però un grosso errore che si fa a bene rimarcare. Le ferrovie non solo più il simbolo di una accelerazione positiva delle relazioni sociali che unifica un paese. Al contrario, rappresentano, sul piano simbolico come su quello concreto, la netta differenziazione ormai avvenuta all’interno dei mondi contemporanei. C’è un settore di società che viaggia in alta velocità e un altro, più ampio, che affonda tra treni locali, sporchissimi Intercity e tradotte per pendolari. Dal punto di vista simbolico è qualcosa che oscura la possibilità di usare aerei low-cost perché tocca la dimensione quotidiana dell’esperienza non l‘onirico delle vacanze. Dire “tra Milano e Parigi in quattro ore” non è quindi comunicare l’esistenza di un interesse generale. E’ riprodurre, cercando di comunicare il contrario, una profonda spaccatura di possibilità d’accesso alle relazioni sociali già presente nella nostra società.

Allo stesso tempo, Mario Monti sa benissimo quale è il vantaggio strategico di cui gode la classe di cui fa parte: il potere di accelerazione, scomposizione e ricomposizione, dei rapporti politici e sociali. Chi governa e ha potere di regolazione su trasporti, comunicazione, finanzia, energia ha un potere di accelerazione sulle relazioni sociali, tecnologiche, logistiche, amministrative molto più grande di coloro che, in ultima istanza, dovrebbero controllarlo ovvero gli elettori. Per cui la popolazione e l’elettorato altro non sono diventati che dei terminali che devono accendere la luce verde di fronte a una serie di decisioni alle quali “non ci sono alternative”. Dalle decisioni sulla governance europea, all’energia, alle comunicazioni, ai trasporti.

La democrazia oggi si dispiega così: dall’alto si ristrutturano velocemente, anche conflittualmente ma con la necessaria discrezione tecnica e in nodi extranazionali, con la forza di tecnologie performative interi settori di società. Se c’è necessità, formale o politica, di un passaggio presso il popolo sovrano la decisione verrà sempre presentata con un “non ci sono alternative”. Dal taglio delle pensioni, alla Grecia, alla Tav, al fiscal compact le alternative, secondo questa retorica, non ci sono mai. Ma non si tratta di una retorica nata per caso. Alle spalle ha un processo di veloce ristrutturazione e di conoscenza performativa e accelerata del mondo, di esigenze di colossali settori del mondo finanziario, di impetuosa canalizzazione di grandi economie di scala. Tutto questo oggi non è percepito però più come un progresso complessivo ma come una accelerazione dei processi di divaricazione sociale.


Si comprende come ormai sia necessaria dal basso una accelerazione  della democrazia, dei processi di costruzione del sapere, della comunicazione, della pubblicità delle decisioni che bilanci l’ormai conclamata minorità  del 99 per cento sull’un per cento sul piano della democrazia reale. Perché chi viaggia in alta velocità fa parte delle reti di potere che ristrutturano velocemente, con saperi e tecnologie ad alta complessità, la morfologia sociale ed economica delle nostre società. Questo gap va azzerato. Altrimenti, nell’esercizio formale della democrazia, ci saranno sempre delle élite che avranno un vantaggio reale, decisivo che crea egemonia nel corpo sociale. E questo vantaggio significa impoverimento delle popolazioni, la posta in gioco ha poco di simbolico e molto di difesa della materialità della vita.



2. Tav e accelerazione della democrazia.


Nella difesa istituzionale della Tav colpisce prima di tutto una rigidità politica simile a quelli del periodo dell’unità nazionale. Viene usato lo stesso lessico, la “fermezza” ad esempio, che veniva utilizzato durante i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro. Non solo, si cerca di ripetere esplicitamente una marcia dei quarantamila, stavolta a favore della Tav, proprio evocando una esperienza del periodo. Non c’è da stupirsi: il crinale che sta tra anni ‘70 e anni ‘80 rappresenta per le istituzioni attuali una Peterloo vista secondo l’ottica del vincitore. Ovvero di una battaglia risoltasi, con un esito storico, a favore delle forze della rivoluzione conservatrice. E’ il modo con il quale Monti getta tutto il peso dell’apparato istituzionale, partitico, comunicativo sulla vicenda Tav. In nome di una miriade di appalti e un piano di project financing sulla Valsusa, quest’ultimo la seconda gallina dalle uova d’oro sulla Tav e vero artificio prodotto dalle grandi opere, si schiera addirittura tutta la rigidità politica dell’unità nazionale. E quando questa rigidità si manifesta ogni campo della vita sociale, ben oltre la Tav, è destinato ad incontrarla se il dispositivo non comincia a dare evidenti segni di malfunzionamento.

In questo contesto, dove i media sono connessi in empatia con le esigenze istituzionali, è importante capire come le pratiche di accelerazione della democrazia riescono ad impedire il funzionamento del dispositivo di unità nazionale. Che gode, rispetto all’esperimento originario degli anni ‘70, un consenso sociale infinitamente minore. Gli anni dell’unità nazionale Dc-Pci, oltre ad avere una robusta infrastruttura sindacale e partitica a sostegno, hanno costruito consenso redistribuendo carriere, reddito, piani per l’occupazione, decentramento politico e amministrativo, uso della P.A. come collettore clientelare e ammortizzatore sociale. Con molta disinvoltura Mario Sarcinelli, ex direttore di Bankitalia, l’ha anche detto pubblicamente “il debito pubblico si fece forte in Italia quando abbiamo dovuto finanziare l’esito della l’enorme conflitto di classe di quegli anni”. Gettando tutto il peso politico e istituzionale sull’esito della Tav, in una operazione che ha anche tratti disperati, Mario Monti oggi non ha quindi la base materiale di consenso di allora. Sindacati e partiti sono ridotti a residui e dove Pci e Dc redistribuivano concretamente Monti, altrettanto concretamente, taglia. Dal punto di vista di Monti l’elemento di forza, sul piano dell’opinione pubblica, sta in una società spoliticizzata perché appena il tessuto sociale si politicizza il consenso alle istituzioni evapora non avendo ormai alcuna base materiale. La più recente negazione del referendum sulla Tav, dopo la neutralizzazione del risultato dei referendum del 2011, è quindi destinata a pesare nelle reazioni del corpo sociale. Ma per impedire al dispositivo istituzionale, politico, mediale, di governance messo in campo per portare a fine l’operazione Tav non basta l’ampiezza del dissenso. Ci vuole una pratica permanente di accelerazione della democrazia in grado di rendere ampiamente difficoltoso il funzionamento del dispositivo e il dispiegarsi degli automatismi.


Come sostenuto in un altro articolo i conflitti contemporanei si giocano su un doppio piano indissolubile: quello del terreno fisico e quello dello spazio digitale comunicativo. Le questioni sul terreno sono giustamente giocate da chi lo vive, come la piazza è governata da chi la pratica. Visto poi che le istituzioni hanno messo sulla Tav il peso dell’interesse generale, lo spazio comunicativo digitale diventa ineludibile per determinare l’esito del conflitto in atto. Su questo piano digitale comunicativo tre sono gli elementi di cui tener conto: accelerare la democrazia per togliere consenso sia al governo che alla governance, scomporre il residuo consenso ai partiti strategici per la realizzazione della tav, definire un reale modello di sviluppo alternativo a partire da questo conflitto e anche la sua dimensione simbolica.
Ma come funziona l’accelerazione della democrazia?

Vediamo prima di tutto come funziona, schematicamente, l’accelerazione del dispositivo liberista di fronte ad ogni emergenza. Una volta individuato il piano di intervento, coprendo le manovre sul terreno fisico, si attuano tutti gli automatismi mediali necessari a legittimarle coprendo ogni interstizio comunicativo della società. Non solo usando i media generalisti ma anche attivando una vera e propria remediation tra vecchi e nuovi media (di qui l’importanza di leggere Grusin e Jenkins in ottica antagonista) e le più classiche strategie di marketing virale (detto anche guerrilla marketing che ha generato, lo vediamo in questi giorni, una controguerriglia marketing protav). Il funzionamento di questo dispositivo lo si misura in due modi a) quando ha la convinzione di rappresentare le proprie argomentazioni come coerenti (e le critiche subordinate) b) quando ha la convinzione di rappresentare i testimonial protav, più una serie di testimonial imparziali che legittimano di riflesso la serietà dei protav e delle istituzioni (modello Don Ciotti), come popolari e capaci di attirare consenso.

E’ evidente, essendo rimasto a Monti il solo piano della rappresentazione, che sono queste due modalità che vanno disgregate. Specie togliendo al dispositivo mediale protav la propaganda sulla superiorità morale del proprio operato che si sta costruendo. Fino ad adesso, sul piano della comunicazione, la rete si è mossa in modo opposto rispetto a quanto scrive Diamanti su Repubblica. Non costruendo un romanzo popolare emozionante, come sostiene Diamanti che deve rappresentare la tav come razionale e i notav come emotivi, ma accumulando ragioni scientifiche e controinformazione sulla propaganda. Il rischio, in questa situazione, è di impantanarsi in un continuo botta e risposta rispetto alla propaganda, argomentativa e scientifica, facendo in modo che a servire la palla sia un giocatore solo.

Quello che è necessario è fare in modo che l’intelligenza collettiva di rete, a sostegno delle ragioni notav, acceleri le proprie pratiche di connessione che stanno nella propria natura democratica e acentrica. Non solo rispondendo alla propaganda ma producendo direttamente immaginario che circola nelle connessioni comunicative, ormai nello stesso cervello della connessione sociale. Ad esempio accelerando i nodi di contatto per produrre  una serie regolare di clip, presentati alla stampa generalista che non può ignorarli e pretendendo (in nome della democrazia) la pubblicazione del link, dove si presentano i personaggi positivi della valle, le storie di solidarietà, la vita che si vuol tutelare mandando un messaggio sia locale che generalista. Quando è l’intelligenza collettiva, critica per costituzione, non ne viene fuori un prodotto di propaganda ma vita reale che comunica qualcosa di vicino all’effetto di  Obama alle primarie 2008. Indubbiamente questo accelera i nodi di collaborazione nella rete ma mette anche in discussione il feudalesimo dell’informazione italiana, il diritto a farsi vedere pubblicamente nella società (e non solo a vedere eternamente Pierferdinando Casini).


L’accelerazione operativa è qui accelerazione della democrazia perché agisce nell’interesse generale scomponendo il feudalesimo presente nell’informazione italiana, vero punto di forza del dispositivo istituzionale. L’audience del governo è così destinata a calare comunque: se nega la democrazia d’accesso alla visibilità, grazie alle polemiche conseguenti, o se acconsente. Per quanto riguarda le vere guardie pretoriane del consenso spoliticizzato liberista, le trasmissioni generaliste del pomeriggio e della domenica, probabilmente è il momento di aprire una vertenza sul diritto a presentare le proprie ragioni ad una vasta platea. Chi chiede di parlare a tutti e dialogare nelle trasmissioni del pomeriggio non può essere rappresentato come un violento. Del resto a Buona Domenica con la Venier ci andò la Gelmini, “per spiegare la riforma della scuola agli italiani”, non si vede perché non ci deva andare un sereno valligiano a raccontare le proprie ragioni su una storia che interessa tutti. Quanto ai talk-show, dove la battaglia è stata vinta, vanno più presidiati che altro. Ci sono continenti dello spazio comunicativo digitale, come si vede, che sono decisivi e non ancora toccati.

Come, ad esempio, le redazioni dei giornali. Si lamentano dell’aggressività dei notav? Niente di meglio che chiedere di fare assemblee aperte con i principali direttori di giornali, discutendo del modo di impaginazione della notizia che oggi non è certo neutrale. E’ democrazia mica brutalità. Chiedendo anche di aprire forum permanenti in rete dove i direttori discutono regolarmente con i lettori, e quindi non solo con gli imprenditori o i senatori, su come sono state impaginate le notizie. L’ha fatto il direttore del telegiornale della Ard tedesca non si vede come non si possa scomodare Bianca Berlinguer. D’altronde l’informazione è bene e servizio pubblico. Accelerando le connessioni della rete, si accelera la democrazia, svecchiando le pratiche comunicative feudali di questo paese producendo così un bene comune.  Se sarà un problema per Mario Monti, che gira il mondo ripetendo obsoleti mantra economico-finanziari, ce ne faremo sicuramente una ragione. In questo modo, accelerando le relazioni comunicative di rete in quantità e qualità, democratizzando l’informazione feudale, si toglie consenso al governo Monti e alla governance dell’opera sul territorio. Allo stesso tempo, se il mainstream nega tutto questo si mette in difficoltà da solo rispetto alla propria audience. Abbiamo un sistema politico di notabili e uno feudale di informazione che vivono, legittimandosi verso larghe fasce di audience, usando la democrazia come pretesto. Se si sa far politica, la negazione pubblica delle pratiche di democrazia mette in difficoltà, sul piano dell’immagine, il dispositivo Monti quanto la loro accettazione

Si comprende così come si renda malfunzionante la propaganda del governo Monti ma è ancora più importante capire come sia la governance dei territori ad incepparsi. Verso l’esterno, i territori o i settori da loro regolati, i dispositivi di governance si reggono a causa di due astrazioni. La prima  è quella del potere normativo a loro delegato. La seconda è il presupposto che la volontà generale, che in ultima istanza legittima questo potere normativo, non comunichi elementi di serio e continuo dissenso rispetto al loro operato. Infatti non c’è niente di peggio per un dispositivo di governance che un problema di immagine inteso come riflesso della volontà popolare. Accelerando la democrazia è quindi possibile mettere in difficoltà, agendo sull’immagine, i dispositivi di governance che regolano i lavori e, ancor meglio, a quelli che ne istituiscono il project financing.


Un altro elemento da scomporre è la solidità dell’allenza tra i partiti che sostengono la Tav. Inutile soffermarsi sull’Udc e sul declino del partito berlusconiano. Il nodo, anello decisivo e debole, è il Pd, tanto diviso sul piano delle correnti quanto compatto come gruppo dirigente e parlamentare sulla Tav (a riprova che è l’appalto prima della spartizione il vero potere costituente del Pd.) L’intelligenza collettiva dovrebbe saper organizzare, sia nello spazio mediale che in quello fisico, eventi di informazione dell’elettorato del Pd. Diffondere lettere, già ci sono, e videomessaggi di dissociazione dell’elettorato PD dall’operato del suo gruppo dirigente, saper connettere tutto questo come un evento collettivo e liberatorio (in effetti gli elettori del PD ne hanno un gran bisogno esistenziale prima ancora che politico). Anche qui si tratta semplicemente di accelerare processi che sono in essere. E la regia dell’intelligenza collettiva può farcela, può mandare in corto circuito il gruppo dirigente del PD meglio ancora che per quanto avvenuto col referendum sul 2011 dove il mainstream è stato battuto.


Questi due piani, accelerare la democrazia e scomporre il consenso attorno al PD, se ben esercitati fanno deragliare Monti sulla tav. Anzi, a quel punto l’intelligenza starebbe nel farlo deragliare senza che si faccia troppo male. Perché le classi dirigenti italiane non hanno ancora capito che nella storia si vince e si perde. Il ricordo della loro vittoria di Peterloo gli ha ottenebrato il senso storico.

Il terzo, saper costruire su questo un modello di sviluppo alternativo, regala un futuro a questo paese, altro che lo spread, il rigore e l’austerità dei riti funebri di Napolitano.

In materia si rimanda volentieri agli ottimi articoli e testi di Guido Viale. Ma si ricorda anche che, oltre ad essere un cumulo di pratiche e di argomentazioni, un modello di sviluppo deve avere un carico simbolico per circolare. Lo spazio digitale della comunicazione, su questo piano, nelle società contemporanee ha bisogno del simbolico come la rivoluzione industriale necessitava di invenzioni tecniche.


Infine, non dimentichiamolo, le classi popolari britanniche, facendo tesoro degli insegnamenti di Peterloo, si unificarono nella prima grande classe operaia dell’occidente capitalistico. Until lambs become lions, come ricordava anche Robin Hood. Che altro non è che la prima saga popolare, nata dalle campagne, che ha nutrito l’epica delle lotte contadine prima e della classe operaia poi. Le pecorelle lasciamole al mainstream, è tempo di diventare leoni, in modo nuovo.

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