Print
Hits: 2265
Print Friendly, PDF & Email
utopiarossa2

Il governo Monti e il consenso bipartitico nella postdemocrazia italiana

di Michele Nobile

1. Dall’appello allo stato d'emergenza contro Berlusconi alle chiacchere sul colpo di Stato del professor Monti.

Quando il Presidente della repubblica Napolitano conferì l’incarico di formare il governo a Mario Monti si gridò al colpo di Stato, alla democrazia sospesa e all’avvento del «governo delle banche»; curiosamente, pasdaran berlusconiani, leghisti e sinistra hanno usato e usano toni e idee simili. Ma questi sono gridi che dal lato sinistro stridono con altri già sentiti per anni. Le banche e la Confindustria non erano forse già al governo? Marchionne non praticava già una sorta di fascismo aziendale spalleggiato dal governo? E il «blocco reazionario di massa» che fine ha fatto? È con Monti o con Berlusconi? E che ne è di quel presunto specifico «regime» berlusconiano che per essere tale doveva pur mostrare di disporre di qualche muscolo? E che nuovo genere di colpo di Stato o imposizione da parte dell’oligarchia straniera è mai questa che ha il sostegno parlamentare dei due maggiori partiti nazionali che nella logica maggioritaria dovrebbero alternarsi al governo? Cos’è, un golpe ultraparlamentare invece che antiparlamentare?

Oppure, l’ascesa di Monti è forse la realizzazione del sogno putschista di Alberto Asor Rosa? Si ricorderà che un anno fa, oltre a paventare come tanti «la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire», Asor Rosa riteneva «incongrua una prova di forza dal basso»; auspicava, invece, l’intervento del Colle, lo «stato d'emergenza», il ricorso a Carabinieri e Polizia di Stato, il congelamento delle Camere (1). Il tutto a difesa della democrazia...

Se ci si ferma al caso individuale, si potrà dire che l’invocazione putschista di Asor Rosa fosse la senile espressione di quell’autonomia del politico che negli anni Settanta legittimava il compromesso storico tra i grandi partiti popolari, il Pci e la Democrazia cristiana. Ovvero dell’operazione che neutralizzò l’espansione della democrazia di base per convogliarla in morti canali istituzionali, attuò una politica consociativa nella quale veniva meno il ruolo dell’opposizione parlamentare (e quindi del normale funzionamento del parlamento), diede inizio alla legislazione d’emergenza antigarantista (la Legge Reale, l’antiterrorismo all’insegna del fine che giustifica i mezzi), accelerò la statalizzazione dei partiti (d’opposizione, oltre che di governo), impose ai lavoratori l’austerità che d’allora non ha più avuto fine, creò le basi per l’offensiva padronale gestita in proprio (i licenziamenti Fiat del 1980); dell’operazione, insomma, durante la quale si posero le basi dell’attuale regime postdemocratico. Tuttavia, in termini più attuali e generali può dirsi che Asor Rosa abbia dichiarato ciò che altri non hanno il coraggio di ammettere neanche a se stessi: l’assunzione dello Stato come risolutore in ultima istanza dei problemi politici fondamentali, ultimo orizzonte della politica. È questo il senso della dichiarazione di incongruità della mobilitazione del dèmos a difesa della democrazia: che poi esprime la oramai compiuta statalizzazione dei partiti e la subalternità senza vie d’uscita della sinistra post-Pci ed ex gruppettara. Qualcosa che risulta da una pluridecennale pratica di uso strumentale della mobilitazione sociale e della partecipazione politica al fine dell’integrazione di questa sinistra nel sistema dei partiti e del conseguimento di seggi nelle assemblee elettive, con i relativi benefits del finanziamento pubblico: senza seggi e senza denari questa sinistra non potrebbe partecipare allo spettacolo politico né proporsi come ponte tra piazza e Palazzo. Per questa stessa ragione la sinistra non vuole comprendere né può ammettere, perché l’ammissione equivarrebbe al suicidio politico, che nel corso dell’ultimo trentennio si è verificata una trasformazione dei sistemi politici detti liberaldemocratici, strutturale e irreversibile. Di questa trasformazione è parte integrante e determinante la mutazione della stessa sinistra.

 

2. I precedenti del governo di Monti.

Quello di Monti non è certo il primo «governo tecnico» italiano né il primo con un’alta percentuale di professori universitari. Anzi, sui professori in politica
e al governo come figure distinte dal politico-intellettuale o dall’intellettuale impegnato (figure che possono anch’esse avere una posizione accademica ma che non sono caratterizzate dalla posizione professorale) esiste tutta una letteratura, il cui senso è che il rilievo dei professori segna il passaggio dall’intellettuale organico alla politica di partito alle policies statuali, dall’ideologia partigiana alla competenza professionale (2). L’ascesa politica del professor Romano Prodi ne fu esempio eclatante e, nel complesso, è certamente il centrosinistra che meglio può valersi del discorso e delle risorse professorali e «tecniche», cedendo al centrodestra la demagogica pretesa di rappresentare la volontà popolare e la politica: su questo piano non c’è gara tra Maria Stella Gelmini e Luigi Berlinguer o Tullio De Mauro. Facile, viceversa, il sarcasmo sull’uso politico della bellezza muliebre da parte di Berlusconi o sulle volgari intemperanze plebee di un Bossi o di un Calderoli. Uno stile (che è anche una sostanza) che giustamente turbano la coscienza del sincero cattolico e fanno fremere d’indignazione l’onesto liberale, suscitando anche imbarazzo sulla scena internazionale. Sull’altro versante è però da notare che all’ascesa della «competenza» e della «responsabilità» corrisponde un netto declino delle qualità ideali e umane del personale politico.
 
Per quel che poi riguarda la procedura di nomina del governo «tecnico», si può dire che autentica eccezionalità, nel senso proprio di decisione di vertice presa in condizioni eccezionali e quindi di grande momento politico rispetto alla prassi della costituzione materiale, furono gli incarichi conferiti dall’allora presidente Scalfaro (vicino al nuovo centrosinistra) ad Amato, a Ciampi e a Dini: gli anni tra il 1992 e il 1996 possono a ragione definirsi come un regime semipresidenziale di fatto, imposto dalla crisi di legittimazione prodotta da tangentopoli e dalla conseguente destrutturazione dei partiti che avevano governato l’Italia per quasi mezzo secolo, e poi dall’instabilità della maggioranza di centrosinistra, regime semipresidenzialeaffermato ancheattraverso interventi di merito del Presidente sull’azione governativa e sulla tenuta della maggioranza. Erano gli stessi anni emergenziali della crisi della lira, delle frenetiche manovre per la convergenza intorno ai parametri di Maastricht, degli accordi concertativi con i sindacati confederali: insieme alla costituzione materiale della politica cambiava l’ancor più materiale costituzione dei rapporti tra Stato ed economia.

Ciampi fu il primo presidente del consiglio non parlamentare e quello di Dini fu il primo governo costituito interamente da non-parlamentari, in gran parte neanche iscritti a un partito. In entrambi i casi la lista dei ministri venne decisa insieme al Presidente della repubblica; e sia Ciampi che Dini provenivano dal
vertice della Banca d’Italia: i loro potrebbero dunque dirsi governi presieduti da banchieri delle banche (3). Ovviamente questi non erano governi tecnici, ma non perché un ex governatore o direttore della Banca d’Italia rappresenti il «governo delle banche». Nell’ascesa di questo tipo di altissimi burocrati si può vedere la preminenza cui è assurta la politica monetaria nei paesi a capitalismo avanzato e, in termini più generali, la rappresentanza del capitale nella sua totalità quale è incarnata, appunto, dalla funzione di gestione della moneta, equivalente per tutti e sopra tutti i singoli capitali: è questo che rassicura il mercato finanziario e che consente la convergenza bipartitica.

Ciampi ottenne l’astensione del Pds e della Lega nord; il governo Dini, che per composizione, modalità di formazione e quadro dei partiti presenti in Parlamento è il più stretto precedente del governo Monti, ottenne alla Camera l’astensione del Polo della libertà e il favore della Lega nord, risultando però suo supporto più fedele il centrosinistra, come oggi pare essere con Monti (sull’appoggio a Dini si ebbe anche la scissione degli ingraiani doc, Magri, il segretario Garavini ecc., dal Prc).

Incidentalmente: con Dini e Scognamiglio, Monti fu tra coloro che vennero presi in considerazione come candidati alla guida del governo già nel gennaio 1995; e nell’aprile 2001 Monti rifiutò eventuali incarichi ministeriali sia per il centrodestra sia per il centrosinistra, preferendo la posizione di commissario europeo (bipartico).
 

3.
Governo delle banche? Diciamo, piuttosto, che la nomina di Monti esprime il consenso bipartitico nella postdemocrazia italiana.

Lanomina di Monti a presidente del consiglio non è stata altro che l’ennesima conferma che Berlusconi, senza dubbio l’animale politico più spettacolare visto in Italia e abilissimo accaparratore di voti, non è mai stato considerato affidabile dall’establishment internazionale: non certo per motivi ideologici o morali, ma proprio per l’insoddisfacente valutazione delle competenze di governo della sua coalizione, specialmente per quel che concerne la capacità di proseguire nella linea delle cosiddette riforme strutturali riuscendo nello stesso tempo a neutralizzare il conflitto sociale, ridurre le tensioni sulla scena politica, ottenere un sicuro consenso da parte dei sindacati confederali. Basta aver letto The Economist e il Financial Times per rendersene conto.

Mentre la crisi faceva il suo corso coinvolgendo prepotentemente l’Italia, una soluzione andava trovata, evitando l’effetto d’incertezza legato alla convocazione d’elezioni anticipate: una soluzione apparentemente tecnica, appunto, ma nel senso della concretizzazione di quel consenso bipartitico esistente al di là della lotta rappresentata nel teatro politico tra le due fazioni della casta politica dell’imperialismo italiano. Per quel che conta il mio parere personale, non ho mai dubitato che il quarto governo Berlusconi non sarebbe arrivato a fine legislatura; tuttavia confesso che mi aspettavo ciò avvenisse principalmente a causa del montare della tensione sociale. È da apprezzare, invece, la mossa che tali tensioni mira a contenere facendo ricorso a una figura più accettabile dall’opinione pubblica, capitalisticamente pura, libera da quel conflitto d’interesse e da quei procedimenti giudiziari che da sempre affliggono l’esuberante gerontocrate e fastidiosamente hanno interferito con la concentrazione dell’azione di governo sulle questioni che interessano il capitale nazionale e internazionale nella sua generalità.
 
La storia politica e intellettuale di Mario Monti ne fa l’ottima incarnazione di un consenso ampio e bipartitico, ribadito dalla fiducia ottenuta in Parlamento dai maggiori partiti, un uomo la cui esperienza di alto eurocrate è gradita anche al capitale internazionale (non solo finanziario). Monti divenne commissario europeo per il mercato interno nel 1994, su indicazione del primo governo Berlusconi; fu poi confermato commissario (per la concorrenza) dal governo D’Alema nel 1999, nella Commissione europea presieduta da Romano Prodi. È da ricordare che quelli erano gli anni gloriosi della terza via di Tony Blair e Gerhard Schröder (coalizione rosso-verde tedesca nel 1998), della gauche plurielle di Lionel Jospin, che tanto piaceva a Bertinotti, di Billy Clinton e degli anni ruggenti (in verità al capolinea) del «keynesismo di borsa». In Grecia il Pasok vinceva (di nuovo) le elezioni nel 2000 e nel 2004 le vinceva in Spagna il Psoe di José Luis Zapatero, così simpaticamente cantato da Sabina Guzzanti e tanto ingloriosamente tramontato. Altro che destra trionfante!
 
Si dirà, a riprova del fatto che si tratti di un uomo delle banche, che Mario Monti è stato consigliere per la Goldman Sachs. Ma anche Romano Prodi era stato consigliere per la Goldman Sachs e anche per la Unilever e proprio per questo fu a suo tempo indagato, e prosciolto; e, molto più importante, che dire del ruolo di Prodi nella svendita del patrimonio dell’Iri, nell’entrata di Paribas nella Comit (1989), nella privatizzazione delle banche «d’interesse nazionale» controllate dallo stesso Iri? Quello fu un ruolo veramente storico. I meriti così acquisiti da Prodi nei confronti del capitale internazionale fanno impallidire anche quelli di Monti; quanto a Berlusconi, da questo punto di vista egli è semplicemente uno zero. Furono quei meriti che valsero a Prodi la chiamata a dirigere il nuovo centrosinistra. Parrebbe, dunque, che il buon elettore di sinistra (4), incluso quello nostalgico del Pci, abbia per anni votato per qualcosa non dissimile dal governo delle banche; e che Rifondazione comunista, Pdci e Verdi abbiano per anni cercato, e ancora ricercano e non possono non farlo se vogliono imbarcarsi in Parlamento, l’alleanza con la parte politica nazionale più credibile per il capitale internazionale. Per quest’ultimo punto, in effetti, le cose stanno esattamente così.
 
L’idea che la nomina Monti sia una sospensione della democrazia mi pare conseguire dall’interiorizzazione della falsa e mistificante nozione che in regime liberaldemocratico possa esistere un contratto fra elettori e candidati. Idea alimentata dalla firma televisiva di Berlusconi del contratto con gli italiani, ma anche da tanta retorica centrosinistrorsa sui pregi della riforma elettorale antiproporzionale. In termini costituzionali questo contrattualismo non sta né in cielo né in terra giacché «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (art. 67 della Costituzione italiana); e non occorre essere marxisti o sovversivi per sapere che i rappresentanti eletti non rappresentano affatto i loro anonimi elettori come può essere per un avvocato in un procedimento giudiziario: questo è fatto acquisito in dottrina e in pratica da un paio di secoli a questa parte, almeno da Jean-Jacques Rousseau (ma tradizionalmente è stata la sinistra partitica ad alimentare l’illusione del carattere rappresentativo in senso forte delle istituzioni elettive). Se poi ci riferisce all’identificazione tra democrazia e partiti, allora bisognerebbe pur chiedersi se non sia il sistema dei partiti ad essere l’autentico sovrano politico che limita il potere del dèmos: e per quali interessi, politici e sociali, di casta (burocratica) e di classe (capitalistica), ciò accada.
 
È vero che non esiste un governo tecnico: il governo Monti ha ottenuto infatti la fiducia politica in Parlamento. La tecnicità di Monti consiste nell’incarnare il consenso ampio e bipartitico che, a sua volta, non può essere confuso con il cesarismo o bonapartismo che si rivolge contro le opposte fazioni tradizionali. Il problema sostanziale (e internazionale) dell’odierna democrazia rappresentativa è invece il fatto della statalizzazione dei partiti e della loro convergenza su un medesimo orientamento fondamentale. È questo il punto cruciale, non il presunto colpo di Stato o la democrazia «sospesa» (ma come si fa a sospendere la democrazia? Un regime parlamentare sospendibile non è più liberaldemocrazia), e precede di molto l’incarico a Monti. Inoltre, come già tra il 1992 e il 1996 (crisi della lira e della sterlina, che uscirono dal Sistema monetario europeo) e durante la lunga manovra di convergenza per far entrare l’Italia nell’eurozona, il governo italiano, che è pur sempre governo di uno dei capitalismi tra i più importanti del mondo (nonostante tutto), deve cercare di riscuotere la fiducia dei mercati. Questo è già da molto tempo nella costituzione materiale dello Stato liberaldemocratico italiano e nei suoi modi di articolazione con l’economia mondiale attraverso la partecipazione all’eurozona, formalmente definiti nei trattati internazionali. Che poi la sovranità non sia un dato assoluto è un fatto almeno dal lontano 1949, da quando l’Italia entrò a far parte della Nato e iniziò ad ospitare sul suo territorio testate nucleari o, ancor prima, dalla preventiva spartizione dell’Europa tra Stalin, Churchill e Roosevelt nelle conferenze di Teheran (1943) e Yalta (1945). Per favore, che non si caschi dalle nuvole!
 
La nomina del professor Monti risulta quindi in linea con una prassi già sperimentata in momenti critici; in quanto tale non può essere considerata come un improvviso e determinante vulnus alla capacità gestionale del sistema dei partiti nel suo complesso o una lesione della costituzione materiale. Il problema è a monte e la particolarità italiana va considerata non come eccezionalità nazionale, ma come espressione dell’evoluzione postdemocratica dei sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato. Che, è vero, in Italia assume forme e aspetti particolarmente demagogiche e nauseanti. Basta guardare i dati sulle astensioni per rendersi conto che esiste una crisi strisciante della rappresentatività dei partiti, che può divenire crisi di legittimità.
Che Monti riesca nell’intento di contenere la crisi della finanza pubblica italiana è altro discorso: ma la sfiducia degli operatori finanziari quali si esprime nel divario (il famigerato spread) tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi non esprime una valutazione solo sull’Italia ma sul complesso della gestione europea della crisi. Il cosiddetto «mercato» vede bene che la direzione assunta dalla politica economica europea è ora prociclica invece che anticiclica come nell’infuriare della tempesta che investiva il sistema finanziario privato, che essa spinge verso la recessione piuttosto che verso la crescita: ciò non può che comportare la riduzione delle entrate fiscali e quindi il fallimento dell’intera manovra di risanamento dei bilanci pubblici.
Mantenendo la rotta attuale ciò avverrà indipendentemente dall’apprezzamento di singole misure intraprese dal governo italiano o greco o spagnolo o portoghese.
 

Così come esiste una interna contraddizione in regimi che si vogliono democratici ma che fanno del loro meglio per mantenere le distanze tra il decision making politico e le istanze del dèmos, esiste una contraddizione tra la volontà capitalistica di usare la crisi per rafforzare il proprio potere sul dèmos e le misure necessarie a tamponarla.


4. La complementarietà di centrosinistra e centrodestra nella formazione del regime postdemocratico italiano.
 
Il nocciolo della questione è che quel che accade in questi mesi è l’epilogo del cambiamento della costituzione materiale della Repubblica verificatosi nel corso degli anni Novanta . Ma a quali forze politiche va attribuito questo cambiamento? Si identifica con la costruzione di un particolare regime berlusconiano? Oppure, se ad esso hanno contribuito sia il centrodestra sia il centrosinistra, come si ripartiscono le responsabilità?
 
È utile un minimo di periodizzazione. Nell’ultimo decennio del secolo scorso il centrodestra governò per complessivi 286 giorni, ma il centrosinistra nel senso stretto governò per 1816 giorni, che salgono a 2211 se si conta anche il governo «tecnico» di Dini (appoggiato dal centrosinistra, dalla Lega nord e dal centro democristiano, con l’astensione del berlusconiano Polo delle libertà). Dal 1994 al novembre 2011 il centrodestra ha governato per complessivi 3300 giorni, il centrosinistra per 2538 giorni, o 2933 contando Dini.

Se si ha il coraggio di guardare in faccia «l’arido vero», questi numeri, ai quali si potrebbero aggiungere quelli dei governi nelle singole regioni (dove Prc, Pdci, Verdi, Sel hanno avuto o hanno consiglieri, assessori e anche un Presidente regionale in governi di centrosinistra), ci dicono che negli ultimi anni l’Italia è stata governata in modo quasi equivalente da entrambe le coalizioni. A fronte di questi dati di fatto elementari solo la stabilità della leadership del centrodestra e la continuità di governo nel 2001-2006 (un’intera legislatura, ma la precedente era stata tutta del centrosinistra) possono spiegare come il
buon elettore di sinistra masochisticamente rassegnato al meno peggio possa vedere in Berlusconi il nemico assoluto.
Il cambiamento è stato dunque opera tanto dei partiti del centrodestra quanto del centrosinistra: il sistema dei partiti ha più che mai agito come l’autentico sovrano, decidendo in piena autonomia (con l’attiva tutela del Presidente Scalfaro) su questioni della massima importanza e in assenza di un processo costituente di natura democratica. Nei partiti la funzione di governo ha del tutto soverchiato quella rappresentativa: ciò sia dal lato borghese, con la fine della vecchia Dc, sia e in modo ancor più determinante, con la mutazione dell’ex Pci e dei suoi frammenti.

 

Per quel che riguarda lo specifico apporto del centrodestra alla mutazione della democrazia rappresentativa italiana e dell’equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato, per ampio consenso si può dire che la sua peculiarità scaturisca dal conflitto d’interessi in cui è coinvolto Berlusconi. Ciò si può sintetizzare:
a) nel conflitto permanente con settori della magistratura, l’intento di limitarne l’autonomia, il lungo elenco di leggi ad personam e miranti a garantire l’immunità per le più alte cariche dello Stato tra le quali, fatto inedito, è inclusa quella di Presidente del consiglio dei ministri;
b) nell’inedito assommarsi di una posizione dominante nell’industria privata dello spettacolo e della comunicazione con il controllo della televisione di Stato che, indipendentemente dagli effetti reali sulle scelte elettorali dei cittadini, costituisce un’ulteriore e grave minaccia alla libertà dell’informazione e culturale o, in termini più generali, con l’assommarsi di potere politico, economico e televisivo;
c) nell’esasperata personalizzazione della gestione politica, connotata sovente come populistica e plebiscitaria, concretizzatasi nella legge costituzionale del 2005, bocciata dal referendum del 2006. Accantonando l’importante tema del federalismo, nel senso della concentrazione personale del potere erano rilevanti in quella legge le norme relative all’obbligo del Presidente della Repubblica di nominare capo del governo il candidato della maggioranza, all’ampliamento enorme dei poteri del primo ministro, le disposizioni antiribaltone. 
 
Per quel che riguarda l’equilibrio tra i poteri dello Stato e la svalutazione della certezza e uguaglianza nel diritto, il centrodestra ha indubbiamente dimostrato di avere un disegno (abbastanza) organico, perseguito con la massima tenacia, alimentato da una retorica dai toni «sovversivi» nei confronti di settori della magistratura, dalla celebrazione carismatica della figura di Berlusconi, dalla pretesa demagogica e in effetti antirappresentativa che il capo del governo e la sua maggioranza rappresentino la volontà popolare. Il tutto reso più grave dal saldarsi, specialmente quando al governo, della forte posizione oligopolistica nell’industria privata della comunicazione e dello spettacolo con la gestione della televisione di Stato. E, ovviamente, il garantismo solo per i potenti suona come un impulso alla corruzione e addirittura come la copertura dell’affarismo a fini privati da parte degli stessi detentori di cariche pubbliche (l’uso patrimonialistico dello Stato). La spettacolarizzazione e personalizzazione della politica, i limiti alla rappresentanza dei diversi orientamenti presenti nella cittadinanza, la concentrazione del potere nell’esecutivo, la degradazione delle garanzie giuridiche, la corruzione, insomma tutti quegli aspetti presenti anche in altri paesi si presentano esasperati nella prassi del centrodestra.

Nell’insieme l’azione del centrodestra configura una trasformazione che per la sua portata politica (non per i dettagli istituzionali) è equiparabile a quella della quinta Repubblica francese, all’avvento del regime gollista nel 1958.

Tuttavia il progetto più organico del centrodestra, la legge di riforma della Costituzione approvata a maggioranza nel 2005, venne bocciata dai cittadini nel referendum dell’anno seguente (il 61% dei votanti fu contrario, ma 47% di astenuti). Non solo: il centrosinistra ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione postdemocratica e semipresidenzialistica del sistema politico italiano.

Occorre infatti considerare quanto segue:

a) l’inazione da parte del centrosinistra, quando poteva farlo, in materia di conflitto d’interesse;
b) che il Pds a suo tempo fu determinante nella vittoria del referendum che impose la svolta maggioritaria e antirappresentativa contro il sistema elettorale proporzionale, con ciò alimentando la demagogia contrattualistica, la personalizzazione della politica e, quindi, la sua spettacolarizzazione;
c) l’approvazione da parte del centrosinistra delle riforme elettorali per le elezioni comunali, provinciali e regionali, in forza delle quali i sindaci e i presidenti delle province e delle regioni sono eletti direttamente, sono dotati di poteri prevalenti rispetto ai consigli e per cui vige il principio aut simul stabunt aut simul cadent secondo cui se il presidente è sfiduciato automaticamente il consiglio viene sciolto. In altri termini, al di sotto del livello nazionale il centrosinistra ha condiviso la logica semipresidenziale del centrodestra, inclusa la norma antiribaltone, che era propria della legge costituzionale respinta dal referendum del 2006. Del resto, nel 1999 Veltroni si era orientato verso la blindatura della maggioranza parlamentare attraverso analoga norma antiribaltone (facendosi anche bacchettare da Giovanni Sartori per l’enfasi sulla stabilità rispetto alla governabilità).
c) Personalizzazione e verticalizzazione della politica non sono affatto estranei al centrosinistra: la tendenza presidenzialistica esiste anche nei partiti, inclusi quelli post-Pci. Semmai, il problema del centrosinistra è che esso non è riuscito a dotarsi di una figura altrettanto stabile e carismatica. Certamente il centrosinistra partiva svantaggiato rispetto a Berlusconi, che per la spettacolarizzazione politica disponeva già di mezzi potenti, muovendosi, per così dire, nel proprio campo. Ma la ragione è essenzialmente politica: risiede nell’unità di direzione che il centrodestra ha avuto fin dall’inizio in forza di una maggiore omogeneità politica;
d) quanto allo Stato di diritto, il Pci aveva già enormi responsabilità nell’attacco al garantismo in nome del «il fine giustifica i mezzi», a partire dall’approvazione della legge Reale nel 1975 e dalla criminalizzazione del movimento del 1977, fino all’approvazione delle norme e della prassi che delinearono un sottosistema penale d’eccezione antigarantistico; è poi da ricordarsi che il cosiddetto lodo Schifani scaturì da un emendamento estensivo al lodo Maccanico (della Margherita) relativo alla sospensione dei processi penali alle più alte cariche dello Stato.
e) il centrosinistra (e prima il Pci, poi i partiti post-Pci) ha pienamente condiviso l’insulto alla volontà popolare espressa dai risultati del referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti, mezzo e motivo potentissimo per la statalizzazione degli stessi;
f) se il centrodestra è caratterizzato da un partito visceralmente xenofobo, fino al grottesco e all’irresponsabilità istituzionale (si ricordi la tragica vicenda della maglietta mostrata in tv dall’allora ministro Calderoli), e all’invenzione di quella mostruosità che è il reato di «immigrazione illegale» e ai vantati accordi con il tiranno libico, fu il centrosinistra a istituire i Centri di permanenza temporanea (Cpt) con la legge Turco-Napolitano del 1998. 
 
Se dal campo dello Stato di diritto e dell’equilibrio dei poteri dello Stato ci spostiamo verso quelli dei diritti socioeconomici, del rapporto tra Stato ed economia, e della politica internazionale, è invece il centrosinistra a detenere il primato assoluto.

Nell’ultima decade del secolo scorso fu il centrosinistra ad essere il protagonista della ridefinizione dei rapporti tra Stato (imperialistico), capitalismo italiano e capitalismi europei, attuato intorno alle privatizzazioni dell’industria e delle banche pubbliche e alla manovra di convergenza sui parametri di Maastricht come condizione per l’entrata nel nuovo sistema monetario europeo, con quel che comportava quanto a livelli di disoccupazione, precarizzazione del lavoro, relazioni industriali, riforma delle pensioni. In quel periodo il centrosinistra e i suoi governi nazionali ebbero anche l’appoggio di Rifondazione comunista, non continuativo, e la diretta partecipazione ministeriale dei Verdi e del Pdci (fondato, come scissione del Prc, per sostenere il governo Prodi, dopo la precedente scissione degli ingraiani doc come Lucio Magri per sostenere il governo Dini nel 1995). È stato il centrosinistra, non il centrodestra, a realizzare le più importanti «riforme» dette «neoliberistiche».
 
Ed è stato il nuovo centrosinistra ad agire, in occasione della guerra contro la Serbia, contro il dettato costituzionale dell’articolo 11, «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». A parte il vero e proprio colpo di Stato, è difficile immaginare un più forte colpo alla Costituzione e alla sovranità popolare di quello portato dalla decisione presa dal primo governo D’Alema di partecipare all’intervento militare Nato. In quel governo il Partito dei comunisti italiani e i Verdi avevano ciascuno due ministri (compreso Oliviero Diliberto) e tre sottosegretari: partiti e individui che, al di là di ogni ipocrita distinguo, portano interamente sulle loro spalle la responsabilità politica di aver continuato a sostenere e a far parte del governo di guerra. Questa responsabilità si estende anche al Partito della rifondazione comunista da quando, dopo aver votato la fiducia al governo imperialistico di Prodi in cui era ministro Paolo, nel luglio 2006 votò anche per le sedicenti «missioni di pace». Su scala miserabile quello fu il 4 agosto dei post-Pci e un altro terribile colpo al valore rappresentativo del Parlamento: il venir meno di ogni opposizione alla guerra e la scelta governista di un partito che della non-violenza e del pacifismo aveva fatto da poco una bandiera, e che anche per questo era stato votato, erano l’ultima dimostrazione della degenerazione della sinistra italiana e dell’involuzione auto-referenziale del sistema dei partiti, del quale «comunisti» e verdi sono una sottocasta subalterna (5).
 
Tirando le somme, si può dire che il centrodestra abbia esteso e, se possibile, abbia peggiorato o tentato di peggiorare quanto già il centrosinistra aveva realizzato o contemplato tra le possibilità. Ma sono stati i governi Amato 1° e 2°, Ciampi, Dini, Prodi 1°, D’Alema 1° e 2° a innovare profondamente la legislazione e i rapporti tra Stato e società in Italia.

Negli anni Novanta è stato il centrosinistra a costruire, stando al governo, l’ossatura del regime postdemocratico italiano entro il quale si colloca il governo Monti.
 

5. Italia-Europa, andata e ritorno nella postdemocrazia.

Come quello di Lukas Papademos in Grecia, il governo Monti e le crisi di governo che hanno accompagnato e accompagneranno lo svolgimento della crisi economica pongono inquietanti domande circa il valore della democrazia parlamentare e della sovranità nazionale in Europa. A queste domande ritengo si possa rispondere in modo coerente solo mettendo da parte la contrapposizione dualistica tra il livello nazionale e quello europeo e tra capitale finanziario (o monetario) e produttivo. Occorre anche analizzare il processo di costruzione dell’Unione europea e dell’eurozona con un’adeguata profondità temporale, cogliendone le motivazioni propriamente geopolitiche, relative ai rapporti tra gli Stati, in particolare tra Francia e Germania, e l’orientamento dei diversi capitalismi, in particolare di quello tedesco, nel processo che ha portato all’unificazione monetaria e nel quadro da essa determinato. 
 
Gli sviluppi della crisi hanno ampiamente dimostrato che non esiste un unico capitalismo europeo e, conseguentemente, un unico imperialismo europeo, non più di quanto esista un’economia globale caratterizzata dalla de-territorializzazione del capitale e da un processo di convergenza socioeconomica dei livelli di sviluppo economico e delle condizioni di vita (che sia verso il meglio o verso il peggio). La forma più generale e duratura della dinamica dell’economia mondiale capitalistica è ancora quella dello sviluppo ineguale e combinato, della riproduzione e trasformazione dei dislivelli del potere economico e della potenza politica in un sistema che è, nello stesso tempo, mondiale (che è qualcosa di più della sommatoria di economie e Stati nazionali) e gerarchizzato, unitario e contraddittorio. Ciò vale anche sulla scala del continente europeo, dell’Unione europea e dell’eurozona.
 
L’unificazione monetaria non ha fatto altro che dare nuova forma al meccanismo dello sviluppo ineguale e (altamente) combinato, ricco di interdipendenze, dei diversi capitalismi del continente. Nei primi anni dell’eurosistema la convergenza dei tassi d’interesse sembrò mostrare le virtù della rinuncia alla sovranità monetaria. In effetti, col venir meno della possibilità di svalutazioni competitive, si aggravavano gli squilibri continentali, che in parte riproducono la fisiologia dello squilibrio da quasi trent’anni esistente su scala mondiale. Anche nell’ambito europeo abbiamo infatti un polo esportatore, quello del capitalismo tedesco e di alcuni altri paesi (della vecchia zona del marco), la cui competitività è aumentata dalla moneta unica e dalla compressione dei salari e della domanda interna; e dall’altra parte una serie di paesi importatori, principalmente mediterranei che, per un breve periodo, si sono giovati dell’esportazione di capitale dall’area più competitiva e della riduzione dei tassi d’interesse. La crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti quindi ha rivelato sia lo squilibrio esistente nell’economia mondiale sia quello inerente all’Europa. Il trait d’union è costituito dal prevedibilissimo costo fiscale del salvataggio delle banche private, nazionali ed estere, che converte la crisi della finanza privata in crisi del debito sovrano (6).
 
La logica del potere di classe prescrive che a pagare i costi della crisi capitalistica siano le classi dominate europee. Tra queste, il peso maggiore ricade sulle classi dominate dei capitalismi e degli Stati più deboli. Questo accadrebbe anche in presenza di monete nazionali, ma il neomercantilismo dell’area più competitiva, la moneta unica e il monetarismo della Bce, combinati con l’inesistenza di meccanismi compensativi, la lentezza, l’inadeguatezza e le condizioni degli «aiuti» e la prospettiva di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, tessono una camicia letale quanto quella di Nasso. Sicché, potrà essere che l’Ercole europeo finisca per soccombere, frammentandosi in aree a diverse velocità e/o diverse unità monetarie.
 
Sul piano propriamente politico-istituzionale, l’Unione europea e l’eurosistema sfuggono a una definizione. È più facile dire cosa non siano che cosa siano: non sono uno Stato, neanche federale; non sono un’unica entità sociale ed economica. Non sono apparati che rispondano ai requisiti minimi di uno Stato parlamentare liberaldemocratico. Unione europea ed eurosistema sono strutture chiaramente e fortemente postdemocratiche: si valgono della retorica liberale e sono il quadro entro cui si collocano Stati parlamentari, ma non rispondono a quei criteri di rappresentatività e responsabilità politica che, almeno formalmente, caratterizzano i regimi liberaldemocratici; l’Unione ha tentato di legittimarsi dotandosi di un Parlamento europeo il quale, però, non detiene affatto i poteri di un parlamento nazionale. Nella crisi esso spicca per mutismo e inconsistenza politica.
 
Il nocciolo duro dell’Unione europea è costituito dai governi nazionali e dai loro delegati; e da quell’ampia burocrazia europeista che, pur avendo una propria logica d’apparato (più o meno) sovranazionale ed espansiva, in definitiva deve la propria esistenza a quella dei governi nazionali.

È sbagliato pensare che la postdemocrazia europea proceda unilateralmente dall’alto (dell’élite paneuropea) verso il basso (degli Stati nazionali). C’è un’interazione, ma il movimento decisivo è semmai inverso, dagli Stati verso l’alto. La spinta a superare lo stallo, le diatribe e la crisi quasi fatale dell’ambito europeo è venuta dalla Francia (quella socialista di
François Mitterrand), in accordo con la Germania (quella democristiana di Helmut Kohl). All’origine dell’unificazione monetaria fu infatti uno scambio politico tra Francia e Germania: la prima accettava la riunificazione della Germania dopo il crollo della Ddr, la seconda accettava di intraprendere un percorso che avrebbe portato alla fine del deutsche mark e di farsi imbrigliare, per così dire, in un ambito istituzionale inter-statale (piuttosto che autenticamente sovranazionale). Scambio, peraltro, non simmetrico, giacché la Germania spuntava comunque che la Banca centrale europea fosse costruita sul modello della Bundesbank (recalcitrante all’unificazione monetaria), il cui obiettivo è la stabilità dei prezzi in funzione di una politica neomercantilista d’esportazione (nel caso tedesco caratterizzata anche da un alto livello di centralizzazione della contrattazione) (7). Anche ora il destino dell’Unione è principalmente nelle mani dei governanti francesi e tedeschi.
 
Ancor più importante è un altro processo di cui si ha forse minor consapevolezz; o, perlomeno, pare insufficiente la comprensione delle relazioni e della reciproca influenza tra il livello paneuropeo e quello nazionale. Intendo dire che non è la cosiddetta eurocrazia che ha ristretto gli spazi democratici nazionali ma, viceversa, è il procedere della trasformazione in senso postdemocratico dei sistemi politici nazionali che ha reso possibile un determinato disegno istituzionale, funzionamento e orientamento politico delle istituzioni europee. Queste, quindi, devono essere viste come la proiezione, formalizzata e perciò anche potenziata, del movimento postdemocratico delle realtà politiche nazionali.

Ne consegue anche che, piuttosto di parlare di attentato alla sovranità nazionale da parte delle istituzioni europee (Commissione, Bce) e internazionali (Fmi), bisognerebbe partire dal fatto che la sovranità popolare (nozione già in sé discutibile) è in realtà già stata assorbita dai sistemi partitico-statali nazionali, autentici sovrani oligarchici.
 
D’altra parte, fin dall’inizio la storia delle Comunità e delle istituzioni europee (del carbone e dell’acciaio, dell’energia atomica, il Mercato comune europeo, la Comunità economica, fino alla Bce) fu fortemente verticistica e opaca, volutamente distante dalle istituzioni elettive, regno del funzionalismo presuntamente tecnico e delle mediazioni segrete, dedalo di normative e di lobbies, connubio di politica e capitale. Quanto a lobbies non mi riferisco solo al capitale finanziario ma al fior fiore del capitale industriale del continente. Quella che probabilmente è la lobby più influente, l’European round table of industrialists (Ert, tra i cui promotori figurava nel 1983 Umberto Agnelli) comprende 45 presidenti e Ceo delle principali multinazionali europee che, a quanto dichiarano, danno lavoro a 6,6 milioni di persone nel continente; i rapporti tra l’Ert e la Commissione europea pare siano stati particolarmente calorosi e politicamente fruttuosi durante la lunga e decisiva presidenza del socialista francese Jacques Delors (1984-1995) e si sono in certa misura istituzionalizzati attraverso la partecipazione di esponenti dell’Ert in un gruppo di lavoro ufficiale dell’Ue, il Competitiveness advisory group, il cui primo rapporto del 1995 fu firmato da Carlo Azeglio Ciampi (8). Non è questione di «governo delle banche» ma di capitale multinazionale sia industriale che bancario.
 
Con questo non intendo dire che le istituzioni europee siano state strumentalizzate dal capitale attraverso la conquista d’influenza e l’occupazione di posti ma che esse sono intrinsecamente capitalistiche: per struttura e per regole esse sono state determinate in modo da assicurare tanto la mediazione tra i diversi Stati capitalistici quanto la mediazione politica con il grande capitale con interessi continentali e mondiali. Il livello europeo, in altri termini, è da sempre quello in cui la mediazione politica in funzione dell’accumulazione del capitale (essenzialmente delle grandi società oligopolistiche e multinazionali) può svolgersi tutta all’interno della classe dominante, del suo personale economico, politico e accademico, prescindendo dalla mediazione verso il basso che può essere necessaria per assicurarsi un consenso elettorale. Le istituzioni europee sono state la prima forma embrionale della postdemocrazia ma hanno tratto linfa vitale e forma definitiva dal terreno nazionale, sia che i governanti fossero di centrodestra sia che fossero di centrosinistra. Tra il livello europeo e quello nazionale ora tende a chiudersi un circuito, di cui il governo Monti con appoggio bipartitico è un bell’esempio.
Se sul piano dei singoli Stati le radici della trasformazione postdemocratica dei sistemi politici precedono l’unificazione monetaria, essendo esse il risultato dall’evoluzione dei rapporti tra Stati e società (capitalistiche) nazionali nel corso del secondo dopoguerra e della progressiva statalizzazione dei partiti, in particolare di quelli di sinistra, e se tempi, modi e intensità del fenomeno sono diversi per ciascun paese, si può dire che il punto di non ritorno e la generalizzazione del fenomeno si collocano negli anni Novanta del secolo scorso, in concomitanza con il rilancio dell’Unione e con la decisione dell’unificazione monetaria. L’unificazione monetaria è stata, a sua volta, l’impulso e il quadro nel quale il mutamento postdemocratico si è compiuto.
 

Conclusione.
 
Da quanto sopra risulta, sul piano interpretativo, che la compromissione dello Stato di diritto e il degrado dei diritti sociali non conseguono solo o essenzialmente dall’occupazione del potere da parte di Berlusconi e soci e che i cambiamenti nella statualità dei paesi europei non possono essere imputati solo o essenzialmente all’utilizzo strumentale (o più rozzamente patrimoniale) dei poteri statali da parte di forze politiche neoliberistiche o di destra o criminalmente rapaci, nazionali e internazionali.
 
Questo strumentalismo è l’ultima espressione dell’attaccamento ideologico della sinistra post-comunista (post-Pci in Italia) al mito e all’eterna e frustrata speranza di sviluppi più o meno progressivi e partecipativi che mutino la natura sociale dello Stato capitalistico
 
Lo strumentalismo è miope nella capacità di definire i processi della trasformazione politica nel tempo e nello spazio. Non può vedere le radici pluridecennali, molteplici, internazionali e strutturali delle trasformazioni e della crisi strisciante della cosiddetta rappresentanza parlamentare. Non può accettare che in Europa sia giunta al termine l’epoca del parlamentarismo e, ancor peggio, che questa fine coincida con la fine di un’epoca della storia del movimento operaio e socialista e dei partiti e dei sindacati che ha espresso.
 
Lo strumentalismo è ipocritamente unilaterale perché pone in secondo piano o elude il fatto che i partiti di centrosinistra storicamente hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione del regime postdemocratico e all’attacco ai diritti sociali.
 
Lo strumentalismo ipocrita, unilaterale e miope della sinistra ha però una motivazione politica, che sia confessata oppure nascosta nella fraseologia emergenziale e apparentemente movimentista e ribellista: la necessità di realizzare, al momento elettorale opportuno, accordi di collaborazione subalterna con il centrosinistra, ammesso che questo ancora ritenga in qualche misura utile accordi del genere. Oppure si tratta semplicemente di discorsi destinati a finire nel nulla perché non rispondenti alla realtà.
 

Non si tratta di difendere la patria ma di battere innanzitutto il nemico in casa propria: è per questa via che si può costruire un movimento reale e popolare contro gli imperialismi europei.  

________________________________________________________

Note.

1)
Alberto Asor Rosa, «Non c'è più tempo», Il  Manifesto, 13 aprile 2011.

2)
Ma è pur vero che degli intellettuali il Pci, il Psi o i partiti postcomunisti hanno fatto un uso del tutto strumentale, circoscritto alla legittimazione della politica decisa e praticata dai politici. E dopo la stagione primo-novecentesca e lo stalinismo i dirigenti politici di sinistra non sono più stati anche intellettuali (nel senso forte di teorici): non avevano bisogno di unire teoria e pratica, ma d’essere essenzialmente dei praticoni. Nel caso italiano il divorzio fra teoria e pratica è stato coperto dalla rielaborazione di Gramsci da parte di Togliatti, che si fece forte delle ambiguità presenti in quel grande pensatore.

3)
Un precedente illustrissimo è quello di Luigi Einaudi, economista liberista, liberale e antifascista, primo governatore della Banca d’Italia nel secondo dopoguerra e primo Presidente della repubblica, votato anche dal Pci. Guardando fuori d’Italia, si può ricordare che prima di divenire direttore del Fmi Strauss-Kahn cercò di farsi candidare Presidente della repubblica per il Partito socialista francese e che se non fosse stato travolto dal noto scandalo probabilmente ci avrebbe riprovato.

4)
A proposito del «buon elettore di sinistra» e del centrosinistra, si veda il secondo volume della collana di Utopia rossa, La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di Sinistra nell'epoca del capitalismo assoluto, di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Massari editore, Bolsena, 2007.

5) Si veda I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale», Massari editore, Bolsena 2007, a cura di Roberto Massari.

6) Si vedano i dati riportati nella mia prima nota sulla crisi del marzo 2009, «L
a crisi nel contesto storico e la neo-ortodossia di Obama», ripresi da «Systemic banking crises: a new database», di Luc Laeven e Fabian Valencia, Imf Working paper, ottobre 2008.

7) Sulla storia e il mito della Bundesbank dalle origini all’euro: Jeremy Leaman, The Bundesbank mith. Towards a critique of central bank independence, Palgrave, Basingstoke e New York 2001. La questione del rapporto tra Bundesbank e politica è stata recentemente ripresa da Marcello De Cecco, di cui riporto la conclusione:
«Da tutto quel che sopra ho narrato, appare chiaro che le autorità monetarie tedesche sono quanto di più politicizzato sia disponibile in Europa attualmente nel settore. Le loro talvolta travagliate vicende indicano come la Buba e il circolo più ampio dei suoi sostenitori sia soggetto a oscillazioni nella capacità che ha di indirizzare la politica economica in Germania e di controllare la Bce. Sono, tali vicende, anche il riflesso delle lotte di potere che si conducono all’interno della classe dirigente tedesca. Un blocco informale di opinione e di potere che riunisce la gran parte degli economisti accademici tedeschi, la Corte Costituzionale Federale, una parte non trascurabile di grandi importatori tedeschi, specie nel campo dell’energia, che vorrebbe una politica nazionale verso la Russia e gli altri produttori di petrolio e gas orientali, e i grandi giornali popolari, nazionalisti e conservatori, si muove abbastanza scompostamente ma con decisione per favorire e spesso contrastare le azioni della politica, in particolare per quanto riguarda i problemi dell’Euro e del debito sovrano europeo. La Buba cerca di influenzare a suo vantaggio le azioni di tale blocco»; da «Quella lobby della Buba», Affari e Finanza di Repubblica, 23 gennaio 2012.

8) Si vedano il sito dell’Ert http://www.ert.eu/default/en-us.aspx e il rapporto del
Corporate Europe Observatory, Europe Inc. Regional and global restructuring and the rise of corporate power, Pluto press, London 2003. 

 

Web Analytics